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Il libro di Laura Pavia “Comporre la quiete”…di Domenico Pisana

L’universo metafisico della poetessa pugliese, attraversato da un profondo respiro filosofico
Tempo di lettura: 2 minuti

L’orizzonte dentro il quale si colloca la raccolta poetica Comporre la quiete di Laura Pavia, ha sicuramente un respiro filosofico – esistenziale di forte intensità semantica, e oggettivamente riversato su tutti gli aspetti della vita: il dolore, la gioia, la sofferenza, il bene, il male, la ricerca del senso, la fede, l’amore, la libertà, la speranza.
La poetessa, che risiede a Sannicandro di Bari, ha alle spalle un luminoso percorso letterario caratterizzato da diverse sillogi: “Sospiri di nuvola”, 2013; “Bisbiglia la notte”, 2015; “Quando la sera”, 2017; “La Miseria del Cielo”, 2019, “L’Ombra delle parole”, 2022; è, altresì, socio fondatore e Direttore del Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Accademia della Arti e delle Scienze Filosofiche di Bari.

Il simbolismo poetico del volume

Il corpus poetico del volume Comporre la quiete poggia su un’articolata espressione di momenti creativi (Quando la sera…; Le litanie della terra…e dell’assenza. Il tempo; La cura dei morti…la strada; Quell’attimo intorno…; A comporre la quiete) che convergono nell’unità di un “nous meditativo” che insiste, già dalle prime poesie della prima parte della silloge, in una sorta di “continuum” con i titoli delle pubblicazioni precedenti, avvalendosi dell’iterazione di lemmi che risuonano nella loro più vera significazione simbolica: “sera”, “ombre”, “notti”, “vespri”, “luce” e “cielo”.
La versificazione di Laura Pavia riesce ad evocare nel lettore una vasta gamma di emozioni e immagini: “Verso sera il niente – dice la poetessa – / riporta i cieli tra i corpi distratti / e di nuovo le ombre non sanno dove andare…”, quasi a simboleggiare la fine di un ciclo, la conclusione di una giornata, la transizione verso l’ignoto, uno stato di riflessione, di quiete e di contemplazione. Anche la notte diventa per la poetessa un anelito verso la quiete e la tranquillità:

Notte, dove più luce hanno le ombre,
mentre vicino muoiono gli uomini.
Voglio i silenzi al mattino
nelle campagne deserte.
Voglio la quiete impossibile,
e dentro accogliere lune.
Datemi soffitte, in quel luogo
dove venti posino notti a metà.
(Notti a metà, p. 17).

I binomi luce-tenebra, notte-giorno, oscurità-luminosità di cui la poetessa fa vibrare i suoi versi, si aprono, però, anche al “cielo” che racchiude infinito, ed eternità, il divino, la spiritualità, la libertà e la speranza, la bellezza, la vastità, la maestosità, la trascendenza, quasi a rappresentare un luogo di pace, di serenità, di rifugio e protezione dove si “rivela il dolore che punge”:

A volte supplico il cielo
quando la notte si fa silenzio:
cado in ginocchio perché
troppo lontana mi sembra la terra.
Smisuratamente perduta
sento che le cose dolorano
finché non si acquietano i morti.
E allora dolce è l’ombra
del cielo che vagabonda
di nascosto nell’aria che respiro:
non tradisce il mio cuore,
solo rivela il dolore che punge.
(Supplico il cielo, p. 23).

La rappresentazione – esplorazione di sentimenti universali

Una poesia tra cielo e terra, immanenza e trascendenza è dunque quella presente nella silloge Comporre la quiete, dove lo spazio descrittivo, ma anche quello temporale, è funzionale al procedere dall’amaro della sofferenza alla primavera e alla rinascita. Il tempo presente, il recupero memoriale, la condizione dell’attesa sono tessuti da un fermento di rappresentazione-esplorazione, da un’armonica orchestrazione del sentimento enunciato con tono lirico ricco di atmosfere simboliche poggiate su clausole conversative.
E così Laura Pavia cala nella poesia la battaglia delle idee, la vita e il bisogno di vita, la disponibilità e il vigore dell’azione, l’essenza del proprio essere morale e poetico, la luce della verità intellettuale e fiamma lirica; nei suoi versi, insomma, vive il dramma di un’ esistenza che patisce, che evapora spesso nel caotico imperio delle passioni, degli egoismi, delle sopraffazioni, in balia di marosi che vanno, senza meta, alla deriva d’una forza travolgente che delegittima principi e valori su cui si reggono l’ordine e la razionalità:

Le mani al viso una donna:
piangendo una casa smarrita,
mentre pietre piano segnano tombe
che tutti dimenticano.
Non c’è un secolo nuovo,
esiste solo la luna e un’alba
lassù che incoronano
la notte dove sempre dormono
gli uomini e il risveglio costa
la verità delle cose sbagliate.
(Una Donna, p.27);

Porto nel petto lo spreco del tempo
ad amare senza successo un Dio
all’improvviso.
Permetti il dolore, notte, questa
notte; lascialo accanto feroce
e perduto, mentre nell’oscurità
spezza una vita, parlando parole
bagnate che durano sempre.
(Notte, p.28);

La guerra siede all’ombra
sopra le vite mortali,
consumando l’altrui sorte
fino alle sepolture
di campi straziati.
(Guerra, p. 29).

La seconda parte della silloge, dal titolo Le litanie della terra…e dell’assenza. Il tempo, porta una epigrafe di Fëdor Dostoevski: “Chi non si inchina a niente non saprà reggere il peso di sé stesso”. E’ una frase che invita alla riflessione sull’importanza dell’equilibrio tra autonomia e riconoscimento dei propri limiti, che suggerisce sia l’importanza dell’umiltà sia l’idea che la libertà assoluta, senza alcun limite o vincolo, può essere un fardello insostenibile.
La poetessa trasfigura sentimenti con immagini di grande afflato analogico: “lo sgarbo degli angeli caduti…un artigiano / senza fede che spegne / le lune nei campi, e nei boschi rivolta / la terra con i corpi già ebbri di sangue”; evoca poi un senso di disillusione e di inquietudine di fronte alla natura effimera dell’esistenza, tant’è che nella poesia Il resto più non accade c’è un’immagine che suggerisce come il tempo sia un’entità indifferente che consuma sia la vita che la morte in un ciclo inesorabile : “Si nutre il tempo / della morte come dei vivi”.
Laura Pavia opera una sorta di circolarità ermeneutica tra l’illusione della misura (… la misura illude / i gesti e le voci…), la fragilità dell’esistenza (… e miserabilmente vivi / stupendoti ancora che tutto si frantumi…), la fine del tempo e l’inganno (…a perdita d’occhio / il tempo finisce / e inquieta l’inganno…) e il silenzio e l’orrore (…L’orrore è il silenzio / che bagna la terra / e il resto più non accade), per avvalorare l’idea che i tentativi dell’uomo di dare un senso e una struttura alla realtà sono fondamentalmente vani, e che c’è un senso di stupore e di miseria nel constatare la fragilità dell’esistenza.
Nella sezione La cura dei morti…la strada, la poetessa Laura Pavia affronta poi il tema della sofferenza, già richiamato nella epigrafe di Buddhadhasa, (“La sofferenza è un rospo, ma ha in testa uno splendido diamante: solo nella sofferenza si può sperimentare la fine della sofferenza”) ove rifulge una significativa metafora sulla natura della sofferenza e sulla via per superarla: se il “rospo” simboleggia la realtà di un’esperienza negativa da cui fuggire, il “diamante” rappresenta una via di crescita, di saggezza, perché anche nelle situazioni più difficili esiste per l’uomo la possibilità di trovare un significato profondo e di raggiungere la liberazione dalla sofferenza.
Il senso delle liriche di questa parte del volume è tutto nella “verità del documento”, nella coscienza del “vissuto”, nella preminenza dell’infor¬mazione; tutti momenti di un empito espressivo fatto di immagini e riflessioni. Ci si trova di fronte ad una poesia realistica e agitata da una processione di fatti riflessi negli affetti paterni, nella dialettica tra “il Bene e il Male / che crescono dentro amari…”, e nel volto della vita e, da lì, nello specchio del cuore del poetessa:

Scende la paura
come la pioggia e il tempo
bagnandomi, qui
in una fossa senza luce.
Vuoto ogni luogo intorno
e dentro il fuori è sangue.
Fa male il male
e la cura dei morti.
Datemi una strada
per inseguire il vento.
Sulle foglie la morte
è già un’altra vita.
(La cura dei morti, p.51);

Non era facile tornare
la sera nel luogo che separa
la vita da quel che è morto,
nel tempo ch’è muto
mentre si apre all’ombra e
alla memoria d’altri tempi.
Ti vidi, padre, nella parola
ch’era porto sicuro,
cura e riparo;
ti vidi nelle cose
che ancora cercano pace;
ti vidi in quella solitudine
della notte prima del mattino;
ti vidi e mi tornasti
ricordo all’unico abbraccio
rimasto sospeso.
(Ancora cerco pace, p.54);

Sono ombre il Bene e il Male
che crescono dentro amari.
È l’uomo qui mentre
si perde morendo
uno spazio spaventoso;
e quando l’abisso si apre
è fredda la notte.
(Uomo, p. 55).

La filosofia di un linguaggio aperto alla trascendenza

Laura Pavia palesa stupendamente “conoscenza e consapevolezza” del comunicare con una filosofia di linguaggio aperto alla speranza e al cuore della gente, esprimendo sensazioni vissute hic et nunc, nello spazio di un momento concreto, offrendoci un tipico sintagma simbolista che accentua la musicalità dei suoi versi ove ella si narra con una meditazione sincera e sofferta: “…Ho macchiato il tempo con la stella / del mattino, io che ho piegato / le ginocchia alla sera, / devota profana di quel vespro / che tinge i cieli sui volti / e tutto intorno il resto. / E il disordine è il senso /di questa pena e stringe fino alle / parole, fino al punto / dopo ogni prima. Ieri ho cercato / l’odore delle dature. E poi / ho raccolto l’umano e / ho sentito pietà e dolore: / li comprendo e con loro sono…” Tra i passi di un Dio p. 63).
La sezione Quell’attimo intorno… offre una visione esistenziale ridotta alla nuda essenzialità, un sorprendersi della poetessa a rivisitare attimi esistenziali “Davanti a un foglio/ (ove)cadono i sentimenti / staccandosi dalle ossa”, ove “il silenzio non muove / l’aria e diventa preghiera”, riverberando le confessioni della coscienza.
Si tratta di attimi che intrecciano armonie e ricordi, emozioni e silenzi, caducità ed eternità, mito e realtà, e che sedimentano l’anima della poetessa; sono attimi nei quali il naufragio diventa un “dolce silenzio”; la mano trema “tornando alla poesia”; sono attimi nei quali la poetessa “guarda la felicità / dove s’inventano i cieli”, ascolta “i cieli fissi / nel loro silenzio e il mare / ch’allevia tormenti”, e dove “Tutto ha un fondo / che fa ombra, per poche ore, quelle in cui / a ognuno è dato / il tempo di una vita”.
Comporre la quiete è la sezione finale che dà il titolo alla raccolta; qui la versificazione assume un tono di ricerca, di intensa meditazione declinata dalla poetessa in una “nostalgia appoggiata alla sera”, con gli occhi rivolti alla luna tra filamenti di nebbia da dove ammira “ un mondo che inganna/ con i suoi labirinti//, mentre s’incaverna soffocando le voci / di poeti che guardano sogni / e delirano silenzi e parole”.
Molto profonda la poesia Comporre la quiete che, oltre a titolare il volume, chiude la raccolta:

Lo spazio intorno
compone domande
a darsi ragione d’esistere,
e io di qua attendo
miracoli dal vuoto
che coltiva le anime.
Mi attraversa anche la morte
in silenzio dentro e fuori,
dove cerco la sopravvivenza
in un gesto fino
a comporre la quiete.
(Comporre la quiete, p. 100)

Si tratta di un testo in cui Laura Pavia si interroga sul senso dell’esistenza, sperando in un’attesa di “miracoli dal vuoto”, che, paradossalmente, “coltiva le anime”: da esso possono venire risposte rispetto a ciò che sembra assente. Siamo di fronte ad una lirica dove la morte è una presenza costante, sia interna che esterna, ma vista come parte del ciclo della vita in cui la poetessa cerca di “comporre la quiete”, di trovare, cioè, un equilibrio interiore e una pace nonostante le difficoltà.
E questo equilibrio Laura Pavia lo trova grazie al tempo “della poesia e dell’arte, un tempo non-storico, mediante il quale cerca – come scrive nella introduzione, di “dare un senso alla possibilità di un cambiamento dello spirito”, di farsi “domande indagando la creazione poetica oltre il semplice godimento estetico, oltre la tradizione”, muovendosi “in uno spazio libero, inconsueto, sperimentale che passa per il dolore prima di comporre la quiete”.
La raccolta Comporre la quiete, concludendo, è attraversata dal dolore e dall’ombra della morte, ma è pilotata da una forza interiore e spirituale che offre l’unico varco possibile per saldare l’enigmatica cambiale della vita; il registro linguistico, elegante e pervaso di enjambement, risulta connotato di una notevole ricchezza di elementi figurativi e sensibili, di un’essenza filosofica che risplende di una visione profonda ed etica della vita.
Laura Pavia è una poetessa pensosa, tutta protesa all’espansione totale in un universo metafisico in cui finalmente l’essere raggiunga la pienezza e plachi la sua ansia d’infinito. Il pensoso ripiegamento su sé stessa non la conduce però a visioni apocalittiche e catastrofiche, confortata com’è dalla certezza della meta ed impegnata ad indirizzare tutte le energie feconde ad atti e gesti di redenzione:

“Muovi i silenzi
rischia la verità
al di là di ogni potere:
sono già dentro i nostri corpi,
non come inganni del dire,
né indugi del pensiero.
Sono la materia per inventarsi
un infinito rovescio dell’esistere.”
(Muovi i silenzi, p. 59).

Gli accumuli tematici offerti dalle sue esperienze culturali, dal mondo degli affetti umani, dalle occasioni quotidiane dell’esistenza, rispecchiano insomma, con lessico e nessi verbali di impronta metafisica, la misura della reale tensione ideale ed emotiva della poetessa, e danno la consapevolezza che l’autrice ha saputo elaborare un proprio codice espressivo e conquistarsi una propria personalità letteraria. Anche dall’analisi delle tematiche della raccolta, organizzata con lucida sapienza costruttiva, si evince che ci troviamo di fronte ad un lavoro di ampio respiro lirico, poggiato su un significativo impianto speculativo, e sorretto da un’istanza spirituale che mira a recuperare i valori dello spirito e dell’umanesimo per indicare una strada in grado di “comporre la quiete”.

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