
La poesia sin dal mondo classico è stata intrisa dei valori dell’umanesimo. Da Omero a Virgilio, ai lirici greci passando per Dante e Petrarca, non c’è stata poesia che non abbia avuto nella sua essenza più profonda la presenza dell’“humanitas” intesa nel senso dello scrittore latino Terenzio, che con questo termine intendeva uno stile di vita giusto ed equilibrato ed un modo corretto di relazionarsi con le altre persone. L’humanitas non è però da contrappore al “divinus” o Trascendenza, anzi al suo interno un posto rilevante occupa sicuramente la fede religiosa e la spiritualità, tant’è che i grandi poeti del mondo classico si sono sempre posti con inquietudine il significato dell’esistenza con domande ben precise: chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo, perché viviamo, che senso ha la vita, trovando nel mistero della Trascendenza la strada di una ricerca interiore personale e sociale.
Se è vero che la poesia va oltre il tempo, è altresì vero che la poesia è figlia del suo tempo. Ed il nostro, è il tempo nel quale sta crescendo sempre più un processo di “de-umanesimo” , di svuotamento della vita dal suo aggancio ai valori morali, al trascendente, alla spiritualità, con conseguente imporsi di una visione della vita con alla base una metafisica negativa centrata sull’idea di assolutizzazione dell’autonomia soggettiva dell’uomo e delle cose, confondendola, per di più, con una specie di auto-creatività ed escludendo perciò qualunque intervento divino e del Trascendente nel mondo e nella storia.
E’ vero che la poesia non ha un compito morale specifico, ma è altresì vero che bisogna chiedersi se i poeti del terzo millennio servono a qualcosa. Oggi, credo, che le domande da farsi non sono soltanto “che cosa è la poesia” e “chi è il vero o migliore poeta”, ma se il poetare ha un senso, se il poetare riesce a interrogare quel mutamento di coscienza che l’uomo contemporaneo vive nei suoi rapporti con la realtà e con il mondo, mutamento che lo ha sta inducendo a pensare che tutto è unicamente affidato alla sua libertà e che il mondo ha il senso che egli stesso gli dà con la sua azione e con il suo intervento.
Il poeta contemporaneo può e deve sicuramente avere i suoi punti di riferimento nella Tradizione letteraria del ‘900, sia a livello di contenuto che di linguaggio e di tecnica stilistico-formale, ma contenuto, linguaggio e forma non possono ignorare i “segni dei tempi” , non possono non tener conto del contesto e dell’uomo al quale la parola poetica arriva.
Spesso si sente dire ai poeti: “io scrivo per me stesso e per portare all’esterno i miei sentimenti; in altre parole per comunicare. Questo, certo, si può anche condividere, ma il poeta è tale se quel che dice, nei modi che la Musa gli ispira, ha un senso per la società e gli uomini di questo tempo, così da poter assurgere a voce di riferimento per “l’hic et nunc” della storia. E questo chiaramente non può accadere con la sua singola voce.
I poeti non possono limitarsi, a mio avviso, a gareggiare ai fini della verifica del loro percorso poetico, ma devono trovare “convergenze di poetica” che siano frutto di una “intuitum historiae” capace di trasformarsi in comunicazione poetica.
La storia della poesia ci ha messo a confronto con tante “scuole poetiche”, a partire dalla prima, che fu “la scuola poetica siciliana”, che nacque dall’intuizione di Federico II il quale, assieme ai letterati della sua corte innalzò l’antico dialetto apulo-siculo al rango di “siciliano illustre”, al fine di determinare la nascita di rapporti culturali ed umani e attivare processi che potessero creare le premesse per l’unificazione della Penisola anzitutto a livello culturale prima che politica; su questa scia nacquero poi la Scuola di Toscana e il Dolce Stil novo.
Rebora, Ungaretti, Montale e Quasimodo scrivono in un tempo contrassegnato dalla guerra, e questo spiega perché le loro poetiche, pur nelle rispettive argomentazioni e visuali, non rimangono ai margini del conflitto bellico, ma si fanno voce di canto che invocano la necessità di una ricostruzione morale e civile; il poeta contemporaneo non vive sicuramente quel tempo, ma vive il tempo della “guerra” contemporanea, quella delle relazioni tra i popoli e tra i singoli uomini , che prende forma attraverso la chiusura dei rapporti commerciali, delle frontiere, la rottura dei legami valoriali, la reificazione del potere politico ed economico, la rinascita dei nazionalismi e dei rigurgiti razzisti. Insomma, siamo nel tempo della frantumazione dell’essere e della persona umana ridotta a “cosa”.
Di fronte a tutto questo, il poeta se ne può anche stare, se vuole, nella sua torre eburnea a contemplare il cielo e le stelle, allo stesso modo di come nel 1300 faceva il poeta Aleardo Aleardi, il quale nei suoi versi diceva: “Io interrogo le stelle / per dir loro cos’è Dio: Ordine mi rispondono le stelle!” , ma non c’è dubbio che nel terzo millennio c’è bisogno di poeti che, pur non rinnegando la contemplazione delle stelle, siano in grado di suscitare attraverso il linguaggio della poesia una “rifondazione ontologica” del tessuto della nostra società. Non una parola poetica moralistica, ma capace di dire, con il linguaggio di tutti, che la vita umana e la persona sono “in- disponibili” ad essere violate da qualsivoglia interesse che si metta al di sopra di tutto e di tutti: della persona, dell’ambiente, della coesione sociale, del bene comune, dell’uguaglianza e della giustizia.
La parola poetica non è la distrazione da un momento né un tranquillante di rassegnazione, né una illusione intellettuale e sentimentale, ma la “voce dissidente necessaria” di una società già falsata dall’alienazione economica e da altre alienazioni. La poesia può essere più o meno bella, ma se non ha a che fare con la realtà della persona sia nella sua singolarità che socialità, sia nella sua spiritualità che relazionalità, rimane un atto di autoconsolazione senza senso e senza prospettiva. /Continua