Infidi piani per la pace…l’opinione di Rita Faletti

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C’è una gran voglia di pace e un gran daffare nel presentare piani e proposte perché tacciano le armi. Ci riproverà Erdogan dopo i festeggiamenti per il terzo mandato presidenziale, ci ha provato una prima volta la Cina con la vaghezza dei suoi 12 punti respinti da Kyiv, ci ha provato una seconda volta con una “mediazione” che di buono contiene solo l’esclusione dell’arma nucleare. Palesemente filorussa, nessuno ipotizzava il contrario, il perno è il cessate il fuoco immediato, vale a dire la resa dell’Ucraina. Scomparsa ogni ambiguità precedente, la Cina parla il suo linguaggio: i territori conquistati da Mosca, a Mosca rimangano. Lo strumento della forza, nel pensiero cinese, prevale su tutto il resto, anche sul principio del rispetto della sovranità territoriale menzionato tra i 12 punti precedenti, a condizione,  ça va sans dire, che quel principio trovi sempre applicazione in riferimento al territorio cinese e a quello sottratto dalla Russia all’Ucraina con la violenza. L’emissario di Xi, Li Hui, decorato da Putin, dopo aver lasciato Kyiv, ha portato a termine il compito affidatogli dal presidente della Repubblica popolare: convincere le capitali europee ad abbracciare la proposta di pace cinese (e russa) e staccarsi da Washington. Gli autocrati di Pechino e Mosca confidano nel “divide et impera”, separare gli europei babbei dagli americani scaltri e ridurre i primi a più miti consigli sull’Ucraina. A forza di ritenersi più furbi di tutti, Xi e l’amico Putin non hanno compreso che la macchina degli aiuti è partita e difficilmente potrà essere fermata dai loro tentativi di circonvenzione di incapace. In larga maggioranza, gli europei e i loro governi, qualunque ne sia il colore, non abbandoneranno l’Ucraina al suo destino, cioè alle grinfie russe. Lo stesso Scholz, flemmatico cancelliere tedesco, pressato dall’energico ministro degli Esteri, la verde Annalena Baerbock, ha inviato a Kyiv una quantità di armi inferiore solo a Stati Uniti e Regno Unito e ha stanziato per la Difesa 100 milioni di euro. Per ora Pechino si è prestata a dare una mano a Mosca, ma il raggiungimento della pace non è affare che le interessi, anzi, una guerra lunga che tenga gli Stati Uniti lontani dall’Indo Pacifico è quello che si augura. Intanto, anche il Vaticano è impegnato nel costruire la difficile missione di pace che ha affidato al cardinale Zuppi, d’intesa con il segretario di stato cardinale Parolin. Quest’ultimo, ha realisticamente ammesso che non c’è alcuna pretesa di “arrivare a creare le condizioni per la pace”, ma un clima favorevole tra le parti sarebbe già un passo avanti. Parolin ha infatti posto l’accento sulla speranza, che è ultima a morire, ma, aggiungerei, non dà certezza alcuna benché con la fede e la carità sia una delle virtù teologali. Neanche l’incontro tra il Papa e il presidente ucraino ha segnato un punto nella direzione sperata. Nonostante la cordialità, il suo valore è stato puramente simbolico. Ognuno è rimasto sulle proprie posizioni, Bergoglio convinto che a qualcosa bisognerà pur rinunciare, Zelensky indisponibile a cedere sul tema della sovranità territoriale: la pace si farà quando l’esercito di Mosca sarà tornato all’interno dei confini russi. A dire il vero, Zelensky non si era fatto illusioni sull’esito dell’incontro e a Kyiv si sospetta che la visione del Vaticano sia inconciliabile con gli obiettivi ucraini. A rafforzare il sospetto, la posizione di equidistanza assunta dal Papa fin dall’inizio dell’invasione, la reticenza di fronte al distinguo tra aggressore e aggredito, l’attenzione a non nominare mai il nome di Putin, l’accusa alla Nato, il mai celato fastidio nei confronti del “bellicismo” occidentale, ma il silenzio sui crimini commessi dai regimi. Non è un mistero che il Papa argentino veda come fumo negli occhi il Paese a stelle e strisce e quanto ad esso si riconduca. Bergoglio ha le sue convinzioni politiche e sarebbe insolito se non ne avesse. Il potere spirituale non impone l’imparzialità politica, che è altra cosa dal farne mostra. Può capitare, come spesso è accaduto, che il vescovo di Roma eserciti un doppio potere, spirituale e temporale, che si riflettono l’uno nell’altro con conseguenze che lo rendono simile al politico, con la differenza che al logo del partito viene sostituita la croce.

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