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La Vita che viviamo….di Danilo Maci

Tempo di lettura: 2 minuti

Vivere bene, realizzare i propri sogni e sé stessi in una società ampiamente competitiva senza farsi mancare nulla, a volte neanche il superfluo. Sono solo alcuni dei traguardi più ambiti. A ragion veduta, ciò che si possiede ed il ruolo che si ricopre, la posizione sociale, giocano un ruolo fondamentale nella definizione di chi siamo; e se crolla l’immagine, crolla l’uomo. Non ci sono limiti nei modi di apparire, scegliendo di indossare ora questa e ora un’altra maschera; e tuttavia, come un ultimo tassello introvabile di un puzzle, questa frenetica ricerca del piacere non lesina da insoddisfazioni, insofferenze e arditi desideri.

Quella che noi chiamiamo univocamente vita, anticamente era concepita ed espressa in più modi. Nella cultura greca, la parola BÌOS esprimeva il modo di vivere la vita: politica, teoretica, relazionale, sociale, BÌOS è la Vita Quam Vivimus, la vita che scegliamo di condurre, sulla base di sensazioni, emozioni ed esperienze accumulate nel corso del tempo e del contesto socioculturale in cui cresciamo. C’è però anche un altro tipo di vita, di matrice più antica che i greci definivano con la parola ZOÈ, la vita in sé, letteralmente, Vita Qua Vivimus. È la vita che è in noi e che accomuna tutte le creature, dall’uomo alle piante, alle stelle e a tutto ciò che pulsa, che si snoda dagli intrecci e dagli intralci del puro materialismo e del condizionamento. Disarmante nella sua semplice logica, tanto preziosa e complessa al contempo, poiché il suo opposto non è la morte fisica (intesa come sorte comune ad ognuno di noi) ma l’essere nella non zoè, non vita.

Un altro paradigma quindi, antico quanto per nulla obsoleto, poiché seguendo il concetto non conta ciò che si possiede ma il fatto che siamo in qualche modo tutti legati in questa esistenza, un’ entità alla quale i popoli hanno dato molteplici nomi e definizioni nel corso delle ere.

Si può essere ricchi e famosi, conseguire mille attestati o lavorare come netturbini e ugualmente essere insoddisfatti, sguazzare tra pensieri che generano insicurezze e mostri futuri, alla ricerca frenetica di un po’ di felicità. È essenziale però realizzare che non possono essere le sovrastrutture che ci circondano a decretare il nostro grado di vita/felicità e benessere: non il mainstream o una continua narrazione affabulata ed edulcorata da attori sociali sempre più costruiti, subdoli e invasivi(senza fare di tutta l’erba un fascio), dove tutto ciò che è può anche non essere, in barba al principio di non contraddizione; non i ruoli distribuiti sulla base della bellezza del corpo e all’uso che se ne fa; non la capacità economica o materiale. Nessuna dicotomia tra intelligente/brutto o bella/ignorante. No.

Piuttosto la quotidianità dovrebbe realizzarsi necessariamente sul piano della virtù, intesa alla maniera di Aristotele, come attitudine a esercitare una giustizia equa e ben distribuita e armonizzata tra gli individui. Ma dove il bene e il male sono considerati concetti soggettivi, come sarebbe possibile esercitare questa equità di fronte alla vastità di scelte sbagliate di cui siamo giornalmente testimoni ed anche fautori? Se non c’è pace dentro e fuori casa, dov’è la giustizia? Di fronte alla continua sperequazione di questo transumanesimo relativista in cui viviamo, è ancora possibile mettere le proprie ragioni in un angolino per far spazio all’altruismo, al darsi senza riserve e senza la necessità di un tornaconto, senza dover vincere ad ogni costo?

Poco più di duemila anni fa, altre due virtù ampiamente discusse e di certo ancora oggi sottovalutate, l’umiltà e l’amore(etimologicamente inteso non come eros passionale ma come agape, cioè un’ azione pratica di inclusione, aiuto, condivisione, senza pretesa di ricevere in cambio qualcosa) vennero diffuse da un profeta ebreo chiamato Gesù. Lo stesso consigliava, molto al passo con i tempi, di essere “docili come le colombe e prudenti come i serpenti”, un invito a una sana e responsabile capacità di affrontare ogni cosa con occhio vigile alle insidie di ogni giorno, soprattutto interiori e spirituali che inevitabilmente ci saranno e ci accompagneranno per tutta la vita, e al contempo riuscire ancora ad avere un cuore proteso verso gli altri senza pretesa di contraccambio. Non solo belle parole, ma azioni possibili ed ancora oggi desiderabili. Il fatto stesso che la vita sia in noi e attorno a noi, in ogni singolo e irripetibile momento, in un tempo definito, dovrebbe essere colto come un privilegio e non una magra consolazione: un privilegio che le culture antiche, non solo greca, comprendevano meglio. Per tali ragioni il bene e il male non possono assolutamente essere considerati come categorie meramente soggettive: “Guai a coloro che chiamano bene il male e male il bene, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre, che cambiano l’amaro in dolce e il dolce in amaro”, gridava un uomo del VI sec. a.C.

Visto il periodo pasquale ritengo utile a tal proposito, e per concludere, condividere un aneddoto sommamente attuale rivolto ad orecchi che sanno udire e a occhi che riescono a vedere. Già consapevole di dover morire, affranto intimamente ma nell’incomprensione generale di chi lo circondava, Gesù rivolse la parola a Tommaso, il quale si stava crogiolando tra dubbi e domande lecite in cerca di una direzione futura, di uno scopo e un senso per la propria vita in un periodo storico difficile come quello di allora, in cui il dominio romano si estendeva nel malcontento generale di quel popolo. Gesù lo guardò pronunciandogli questa frase riportata negli scritti di Giovanni: “IO SONO LA VIA, LA VERITÀ  E LA VITA, NESSUNO VIENE AL PADRE SE NON PER MEZZO DI ME…” La versione in greco del testo di Giovanni traduce la parola/concetto ebraico di vita con ZOÈ.  Gesù dunque stava affermando di essere l’incarnazione di quella Zoè eterna e immutabile, l’unico catalizzatore di Vita tra una dimensione superiore e la terra poiché aveva compreso l’importanza e accettato la necessità di una legge antica, quella del sacrificio personale necessario per il bene altrui. Gesù introduce a tutti gli effetti un nuovo paradigma, che si innesta nel tessuto sociale giungendo fino a noi sempre attuale; perché senza Zoè e in opposizione ad essa resta solo la Bìos, cioè una vita autoreferenziale e spesso egoistica, spiritualmente morta, che si nutre di sensazioni proprie e stravolge le emozioni in parossistici desideri volti al piacere e alla massimizzazione personale, in un tempo limitato, imitando e aspirando ai modelli proposti dalla cultura del tempo. Ma non si può sperare di vivere bene quando si è divisi in ciò che si vuole, per il conto in banca o per una relazione a senso unico, quando l’amore si raffredda, perché questo pone l’uomo lontano dalla Zoè, e si inizia a non vivere più. D’altronde, Gesù stesso disse che “Nessuno può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la Ricchezza.

In qualunque cosa si creda, dunque, umiltà e amore resteranno sempre le due virtù cardini, un esercizio continuo di abnegazione che ancora oggi resta il reale metro di misura di una società progredita, più che sviluppata. Senza, si continua a sguazzare tra cinismo e ipocrisia.

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1 commento su “La Vita che viviamo….di Danilo Maci”

  1. Su questo giornale on line, commentando un articolo tempo fa, ho avuto modo di scrivere della difficoltà di coniugare il trascendente con l’immanente, poiché la vita – che ci pulsa dentro; nel modo in cui la viviamo, nella scelta che di essa facciamo – è un divenire imprevedibile che ci attraversa e al tempo stesso ci sovrasta, che sfida la nostra volontà e che ci pone di fronte a scelte difficili, gravide di responsabilità che spesso ci si ritorcono contro e che siamo costretti a fronteggiare ulteriormente nella diuturna incertezza di aver fatto bene o male, per un arbitrio di dubbia attribuzione.
    Sostenevo che non è facile né definito dare a Cesare e a Dio quel che appartiene loro, quando gli insopprimibili bisogni materiali dell’uomo incalzano la speranza che proviene dalla fede.
    Più che tra cinismo e ipocrisia, si sguazza senza tregua tra miserie materiali e spirituali – sovente prive di equilibrio, se non inversamente proporzionali – scartando o accattando ciò che la vita ha in serbo di concederci.
    Ed è arduo comprendere perché, per benedizione o per il suo contrario, la forza che imprimiamo al timone non riesce a tenere in rotta la vita; è difficile trovare risposte a domande che, oggi più che mai, ci interpellano con durezza e intravedere un senso in una vita che si spegne spontaneamente nel grembo prima di veder la luce, in un’infanzia negata, in un’adolescenza svuotata, in un futuro precluso “senza infamia e senza lode”, in attese sacrosante per un oggi che è ferita aperta di ieri e necrosi annunciata di domani.

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