
I Giochi olimpici nacquero in Grecia con l’obiettivo di rendere omaggio agli dei. L’evento era così importante che i conflitti in corso venivano sospesi per consentire agli atleti delle diverse regioni di partecipare alle competizioni che ne esaltassero e premiassero le abilità e al tempo stesso fossero occasione di incontro tra i popoli in un’atmosfera di fratellanza e rispetto reciproco. Quando si dice “vinca il migliore” si intende il più meritevole nel senso più completo del termine. United by emotion, è il motto scelto dal Giappone per i Giochi olimpici 2020. Emozione di trovarsi insieme, sfidarsi con spirito di lealtà, lottare per vincere in un contesto in cui le bandiere hanno la sola funzione di identificare i paesi di provenienza degli atleti. Per alcuni, al contrario, le bandiere sono strumenti di discriminazione nei confronti dello Stato di Israele e dei suoi atleti colpevoli di appartenere alla “razza sbagliata”. La mala pianta dell’ideologismo fanatico è orgogliosa di manifestarsi anche durante lo svolgimento dei Giochi olimpici, che sia per convinzione personale di atleti musulmani, che sia per costrizione dei regimi dei loro paesi. Nel secondo caso, gli atleti non partecipano in quanto tali, ma con la funzione specifica di propagandare un messaggio di odio davanti al mondo. Una straordinaria occasione da non perdere, visto che capita solo ogni quattro anni. L’algerino Fethi Nourine si è ritirato dalle Olimpiadi di Tokyo per non affrontare il judoka israeliano Tohar Bubtul. L’allenatore di Nourine ha detto che la causa palestinese è più importante dei Giochi olimpici e che l’atleta ha fatto la scelta giusta. Nourine non è nuovo a questa decisione: nel 2019 si ritirò dai Campionati del mondo di judo per lo stesso motivo. Giovedì scorso, il sudanese Abdalrasool ha seguito l’esempio dell’algerino, benché tra Israele e Sudan sia iniziato un processo di normalizzazione in linea con gli accordi di Abramo. A volte la propaganda è in ritardo rispetto alla politica. In questo spaccato, che evidenzia la stupidità e la banalità dell’odio, è quasi inutile dire quanto la causa palestinese stia a cuore alla Repubblica islamica dell’Iran. La Federazione di judo di quel paese, nel 2019 ha costretto uno dei suoi atleti a perdere alcuni combattimenti e dare forfait per non incontrare judoka israeliani. E’ stata sospesa per quattro anni. All’accanimento ideologico del paese degli ayatollah c’è però chi si ribella. E’ il caso di Kima Alizadeh, campionessa di taekwondo e prima medaglia olimpica femminile iraniana a Rio nel 2016. Kima, che dopo aver lasciato il suo paese vive a Norimberga, era stata denunciata dai funzionari del governo e aveva ricevuto minacce via social per aver detto che gli atleti sono solo “strumenti di propaganda”. Oggi fa parte della squadra di atleti rifugiati ai Giochi di Tokyo, accanto ad atlete pachistane e afgane. Un messaggio forte, il loro, contro la discriminazione e in nome del diritto alle libertà, calpestato nei regimi teocratici e troppo debolmente difeso in quelli che si professano democratici. Tutt’altro comportamento quello tenuto dal Giappone durante la cerimonia di apertura dei Giochi. Primo paese a farlo, ha dato una lezione di grande civiltà al mondo, osservando un momento di silenzio e di raccoglimento per ricordare gli undici atleti israeliani massacrati alle Olimpiadi di Monaco del 1972 da una cellula di terroristi palestinesi, nota come Settembre Nero. Una strage vigliacca che non impedì che i giochi continuassero, vergognosamente, nonostante la notizia si fosse diffusa in tutto il mondo. Ci pensò il Mossad, con l’operazione “Ira di Dio”, ordinata dall’allora primo ministro israeliano Golda Meir, a cercare uno per uno gli assassini e ucciderli. Chissà se Parigi, nel 2024, avrà il coraggio di seguire l’esempio di Tokyo. Con tutti gli islamici che vivono in quel paese c’è da dubitare.