100 anni fa nasceva Leonardo Sciascia, figura di un grande siciliano scomparso nell’autunno del 1989, il quale è stato, sicuramente, un intellettuale fuori dal coro e dalla “parola eretica”, che ha scritto le sue opere con il convincimento di suscitare problematiche, di dare quasi fastidio, atteso che nelle sue narrazioni egli è andato sempre oltre la retorica culturale e politica, al fine di fare emergere ad ogni costo la verità, seppur scomoda.
L’attualità del suo pensiero su giustizia, libertà, mafia e sulla società in generale ci dicono che è necessario tornare a riflettere sulla sua opera, come necessario è tornare a leggere i suoi romanzi, per riscoprire la sua genialità e considerato che negli ultimi anni è stato relegato nell’ombra del mondo letterario.
1. Il rapporto tra sospetto e verità nella narrazione sciasciana
La ricerca della verità in Sciascia, tra sospetto, dubbio e contraddizione è la prospettiva di questo mio intervento. Certamente Sciascia è stato nella sua esistenza di uomo e di scrittore un “cercatore di verità”, una verità non dogmatica ma con una visione laica, una verità sopra le parti e le cordate, tant’è che non esitò a mettersi in una linea di contestazione con un santone del giornalismo italiano, Eugenio Scalfari, Direttore de “La Repubblica”, coniando quella frase “nessuno è al di sopra di ogni sospetto”.
Nella vita sociale e politica il sospetto è spesso un elemento che caratterizza le relazioni umane e che connota soprattutto le inchieste. La cultura del sospetto pervade tutta l’opera di Sciascia. Qui mi limito a citare, come esemplificazione, “I Pugnalatori”, che non è propriamente un romanzo e neppure un saggio, ma un libro inchiesta su un fatto accaduto nel 1862: nella città di Palermo, nell’arco di qualche giorno, vengono pugnalati nella stessa maniera una dozzina di persone con una serie di delitti apparentemente staccati tra loro.
Sciascia si impadronisce con abilità di questo fatto in sé inquietante, quasi da noir, per riversarvi lentamente, ma impeccabilmente, osservazioni, citazioni, buttate qua e là, quasi casualmente, all’interno della struttura testuale, che, di fatto, costituiscono il libro stesso. La narrazione si snoda come un’inchiesta nella quale la teoria del sospetto trova conferma, portando Sciascia alla conclusione che dietro il fatto si nasconda un mandante politico mosso dall’intento di una cospirazione contro lo Stato italiano.
Ne “I Pugnalatori” il sospetto cresce velocemente e conduce all’idea che non si sia trattato di un assassinio da parte di un pazzo isolato o di una misteriosa setta, ma di una congiura da parte di un “partito” trasversale per la restaurazione dei Borboni al trono del regno di Napoli e della Sicilia. La vicenda, infatti, segue un percorso processuale attento a leggere le carte e tra le carte, come molte volte accade nei testi di Sciascia.
E difatti gli esecutori materiali del delitto vengono presi e condannati, poiché a seguito della cattura di uno dei pugnalatori, Angelo D’Angelo, il quale confesserà i nomi degli altri esecutori e dei mandanti, nelle persone del principe di Sant’Elia e di alcuni alti prelati, il caso viene affidato al procuratore Giacosa, piemontese giunto in Sicilia, il quale finirà per accertare il movente dell’accaduto, ossia la cospirazione contro lo Stato italiano appena costituito e l’idea di un possibile ritorno dei Borboni.
Il procuratore Giacosa, nonostante il processo avesse accertato che dietro quei delitti ci fosse la mano del principe di Sant’Elia, nella sua coscienza nutriva però qualche dubbio, tant’è che qualche mese dopo il processo in una relazione diretta al Guardasigilli scriveva:
Io, che in quella causa ebbi l’onore di rappresentare il pubblico Ministero, alludendo all’episodio del principe di Sant’Elia, non esitai a qualificarlo una calunnia, e a trarne quindi argomento per dire pubbliche lodi del principe. Malgrado questo, in fondo in fondo della coscienza rimanea pur sempre, per così dire, un punto nero, un non so che di inesplicabile, un dubbio, una interrogazione irresoluta. Calunnie! E perché calunnie? Quale interesse avea il Castelli di calunniare il principe di Sant’Elia? E perché, volendo manifestare ai suoi compagni il nome dei capi, che pagavano, andò proprio a scegliere il nome di questo personaggio e non un altro nome? Non potrebbe essere vero il fatto? Queste però eran cose che la coscienza sussurrava pian piano, erano cattivi pensieri che la ragione rigettava quasi come una tentazione, tanto, ripeto, era splendida e intemerata la reputazione del principe di Sant’Elia, tanto notoria la sua devozione all’attuale ordine delle cose. (1)
Alla fine il Giacosa non può fare altro che tornare in Piemonte e proseguire la sua carriera di avvocato. Non è riuscito ad estirpare il male della mafia e neanche a far condannare il vero colpevole. Ma quello che interessa non è la vicenda in sé, che infatti, poco a poco, va in secondo piano e di cui non è possibile stabilire l’esistenza, ma lo scenario complessivo.(2)
Scritto negli anni Settanta, nell’opera sciasciana “I pugnalatori” c’è un intrecciarsi di dubbi, sospetti e contraddizioni che mettono in evidenza le infiltrazioni mafiose in Italia e nel governo, considerando tutto ciò un male inevitabile. Lo Stato è uno stato criminale e i colpevoli non pagheranno mai.
2. Il background filosofico sciasciano e la relativizzazione della verità
Sciascia – dicevamo – è stato un cercatore di verità, ma in questa ricerca “ha contraddetto e si è contraddetto”. Crediamo che la ratio presente in questa frase di Sciascia risenta di un background filosofico che affonda le radici nel pensiero dei cosiddetti “Maestri del sospetto”, Karl Marx , Friedrich Nietzsche, Sigmund Freud (L’espressione e di Paul Ricoeur) e, in particolare Nietzsche.(3)
Questi autori hanno infatti “sospettato” che, dietro ai fenomeni culturali e alle norme e idee morali, si nascondono meccanismi di altra natura, motivi diversi da quelli dichiarati, cioè interessi economici, desideri o pulsioni istintive. Dentro questo orizzonte filosofico, Sciascia progres-sivamente matura l’idea che la coscienza che l’uomo ha di se stesso non è in grado di cogliere la verità, che non vi è coincidenza immediata tra apparenza e struttura profonda della realtà, e che dunque occorre una “decifrazione” di tale coscienza. Per Sciascia la contraddizione appartiene all’ontologia dell’uomo, alla sua natura antropologica, ragion per cui, facendo propria la lezione di Nietzsche, egli nelle sue opere giunge quasi sempre alla conclusione che non si può pensare la verità come descrizione oggettiva (assoluta) delle cose; la verità, insomma è un concetto limite, è continua tensione, sforzo incessante che rincorre il fluire costante della vita anche nelle sue forme contraddittorie.
Il “sospetto”, per lo scrittore di Racalmuto, appare, insomma, una necessità legittima, e dentro i meandri del sospetto risulta naturale anche la contraddizione, perché la verità non esiste di per sé e non è qualcosa di rigido, determinato, intoccabile, inviolabile; la verità è ogni verità. Sciascia, come Nietzsche, attua così un’opera di ‘relativizzazione’ della verità assoluta.
Il “sospetto” e il “dubbio” che caratterizzano la vita dell’uomo non possono allora, secondo Sciascia, che aprire la strada alla contraddizione e alla conseguente disintegrazione del concetto di “verità oggettiva”. Si arriva così ad una logica del valore falsa, ma allo stesso tempo necessaria: rinunciare ai giudizi falsi sarebbe un rinunciare alla vita, una negazione della vita: il centro unitario della vita è una finzione che deve essere sempre attiva, per questo deve continuamente a interpretare (e quindi falsificare).
Sciascia ha cercato la verità anche da scrittore, sia trasponendola nella diversa verità della letteratura sia cercandola con gli strumenti stessi e con la specificità della letteratura. Egli diceva:
“sono arrivato alla scrittura-verità, e mi sono convinto che, se la verità ha per forza di cose molte facce, l’unica forma possibile di verità è quella dell’arte. Lo scrittore svela la verità decifrando la realtà e sollevandola alla superficie, in un certo senso semplificandola, anche rendendola più oscura, per come la realtà spesso è”. (4)
3. Sciascia e la letteratura della contraddizione e mediazione
La ricerca della verità, per quanto onesta e rigorosa, non sfugge quasi mai alla contraddizione. E’ quanto Sciascia fa emergere dalle sue opere e dai suoi personaggi, i quali, per quanto impegnati, in alcuni casi, a tutelare la giustizia, i diritti alla libertà, alla dignità, al rispetto reciproco, alla fine non sono esenti dall’incapacità di rendere sempre coerente e privo di ombre l’ideale in cui credono e per il quale combattono.
Lo scrittore racalmutese, così, procede sempre con la stessa metodologia, ossia quella di narrare accadimenti storici con l’intento di svelarne le latenze, facendo in modo che il negativo della storia, quello che viene di solito taciuto e mistificato, emerga come elemento protagonista.(5)
Sciascia crede, come rileva Claude Ambroise, o nella possibilità di raggiungere, tramite le tracce scritte lasciate negli archivi, la verità dei fatti passati, o che per lo meno sia “possibile scoprire che la verità è stata nascosta; che essa è esistita, che l’impostura delle carte racchiude una verità. Le cose possono non essere andate come l’estensore del documento intenderebbe farci credere ma, almeno come mancanza, la verità è intuibile. La verità sta nella relazione fra il testo e chi lo ha scritto. Di lì anche l’importanza decisiva della riscrittura, del lavoro propriamente letterario operato da Sciascia sul materiale trovato”. (6)
Nella ricerca della verità, Sciascia si mostra sempre un “manipolatore di documenti” che, a volte, punta lo sguardo su alcune cose e lo distoglie da altre, perché vuole orientare i suoi lettori verso la “sua verità”; e per fare questo si affida spesso alla polemica, quale specchio di una società dove tutto si trasforma in stato di guerra, del resto il termine stesso polemica deriva dal greco “πολεμικός” che significa “attinente alla guerra”, e designa quindi una sorta di guerra, per lo più verbale, condotta contro un avversario detto bersaglio della polemica. La polemica sciasciana potrebbe essere definita, più che letteraria, programmatica, reale ed effettiva come, del resto, egli stesso mette in evidenza nell’intervista alla giornalista Marcelle Padovani, poi pubblicata in La Sicilia come Metafora (Mondadori, 1979). Nella polemica, Sciascia non manca di stigmatizzare le contraddizioni, rifuggendo, però, dal mostrarsi uno scrittore e un intellettuale autoreferenziale, o, peggio, pontificatore, ossia come un intellettuale che emana sentenze, assoluzioni indicando dov’è il bene e il male.
Sciascia con la sua affermazione “Ho contraddetto e mi sono contraddetto”, ha in fondo ammesso che nessuno può dire di essere possessore della verità a causa della fragilità insita nella condizione umana, e che l’orizzonte nel quale è possibile muoversi è quello della “mediazione” nel senso indicato dal filosofo Noberto Bobbio, il quale parla della figura dell’intellettuale e dello scrittore come di un “mediatore”, ossia di uno che si mette “in mezzo”, non “sopra”, né “al di fuori”, ma “tra” le persone, a contatto diretto con la vita pubblica collettiva, e con capacità di ascolto. Sciascia nelle sue opere si mostra uno scrittore che si “mette in mezzo”, mediando tra “situazioni moralmente contraddittorie”, e mai parteggiando; egli prende quasi sempre “posizioni scomode”, e prendere posizione – secondo il pensiero di Bobbio – non vuol dire parteggiare, ubbidire a degli ordini, opporre furore contro furore, ma tender l’orecchio a tutte le voci che si levano dalla società in cui viviamo ( esempio palese, la posizione di Sciascia su “mafia e antimafia”, che non venne capita; ), e non a quelle così seducenti che provengono dalla nostra pigrizia o dalla nostra paura.(7)
Lo scrittore racalmutese quando infittisce la sua narrazione di personaggi che si distinguono per le loro meschine contraddizioni, come il parroco di san Rocco, l’arciprete di Regalpetra, il direttore didattico, don Tano di Todo Modo, gli uomini della politica, l’Abate Vella del Consiglio d’Egitto, il Vescovo Ficarra in Dalle parti degli infedeli, etc… etc…., in fondo intende focalizzare l’attenzione del lettore su una prospettiva etica, secondo la quale le ingiustizie hanno le loro radici proprio nella contraddittorietà dell’ethos umano; il che spiega perché Sciascia, nei suoi racconti, anziché operare un manicheismo tra giusti ed ingiusti, buoni e cattivi ed identificarsi con l’una delle parti in causa, cerchi di mettere a fuoco le possibili reciproche ragioni, e di distribuire equamente i torti, così da evitare il muro contro muro tra le istituzioni al centro dei suoi saggi e della sua narrazione (Chiesa, Stato, Partiti, Ideologie) nonché lo scontro totale, le guerre ‘di civiltà’, ragionando e non parteggiando.
La contraddizione in Sciascia va dunque collocata all’interno di una sorta di indagine sulla “deficienza di essere” dell’uomo, e in questo senso egli è molto in linea con Bobbio, quando afferma che “Il compito degli uomini di cultura è più che mai oggi quello di seminare dubbi, non già di raccogliere certezze”; e ancora quando dice: “Credo che la democrazia abbia bisogno, sempre maggiore bisogno, di intellettuali mediatori”; e infine quando sostiene che “Cultura significa misura, ponderatezza, circospezione: valutare tutti gli argomenti prima di pronunciarsi, controllare tutte le testimonianze prima di decidere, e non pronunciarsi e non decidere mai a guisa di oracolo dal quale dipenda, in modo irrevocabile, una scelta perentoria e definitiva”. (8)
Quando Sciascia stigmatizza le contraddizioni del potere politico, sociale e religioso, non fa altro che svelarne la violenza, la falsità, nonché decodificane i meccanismi profondi di comunicazione, e denunciarne le insidie e la duplicità intrinseca del linguaggio.
Sciascia, sul piano storico, si accosta ai documenti per trovare in essi i motivi della sua scrittura ed assumere come metodo d’indagine il comportamento contraddittorio dei personaggi al centro della sua attenzione; ma sul piano letterario, invece, egli opera una riscrittura della storia dicendo quella verità che i documenti non dicono. E’ questo, in fondo, il compito che egli si assume, tant’è che afferma: “Del riscrivere io ho fatto, per così dire, la mia poetica. Un consapevole, aperto, non maldestro e certamente non ignobile riscrivere.”(9)
Se consideriamo, ad esempio, due personaggi sciasciani come l’abate Vella e l’avvocato Francesco Paolo Di Blase, notiamo che appaiono due personaggi speculari (10), due alter-ego dello stesso scrittore, “quasi figure di una opposizione categoriale tra ‘mondo delle idee’ e ‘verso delle cose’, tra ‘passione e ragione’, tra ‘sogno della vita’ e ‘mondo della verità’, vale a dire le opposte tensioni della coscienza divisa di Sciascia e del suo rovello indagatorio”.(11)
I due personaggi sono testimoni e protagonisti di una sostanziale diversità ideologica ed esistenziale: l’abate Vella, avventuriero di talento, il “tenebroso”, “misterioso”, “ambiguo” impostore, che prova ora sdegno di fronte alla “ferocia delle leggi, l’esistenza della tortura, le atroci esecuzioni di giustizia” cui un tempo aveva partecipato senza turbamento, e che ora vede applicate contro il Di Blase, senza peraltro riuscire a piegarne la fierezza.(12)
Insomma, due testimoni e protagonisti diversi e complementari: all’ambiguità dell’abate-falsario corrisponde l’impegno ‘illuministico’ dell’avvocato: se infatti, come nota Walter Mauro, nella impostura organizzata dal Vella si può riconoscere il tentativo legittimo ed umano di ribellione alla tradizionale e reazionaria codificazione, nella congiura ordita da Di Blase se ne può individuare una di altro tipo, più umanizzata e romantica, pur nel suo illuministico divenire, quella cioè di chi lotta giacobinamente contro ogni privilegio, tant’è che anche la loro sorte si intreccia nello scioglimento finale dei loro destini, entrambi vittime della svolta conservatrice della monarchia napoletana, entrambi perdenti nella lotta contro i meccanismi del Potere. Di Blase, a capo di una congiura rivoluzionaria, accusato di cospirazione contro la sicurezza dello Stato, sarà condannato alla pena capitale. (13)
4.La rifondazione onto-etica dell’uomo come antidoto alla cultura del sospetto
Fra i tanti messaggi che è possibile trarre dalla produzione letteraria e saggistica di Sciascia, quello sulla “contraddizione” è un dato che rivela dello scrittore un’intuizione fondamentale di carattere etico-antropologico: ogni uomo è strutturalmente portato a contraddirsi a causa della sua condizione di fragilità esistenziale, e nonostante egli proclami di credere nella moralità, contraddice spesso quest’ultima dentro se stesso, pretendendola invece dal suo simile. La società. pertanto, rimarrà sempre attraversata dal sospetto, fin quando l’uomo non riuscirà ad eliminare o almeno ad attenuare questo processo disarmonico che mina le relazioni nelle varie articolazioni umane ed istituzionali.
La nostra società è oggi investita a tutti i livelli della questione morale. Trasparenza è una parola che si usa frequente nella vita amministrativa e politica, tant’è che esiste anche una legge sulla trasparenza; la gente spesso la invoca, perché esige che l’agire politico sia senza sotterfugi, sottintesi che manifestino intenzioni disoneste.
C’è sempre, nella politica in particolare, una domanda di trasparenza legata ad una società complessa nella quale convivono sistemi operativi e amministrativi farraginosi e con un proprio codice linguistico, tali da non consentire al cittadino di vederci chiaro e di comprendere subito.
La lezione sciasciana su “sospetto e contraddizione”, su “verità e mediazione” ci porta a concludere che se è vero, da una parte, che c’è nella società un bisogno di moralità e un’istanza di trasparenza, è pur vero, dall’altra, che una società non può vivere nel sospetto generalizzato, leggendo dietro le parole del prossimo, di un amministratore o di un politico sempre intenzioni perverse e voglia di nascondere sempre e in ogni modo la verità.
Una società non può fondarsi sul sospetto; deve essere attenta, vigilante, cauta, deve poter giudicare e verificare tutto con attenzione, ma se manca quel minimo di fiducia e si sospetta, per principio, di tutto e di tutti, si finisce per instaurare rapporti sociali logoranti e in continua tensione.
Prima di accusare, di lanciare sospetti, occorre avere il coraggio di guardare dentro se stessi, di esaminare la propria coscienza e poi di esigere spiegazioni, perché si possa capire se l’agire dell’altro è sincero, trasparente come l’acqua, l’aria, il vetro oppure viziato da interessi personali da nascondere, così da creare le condizioni per un rapporto di fiducia senza il quale nessuna società, nessuna buona amministrazione e buon governo sono possibili. Da qui la necessità di una rifondazione onto-etica dell’uomo, il quale prendendo coscienza onestamente del suo “deficere” , ossia della sua natura di “persona contraddicentesi”, di soggetto morale fragile, potrà evitare di puntare il dito sulle contraddizioni altrui e giungere alla conclusione sciasciana che “nessuno è al di sopra di ogni sospetto”.
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L. SCIASCIA , I Pugnalatori, Milano, Adelphi Edizioni 2012, pp.31-32.
2 Cfr. https://www.sololibri.net/I-pugnalatori-Sciascia.html
3 Cfr. La filosofia del sospetto Marx, Nietzsche, Freud e la poetica di Luigi Pirandello, in http://www.impararestudiando.eu/wp-content/uploads/2016/07/Chiara-Milano-La-filosofia-del-sospetto.pdf
4 https://www.academia.edu/35223632/Sciascia_e_le_strutture_narrative_contemporanee
5 Cfr. C.A. Madrignani , rec. a L. SCIASCIA, I pugnalatori, «Belfagor», 4, 1977. p. 477.
6 C. Ambroise , Verità e scrittura, in L. SCIASCIA, Opere 1956-1971, a cura di C. Ambrosie, Bompiani, Milano 1987 (2000), pp. XLIV-XLV
7 Cfr. Michele Saporiti (a cura di), Norberto Bobbio: rigore intellettuale e impegno civile, Giappichelli, Torino, 2016.
8 Cfr. Guido Davico Bonino, Incontri con uomini di qualità. Editori e scrittori di un’epoca che non c’è più, Il Saggiatore.
9 Cfr. L. Sciascia, 14 domande a Leonardo Sciascia, in ID., Opere 1956-1971, cit., p. XVI.
10 Giovanna Zoccaro, Sciascia: la letteratura come ricerca della verità, in www.uniba.it› docenti› materiale-didattico-9› at_download›
11 Cfr. G. De Donato, Il Consiglio d’Egitto, in Gli archivi del silenzio, Schena, Fasano 1995, p. 104.
12 F. Moliterni, Letteratura come “scrittura dello strazio”. Per una rilettura de “Il Consiglio d’Egitto” di Leonardo Sciascia , cit., p. 538- 26.
13 Cfr. 26 W. Mauro, Leonardo Sciascia, La Nuova Italia, Firenze 1973, p. 42.
1 commento su “100 anni fa nasceva Leonardo Sciascia …di Domenico Pisana”
Le verità sono e saranno sempre scomode, e quando sono troppe forti, si cerca di affossarle fino a farle dimenticare!
Le verità che magistralmente narra Sciascia, sul fatto di essere dette e contraddette, potrebbe intendere anche che a volte una verità può essere taciuta a fin di bene, perché potrebbe fare più male della bugia in se.
Nella sostanza Sciascia più che additarne il comportamento dell’uomo, ne fa emergere l’insofferenza e la bramosia che ha per essere creduto, ascoltato, seguito e di riflesso osannato.
Oggi li chiamano consensi! E il denaro rende giustificabile qualsiasi cosa, anche contraddirsi!