
La cattura di Messina Denaro, un successo delle Forze dell’ordine, in un paese diverso dal nostro sarebbe stata motivo di grande soddisfazione per tutti. In Italia, dove il rapporto con la realtà è conflittuale e la narrazione, la più fantasiosa, trova proseliti innamorati di retroscene e misteri, invece di rallegrarsi e riconoscere ai Ros il merito dell’impresa, i soliti azionisti della macchina del fango e la loro corte si sono rimessi in moto attingendo al vecchio eppur sempre apprezzato armamentario di favole e teorie del complotto con al centro lo Stato e la “benemerita” Trattativa. Talk show e trasmissioni televisive hanno attinto a quel patrimonio miserabile di ipotesi accusatorie campate in aria, si sono cimentati in argomentazioni basate sul nulla, hanno amplificato illazioni da pataccari alla Ciancimino, spingendosi a considerare mafiosi Salvatore Lupo, il più importante storico della mafia e Giovanni Fiandaca, un’autorità del diritto penale, autore di un saggio in cui definisce il processo sulla Trattativa una boiata pazzesca, solo perché hanno osato esprimere dissenso su teoremi costruiti da magistrati non di secondo piano, cui si continua a dare credito nonostante i fatti abbiano smentito le loro “verità” indimostrabili. Un’operazione di marketing quella di tentare di riscrivere la storia mescolando dicerie, dettagli insignificanti, dichiarazioni di pentiti farlocchi, preconcetti storico-politici con l’intento di perseguire le proprie mire carrieristiche e delegittimare i politici che stanno dall’altra parte. Nomi ed esempi si sprecano, la gogna deve continuare. Il pluriricercato boss di Castelvetrano, prelevato dai Ros in una clinica centrale di Palermo dopo trent’anni di latitanza, ha fornito nuovo alimento alla leggenda del complotto. Com’è stato possibile che “U siccu” sia riuscito a muoversi indisturbato in un territorio dove tutti lo conoscevano? Domanda di un’ovvietà disarmante, non fosse che invece di indirizzare l’attenzione sugli abitanti di quel territorio, le loro paure, le complicità e le connivenze, responsabili di aver innalzato un muro di silenzio in difesa del boss, certi “investigatori” di professione e quelli improvvisati, hanno preferito spostare il ditino accusatore più in là, sullo Stato che doveva vigilare e intervenire. Ma lo Stato, in questo caso, sono i conterranei di Messina Denaro, sono i medici e gli infermieri che lo avevano in cura da due anni, i portantini ai quali è difficile sia passato inosservato quell’uomo che vestiva costosi abiti griffati, che da due anni e due volte la settimana entrava e usciva dal nosocomio. Lo Stato sono i pazienti con cui il signore “gentile” parlava amabilmente, e con cui si scambiavano il numero di cellulare, lo Stato è Andrea Bonafede che gli aveva prestato la propria identità e financo la madre ottantasettenne, intestataria della Giulietta che Messina Denaro guidava. Identificare lo Stato con quella parte di paese che corrisponde alle Forze dell’ordine, con quei magistrati che rifiutano una narrativa che non resiste alla prova dei fatti, con i politici del governo se il tuo partito è all’opposizione o viceversa, è una strategia che non paga perché allontana dalla verità ed è la spia della relazione malata tra organi della stampa e uffici di procura. In quanto alla mafia, che qualcuno vede dappertutto, e della quale qualcun altro nega la dimensione geografica e l’aspetto culturale dominio-protezione presente nella mentalità feudale non del tutto superata in alcune aree del Mezzogiorno, è bene sottolineare che se non fosse stato per i Ros e per il suo fondatore, il generale Mori, che ha costruito quell’organismo che ha dato prova di funzionare meglio dell’Antimafia – a proposito, cosa ha fatto l’Antimafia in questi trent’anni? – e che è stato sottoposto a un processo penale per 17 anni, dal quale è stato assolto con formula piena senza ricevere alcun risarcimento, se non fosse stato per i carabinieri del Ros, l’uomo d’onore non sarebbe arrivato al capolinea della propria carriera di assassino.