Uno degli annunci più lieti di fronte al quale la vita di ogni uomo si trova lungo il suo cammino, è sicuramente quello dell’amore di Dio. “Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama”: sono queste le parole con cui l’angelo porta il lieto annuncio ai pastori che si trovavano davanti alla grotta di Betlem. Questo annuncio, Dio lo fa risuonare in ogni tempo nel quale si fa memoria del Natale.
Accogliere e capire che Dio ama l’uomo sembrerebbe una cosa semplice; in realtà ci accorgiamo che non è così, constatiamo come il tempo, le situazioni, le sofferenze, i conflitti, i contrasti, le divisioni, l’egoismo e le guerre di ogni tipo, l’orgoglio e la superbia spesso induriscono il cuore e la mente, al punto che il profeta Isaia ci ricorda :
“La tua nuca è una sbarra di ferro e la tua fronte è di bronzo” (Is 48,4).
Noi siamo spesso quella sbarra di ferro che deve essere piegata. Il problema è come piegarla!
Quando il ferro si batte a freddo, o si spezza ma non si piega affatto; bisogna prima riscaldarlo al fuoco, bisogna intenerirlo.
Il Natale è la possibilità che l’uomo ha di riscaldarsi al fuoco dell’amore di Dio. Dopo si sopporteranno anche i colpi di martello senza irrigidirsi, perché si può sopportare solo quando ci sente veramente amati. A volte l’uomo pensa: ma io sono degno dell’amore di Dio? Come può amarmi Dio se non riesco a mettere in pratica quello che lui mi insegna, se sono così fragile e debole, se cado sempre nello stesso errore, se non sono coerente con la sua Parola? Come posso essere degno dell’amore di Dio? E Dio ti risponde:
Io non ti amo perché tu sei bravo, perché non pecchi, sei senza errore, perché non sbagli. Io ti amo perché senza il mio Amore tu non vivi, tu non sei nessuno, tu smarrisci il senso della tua esistenza.
Con il Natale, Dio continua a dire agli uomini, alle donne, ai giovani:
“ Su, venite e discutiamo. Anche se i vostri peccati fossero come scarlatto, diventeranno bianchi come neve. Se fossero rossi come porpora, diventeranno come lana” (Isaia, 1,18)
Ecco, il nostro peccato non fa smettere a Dio di amarci, perché Lui attende la nostra adesione a lui e la conversione del cuore. L’amore di Dio non è un semplice sentimento, una emozione; non si misura dagli umori, dalle condizioni interiori: sto bene e sono contento, Dio mi ama; sto male, le cose non vanno bene, vuol dire che Dio non mi ama. Non è assolutamente questo l’atteggiamento giusto per poter sperimentare che Dio ci ama.
L’amore di Dio è una professione di fede, è un atto di fiducia, è credere che quello che Dio promette lo fa realmente; se tu non senti l’amore di Dio è perché forse credi poco che Dio possa fare veramente quello che dice; forse tu pensi che quel bambinello del Presepe è chiacchiera, fiaba, racconto edificante. Solo chi comprende nella sua essenza e verità che Dio ha scelto la strada dell’incarnazione per entrare nella storia, capirà che Egli si è donato per amare e dare la vita.
Buon Natale a tutti.
1 commento su “Riflessioni davanti al Presepe … di Domenico Pisana”
Qualche anno fa, leggendo la frase della Scrittura, al Vangelo di Luca 2,14, con vivo stupore ho notato una virgola che prima non c’era o che non avevo mai scorto.
Una virgola che, per quanto minuto segno di interpunzione, ritengo lo spartiacque tra un inverosimile amore elitario e l’amore universale di chi, per i credenti, ha creato ciò che esiste.
“Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini, che egli ama”.
L’apparente insignificante presenza della virgola attesta che Dio ama indistintamente tutti gli uomini; la sua assenza, invece, decreta un imperscrutabile privilegio concesso ad alcuni.
Del presente articolo, mi ha molto colpito la frase: “Il Natale è la possibilità che l’uomo ha di riscaldarsi al fuoco dell’amore di Dio”. E’ un fuoco la cui potenza solo la fede ha la capacità di assorbire; senza la fede, la tentazione di starne alla larga per il timore di ustionarsi è molto forte.
Perché, se per il credente “l’amore di Dio è una professione di fede, è un atto di fiducia, è credere….”, le prove poste dal Creatore, e incondizionatamente accettate dalla creatura che ha fede, costituiscono il viatico per un cammino terreno volto alla meta celeste.
E una prova è, in un certo senso, fiducia condizionata, in contrapposizione alla fiducia piena.
Il “Bambinello del presepe”, per chi crede, è il segno di condivisione divina della condizione umana. E’ la congiunzione tra cielo e terra, nonostante il primo sovrasti inconfutabilmente la seconda. E’ la sostanza divina del corpo, che lo rende sacro e dà un senso, carico di mistero, alla sofferenza umana: prova da accettare e offrire in sacrificio, in contrapposizione al rifiuto, che è dannazione.
Stoicismo? No, per niente.
E’ vero, fin qui si è parlato di amore, di fede ma non di speranza.
Della speranza, nell’accezione umana vorrei avere il coraggio di chiedere cosa sia, in questo momento storico, a un bimbo ucraino o a un povero cronico; nell’accezione spirituale è difficile darne una definizione che accenda l’anima e imprima quella forza, fondamento del credere, che alla culla/mangiatoia di Betlem può attingersi.
L’ha indirettamente coinvolta Paolo di Tarso nella sua definizione di Fede: “fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono”. E’ arduo, non impossibile, riuscire a vedere la storia di Dio in quella degli uomini.