Nell’aprile di quattro anni fa (9 aprile del 2017) moriva dei più grandi studiosi e critici letterari italiani: Giorgio Bàrberi Squarotti.
Era nato a Torino nel 1929 ed era stato allievo di Giovanni Getto all’Università di Torino, dove si era laureato nel 1952 con una tesi sull’opera letteraria di Giordano Bruno. Presso la stessa Università insegnò Letteratura italiana dal 1967 al 1999. Con Angelo Jacomuzzi diresse Letteratura e critica: antologia della critica letteraria in 2 volumi presso D’Anna (prima ed. 1967) e Critica dantesca: antologia di studi e letture del Novecento (prima ed. 1970). Dopo la morte di Salvatore Battaglia, divenne responsabile scientifico del Grande dizionario della lingua italiana UTET; a lui venne anche affidata la direzione di una Storia della civiltà letteraria italiana in sei volumi (1990-1996). Consigliere-fondatore della Fondazione Marino Piazzolla, nel 1981 con Gian Luigi Beccaria, Marziano Guglielminetti e Giorgio Caproni istituì la Biennale di Poesia di Alessandria.
Voglio ricordare Giorgio Bàrberi Squarotti perché a lui mi lega una nutrita corrispondenza epistolare, cosa che evidenzia la grandezza di quest’uomo, la sua umanità e affabilità, specie se penso che il periodo dei nostri rapporti epistolari iniziò mentre ero un giovanissimo docente al quale egli, con mia sorpresa, si abbassava a dare confidenza e ascolto. La sua prima missiva è del 18 gennaio 1994:
Caro Pisana,
Le sono grato del gentile invio della Sua raccolta di versi, una delle prime che ho ricevuto nel nuovo anno e, di conseguenza, particolarmente gradita anche come augurio poetico di un fruttuoso 1994. La Sua è una poesia di ampio respiro, di intensa commozione morale e religiosa, condotta con un linguaggio puro e vivo. Me ne sono spiritualmente nutrito.
Con i migliori auguri e saluti.
Giorgio Bàrberi Squarotti
Nel corso degli anni, ebbi modo di leggere qualche suo libro, e di scrivere in punta di piedi qualche commento critico, al quale egli, con grande senso di umiltà, rispondeva puntualmente come nella lettera del 27 settembre 1994:
Caro Professore,
Le sono vivissimamente grato della splendida recensione che ha dedicato con tanta gentilezza al mio libro “piemontese”, a cui son legato in modo particolare perché è anche, nel modo più oggettivato, una confessione di esperienza di vita, di idee, di letteratura.
Non potevo desiderare davvero un lettore più profondo e attento di Lei.
Con i migliori auguri per la Sua attività e un caro saluto,
Giorgio Barberi Squarotti
Delle mie varie pubblicazioni poetiche, critiche, teologiche, storiche Giorgio Bàrberi Squarotti venne sempre omaggiato, e quel che mi colpiva era il fatto che dava sempre un riscontro e qualche impressione, come nella lettera del 15 febbraio 1997:
Caro Professore,
La Sua raccolta di versi mi è giunta particolarmente gradita perché mi ha portato gioia, fiducia, conforto, speranza. La Sua è una poesia profondamente religiosa, di una religiosità di letizia e di luce, quale credo anch’io il cristianesimo debba essere sempre, anche nel dolore.
Gliene sono gratissimo. E Le porgo molti cari auguri e un saluto.
Giorgio Barberi Squarotti
Mi colpiva sempre di Bàrberi Squarotti l’onestà critica e intellettuale; le sue non erano risposte di cortesia, di retorico galateo sociale, ma sempre impressioni puntuali ed oneste nel merito. Nel 2006 infatti, quando pubblicai il mio libro su Quasimodo, “Quel Nobel venuto dal Sud. Salvatore Quasimodo tra gloria ed oblio”, in una lettera del 27 novembre 2006 mi scrisse garbatamente di non condividere alcune mie considerazioni:
Caro Professore,
Le sono gratissimo del doppio dono, perché entrambi preziosissimi: La Sua poesia religiosa è alta e appassionata, fino a giungere al sublime metafisico nell’invocazione a Dio e nella contemplazione del Cielo, mentre il libro dedicato a Quasimodo è suasivo e molto utile (anche se non condivido del tutto le Sue considerazioni: secondo me l’edizione delle “Poesie” del 1962 – se non sbaglio – e “Giorno dopo giorno” sono i risultati più alti e sinceri di tutta l’opera di Quasimodo, mentre dopo prevale l’eloquenza e, prima, avverto nella sezione cosiddetta ermetica il sospetto di non assoluto rigore e di imitazione ungarettiana, con la conseguenza già allora di orazione (neoclassica), fra Carducci e D’Annunzio di Elettra).
Con i più vivi auguri e saluti.
Giorgio Barberi Squarotti
Nel ricordare Bàrberi Squarotti, voglio soffermarmi sul suo libro Le colline, i maestri, gli dei (Ediz. Santi Quaranta,1992), ove egli delineava alcuni dei filoni letterari più significativi del Novecento italiano.
L’Autore raccoglie in quest’opera saggi che, lungo il suo itinerario di studioso, dedicò, in varie occasioni, a scrittori, poeti e narratori: Giovanni Getto, Augusto Rostagni, Benvenuto Terracini, Mazzantini, Gobetti, Gozzano, Tarchetti, Roberto Sacchetti, Giacomo Debenedetti, Augusto Monti, Pavese, Arpino, Fenoglio, Calvino e Primo Levi.
1.Il Sitz im Leben della critica di Bàrberi Squarotti
L’indagine critica di Bàrberi Squarotti dà anzitutto ordine e forma alle sue intuizioni e proiezioni ermeneutiche, le quali risultano situate all’interno di un quadro di riflessione ove è possibile cogliere le principali linee di movimento della scrittura e dell’opera degli autori presi in esame. Ciò che piace del critico torinese, è il fatto che la stesura dei suoi saggi non si perde nei meandri di un “criticismo accademico”, ma si connota come misurazione dell’esegeta con il flusso di idee e sensi di cui un testo è portatore.
C’è, a mio avviso, nel discorso critico di Bàrberi Squarotti un procedimento non descrittivo ma dimostrativo, tant’è che riesce a fornire ai lettori, specialisti e non, le ragioni di una scelta letteraria, le metodologie e i percorsi esistenziali e linguistici che hanno mosso le disposizioni scrittorie di ogni singolo autore. E, così facendo, le soluzioni interpretative non sfociano quasi mai in giudizi di gusto, ma risultano sempre supportate da minuziose esegesi e comparazioni critiche di testi, da cui si evince sia la correlazione costante tra testo e contesto nei suoi livelli etico-ideologici, sia l’intelaiatura strutturale di un’opera con particolare attenzione alla scrittura e al linguaggio come veicolo di istanze espressive, sia l’origine dei processi storici, culturali e valoriali, racchiusa nel campo prelinguistico e metalinguistico.
Credo, tuttavia, che l’operazione critica di Giorgio Bàrberi Squarotti si muova privilegiando di più l’andamento storicistico, ossia la valenza relazionale in base alla quale si giustifica ogni evento testuale a partire dal suo rapporto con il contesto socio-storico. Ciò sembra avvalorato da quanto lo stesso Autore del libro scrive nella premessa: “…mi interessa fondamentalmente il quadro complessivo entro cui si collocano la scrittura e l’opera che prendo in esame…”. E allora possiamo dire che nell’approccio ai testi letterari le tesi critiche di Bàrberi Squarotti scaturiscono dalla collocazione in un sistema di rapporti e di significato, ossia di un insieme di modi di pensare, di ideali, di valori, di norme, di propulsioni vitali, che disegna la “geografia ideologica” dell’opera.
2.Profili critici in “Le colline, i maestri, gli dei”: da Giovanni Getto a Primo Levi.
Il saggio su Giovanni Getto, con il quale si apre il volume, porta alla luce gli elementi caratterizzanti “di una concezione della critica come ricerca e definizione della funzionalità strutturale sia dell’opera sia del complessivo discorso di uno scrittore”. Bàrberi Squarotti sostiene che il lavoro critico del Getto, condotto su testi di San Francesco, di Iacopone da Todi, di Dante, di Leopardi, del Tasso, di Manzoni, di Boccaccio, di Pascoli, etc., si pone in posizione polemica con il crocianesimo, superandolo nei suoi schemi e con il fine di giungere “ad attuare l’intento fondamentale del suo esercizio critico: la sostanziale unità strutturale della ricerca, nella compenetrazione di tutti gli elementi, e quella che si potrebbe chiamare la vitale avventurosità dei singoli momenti e aspetti di cui quella complessiva esperienza risulta: la funzionalità, insomma, dell’organismo, e la vita spirituale varia e animata che ne ha guidato la formazione, il divenire”.
Puntuale e particolareggiata la disamina su Augusto Rostagni, del quale Bàrberi Squarotti ci fornisce le categorie interpretative attraverso una rivisitazione dei “Poeti alessandrini”, nonché le motivazioni ideologiche e letterarie che lo hanno spinto a dedicare, nel 1920, un libro a Giuliano l’Apostata. La conclusione cui arriva il critico torinese è che Rostagni “fornisce anche un esemplare metodo di lettura per il genere satirico come quello dell’antifrasi, del capovolgimento ironico dei Valori per più intensamente ed efficacemente rilevarne la reale distruzione nel mondo”.
Di Benvenuto Terracini Bàrberi Squarotti ci rivela il procedere dell’interpretazione critica, convogliata nella lettura analitica del XXVII canto dell’Inferno e dell’XI del Paradiso di Dante, e delle pagine sulla prosa della “Vita Nuova” e del “Convivio”. Il critico torinese individua il metodo di lavoro di Terracini, i condizionamenti cui l’autore è sottoposto dalla unità del canto, i suoi interessi per l’identificazione stilistica, per poi affermare che “il discorso interpretativo di Terracini si svolge all’interno di una circolarità che muove dall’indicazione dei modi dello stile per giungere a cogliere la ragione di idee, di concezione poetica, di presa di posizione ideologica, di disposizione personale nei confronti della situazione o del personaggio rappresentati, che ha determinato la scelta degli strumenti stilistici”.
Nel saggio su Mazzantini e il problema estetico, le argomentazioni di Bàrberi Squarotti tendono ad evidenziare tre aspetti: 1) il carattere dei principi estetici del Mazzantini, il quale “propone un’estetica fondamentalmente intellettualistica, in opposizione ad un’estetica dell’espressione e del sentimento quale è quella di Croce”; 2) la dimensione religiosa e trascendente sottesa ai principi estetici di Mazzantini, per il quale “l’opera d’arte — scrive Bàrberi Squarotti — è soltanto una tappa nel viaggio verso Dio”; 3) gli andamenti ora crepuscolari ora rigorosamente morali e spirituali della poesia mazzantiniana.
Di Piero Gobetti pone in risalto il fatto che “il punto centrale della sua critica teatrale è costituito dalla reazione, spesso anche aspra, contro ogni forma di verismo e di naturalismo, sia del testo sia della rappresentazione e della recitazione”, come pure mette in luce le sfaccettature più significative del metodo critico gobettiano a partire da alcuni interventi su “La Mandragola”, “Gli Innamorati” del Goldoni, il Saul dell’Alfieri.
Il rapporto tra letteratura e vita costituisce il nucleo fondamentale del saggio su Gozzano. In esso Bàrberi Squarotti convoglia le sue tesi spaziando all’interno di tematiche legate alla “salute”, al “silenzio”, alla “natura”, al “sogno”, e dimostrando come “Finisce davvero, con Gozzano, la poesia come vita (e la vita come poesia) secondo l’illusione romantica e secondo il piano dannunziano di una vita capace di essere l’inimitabile fonte di nuova scrittura”. “Il libro poetico di Gozzano — sostiene Bàrberi Squarotti — è attraversato dalla tentazione di farla finita con la letteratura per scegliere la vita”.
Interessante, per i riferimenti storici, gli agganci ambientali e l’acutezza delle osservazioni, il discorso critico sui due romanzi “Una nobile follia” del 1866 e “Vecchio guscio” del 1879, rispettivamente di Marchetti e di Roberto Sacchetti. Nel primo, Bàrberi Squarotti evidenzia, attraverso una puntuale decifrazione del filo conduttore che lega le vicende narrate da Marchetti, come l’aspetto più singolare del romanzo sia proprio nell’approccio tanto mediato e indiretto al programma e alla polemica antimilitarista che ne costituisce la ragione di fondo, mentre in “Vecchio guscio” egli coglie i tratti di particolare intensità narrativa nonché i momenti più significativi del vissuto dei vari personaggi del romanzo e della famiglia Migliasso, concludendo con una comparazione critica che mette in luce incastri e diversità con i romanzi siciliani del Verga.
Di Giacomo Debenedetti – sostiene Bàrberi Squarotti – che “il narrare si volge verso il saggio, anche come meditazione sull’incontro fra lettore e testo, letterato e vita, fino a toccare, appunto, i confini del discorso saggistico che non sia soltanto analisi del testo, ma anche ritratto d’una educazione intellettuale come esemplare, perché capace di riaffabulare Omero e i poeti alessandrini di viaggi e imprese di mare e di conquiste non per l’avventura dell’ulissismo, ma per quella della reinvenzione letteraria”.
In Augusto Monti Bàrberi Squarotti delinea le forme e le figure della narrativa e afferma che “il narrare del Monti è un narrare che ha come fondamento autentico l’entusiasmo dell’avventura: tanto più inesauribile e straordinaria quanto, in apparenza, più costretta da termini spaziali circoscritti e compressi”. Nei romanzi di Pavese avverte invece come la loro struttura fondamentale stia nel viaggio: nel “viaggio di ritorno odissiaco, non quello dell’esperienza”, un “viaggio fondamentalmente antropologico”. Pertanto, sostiene il critico torinese, “la complessità dei romanzi pavesiani nasce da queste diverse scansioni della linearità narrativa del viaggio: che, allora, non è mai soltanto quello nel tempo oppure il passaggio da Torino alle Langhe o dal Nord al paese di confine nel Sud, ma è anche altro, come, appunto, il capovolgimento del viaggio di esperienza e di maturazione per il ritorno del protagonista non soltanto a contemplare nella natura e negli uomini la primitività, ma anche in se stesso”.
Nel saggio su Fenoglio vengono tratteggiati i caratteri moderni dell’eroe fenogliano: “non l’eroe del trionfo, delle vittorie, della superiorità nei confronti di tutti i nemici, anche della natura quando questa voglia opporglisi, sfidatore perfino degli dei, ma l’eroe nella sconfitta, che si trova sempre di fronte le condizioni peggiori per lottare le avversità più penose, quelle che ne rendono faticosa, dolorosa, infinitamente difficile fin dalle più banali condizioni materiali, ogni impresa”.
Per concludere, questi riferimenti sono indubbiamente un esempio di come la struttura critico-letteraria di Bàrberi Squarotti affondi le radici in un fondamento esegetico che rivela l’uomo di scienza, lo studioso che padroneggia la materia, l’ermeneuta che sa quali strumenti utilizzare per leggere un testo, analizzarlo, decodificarlo e renderlo fruibile ai lettori.
A riguardo Bàrberi Squarotti evidenzia una eccezionale capacità di mediazione linguistica; il suo discorso critico non annoia mai il lettore perché si snoda con straordinaria linearità e chiarezza linguistica, senza appesantimenti o percorsi tortuosi che rendono inaccessibile la comprensione dei lavori letterari presi in esame.
Il critico torinese mostra, quando si accosta ai testi, di possedere un suo sistema organico di lettura e di verifica, un suo quadro referenziale di scelte “obiettive”, differenziandosi così da tanti critici, che, pur appartenendo all’alto rango della critica universitaria, si prestano ad esercitare – direbbe Mario Lunetta – la diffusissima pratica della liofilizzazione letteraria.
Bàrberi Squarotti, che è stato tra le massime autorità in Italia nel campo della letteratura e della critica letteraria, si rivela, senza ombra di dubbio, un ricercatore attento che fa ricorso alle principali metodologie disciplinari della critica per studiare un testo letterario e sottoporlo ad uno scavo ermeneutico; e, così operando, si muove sempre con il rigore della scienza riuscendo ad interrogare un testo al di là del suo campo simbolico, della dinamica dei segni e della scrittura, e ad offrirlo, dopo calibrato esame critico, ai lettori in genere e agli addetti ai lavori.