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La poesia, l’uomo, la vita, la morte …di Domenico Pisana

Tempo di lettura: 2 minuti

Mi giungono parecchi libri di poeti contemporanei e vedo che ciò che li accomuna è la centralità dell’uomo, e allora mi sorge una domanda: chi fa poesia, perché la fa?
La fa per gioco, per diletto, per comunicare, per esprimere sentimenti, per dare messaggi, per mettersi in evidenza, per vincere un premio, per se stesso? Potremmo dire per tutto questo ma anche per nessuna di queste cose, tuttavia una cosa rimane certa: che dentro la parola poetica c’è sempre l’uomo; l’uomo “animale ragionevole”, l’uomo “mostro informe”, l’uomo “assurdità”, l’uomo “di troppo”, l’uomo “passione inutile”, l’uomo – come dice la Bibbia – soffio e abisso che solo Dio può riempire.
Ogni poesia, al di là delle sue risoluzioni stilistiche, metriche e formali, al di là del fatto che a scriverla sia stato – come dice qualcuno – un poetino , un poetastro o un poetucolo, ogni poesia è pur sempre un sguardo sull’uomo quale realtà estremamente complessa, sull’uomo groviglio di problemi, sull’uomo spirito ma anche materia, tempo ma anche eternità, individuo ma anche membro di una società, sull’uomo magnanimo ma anche codardo, sull’uomo realtà trascendente e diabolica, sull’uomo che ama e odia, sull’uomo che è angelo ed è bestia.
Vero è che a dirci cos’è l’uomo ci hanno tentato la filosofia, l’etica, la psicologia e la pedagogia, la religione e la teologia, ma la parola poetica è il luogo privilegiato dove questo “poetino” cerca con immagini, metafore, simboli, visioni apparentemente incomprensibili ed intuizioni di decifrare che cosa è l’uomo.
La poesia non teorizza certo tesi scientifiche per definire l’uomo, ma è indiscutibile che essa guarda l’uomo così come si presenta, guarda l’uomo a portata di mano, l’uomo così come appare, l’uomo in situazione, l’uomo di ogni giorno, l’uomo della strada, interpellandolo velatamente al cambiamento.
La poesia guarda l’uomo e ci dice che è l’uomo stesso la porta di accesso a dirci che cos’è l’uomo.
Nei versi di poeti contemporanei, noti e meno noti, che mi capita di leggere c’è sempre questa visione dell’uomo come essere in transitorietà, come essere in provvisorietà, come essere per il quale l’esistenza non è ovvia.
Se una direzione la poesia ha da imboccare, è quella di una rifondazione strutturale e formale del suo estrinsecarsi nelle pieghe di un umanesimo smarrito, dando le ragioni perché la si fa; se è la Musa a cercare il poeta, la poesia ci sarà e userà il linguaggio, la forma e la parola per aiutare l’uomo di questo nostro tempo a porsi domande, a ri-progettarsi, ad autotrascendersi, a cercare un “oltre” e a ri-comprendere il rapporto vita – morte.
I poeti parlano di morte non come un tema, ma con la consapevolezza che l’uomo è un essere per la morte e quindi non può svestirsi di questa possibilità, anzi questa è la possibilità assolutamente e veramente umana, perché delle altre possibilità l’uomo può come non può fare uso, ma la morte è strutturale a lui e quindi è una possibilità di cui l’uomo non può scrollarsi. E vero allora che il pensare alla morte non fa banalizzare la vita. Perché? Perché quando si banalizza la morte, si banalizza la vita. E la morte si può banalizzare quando la si vede come un fatto casuale(per caso si muore); quando la si vede come un caso pubblico(tutti muoiono); ovvero quando la si fa diventare un processo biologico(le cellule non si riproducono più, quindi si muore).
Il pensare alla morte apre l’uomo alla più autentica vita umana, in quanto lo sottrae alla disperazione e lo riporta all’unità; l’uomo che ad ogni istante sa di poter venir meno non si disimpegna, ma cerca di vivere una vita autentica, cioè invece di disperarsi, di lasciarsi assorbire dalle cose, dai fatti che capitano, cerca invece di dominarli.
Quando la parola scava come un minatore dentro il poeta, questi intuirà che il pensiero della morte apre l’uomo alla vita più autentica, sottraendolo dalle possibilità immediate ed inautentiche, come per esempio il seguire ciò che piace, il trastullarsi infantile di molti, il vivere con leggerezza; si banalizza la vita ogni qual volta si vive in tal modo, ogni qualvolta si vive in maniera anonima, acefala, aconfessionale, apolitica. In tal modo si vive senza personalità e si ha allora la ripetitività(lo fanno gli altri , lo faccio anch’io) e si diventa gregge, pecora, etc..
Forse scrivere poesie non servirà a nulla, ma quel poeta è una voce che si batte per le cose in cui crede, perché ha intuito che se si banalizza la vita, essa diventa neutra, incolore, senza senso.

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5 commenti su “La poesia, l’uomo, la vita, la morte …di Domenico Pisana”

  1. La poesia è un concetto molto ampio che ha un accezione molto più ampia di quella che va per la maggiore. In questo caso la poesia sarebbe prerogativa di pochi eletti e l’essere poeta subordinato alla conoscenza della lingua e alle competenze metriche e stilistiche della persona che la scopre nelle realtà intorno e dentro di sé e la rivela. . Dunque la poesia è nell’uomo e nella realtà, per questo motivo tutti gli uomini sono poeti e la realtà è poesia, se non si vive in una dimensione poetica non si vive intensamente o non si vive, cadendo nel paradosso di un umanità che non vive secondo se stessa.

  2. Il “vivere con leggerezza” attraverso cui “si diventa gregge” di Pisana e il “se non si vive in una dimensione poetica, non si vive intensamente o non si vive” di Tonino, inducono a semplici e sofferte riflessioni.
    E’ tristemente evidente che oggi non si vive in una dimensione poetica, poiché quel po’ di apparente poesia circolante emerge sovente con l’artificio del marketing o con la finzione latente dei social.
    Oggi la “dimensione poetica” è sommersa, perché non risponde ai canoni di una società che rincorre l’efficientismo attraverso modelli formativi alla stregua di dottrine, che forgiano produttori di reddito, venditori di servizi e ammaliatori.
    L’uomo del XXI secolo vive in una realtà fondata sempre più sul consumo, in cui si paga per l’uso e in cui la condivisione è finalizzata esclusivamente al ridimensionamento dei costi.
    E l’attitudine al consumo e la capacità di consumare sono alla base della sussistenza, più che dell’esistenza.
    In un mondo in cui se non consumi non vivi, anche la poesia non può che essere marginale.
    Anzi, oggi essa stessa è destinata al consumo.
    Una poesia usa e getta, che vive per l’istante in cui si utilizza, perché dentro ognuno di noi trovano sempre meno spazio i granai dell’emozione e dello stupore che la immagazzinano e custodiscono.
    Perché il “wow” dilagante non è stupore o meraviglia o sorpresa ma la pre-gustazione di un consumo vorace e istantaneo.
    L’attesa distratta di un godimento occasionale.

  3. Mi trovo per caso, in questo sito e in questo post, davvero nulla succede a caso. Complimenti al sito, a Pisana, per la lucida e sofferta analisi ma anche ai commentatori, anche se il sig tonino non mi trova del tutto d ‘l’accordo., nella sua visione platonica della poesia, che sembra escludere l ‘ importanza dell ‘apporto personale o della poetica personale. Si!!! Dobbiamo mantenere viva, attiva e costante una prospettiva metacognitiva dell ‘ uomo e della società, sulla scia dei grandi pensatori, in particolare rispolverare gli scritti dei pensatori della scuola di Francoforte, ma anche di Marcuse Herbet, Norman Brown ecc, i tempi c’è lo impongono, dobbiamo disporci in costante prospettiva metacognitiva………

  4. Benvenuto caro Aurelio nel sito! Accetto i tuoi appunti a quanto prima da me espresso, per la loro schiettezza e mancanza di acredine, desueto al giorno d’oggi, ma fondamentale per un dialogo proficuo a tutti i livelli. Tuttavia resto nella mia convinzione, checchè se ne dica della poesia, da parte dei grandi dotti, come creazione di grandi e eletti artisti, credo personalmente e umilmente che la poesia si incontra in una dimensione dello spirito, della mente e del cuore ,comune a tutti i mortali, in cui la realtà ci si presenta da angolazioni e prospettive non consuete, e che le poesie più belle siamo delle rappresentazioni realissime e oggettive della realtà viste sotto ispirazione poetica, penso all’iinfinito di Leopardi, ma anche A Silvia e Al sabato del villaggio. Il poeta per me non è chi scrive poesie e riesce a farle pubblicare, ma una persona che guarda di frequente la realtà ispirato poeticamente come il fanciullino di pascoliana memoria. Ecco queste ,oggi più che mai, rare “ispirazioni” poetiche dovrebbero essere una condizione e dimensione stabile dell’animo umano, condizione e preludio della felicità nella vita nel tempo. Mi trovi invece totalmente d’accordo su quanto dici sulla prospettiva metacognitiva, e propongo di aggiungere agli autori che citi: Il pensiero di Zygmunt Bauman.

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