Poesia tra progetto, etica ed estetica /6 … di Domenico Pisana

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La poesia tra autenticità e progetto

Il poeta britannico Wystan Hugh Auden scriveva: “Gli interrogativi che soprattutto mi interessano quando leggo una poesia sono due. Il primo è di carattere tecnico: ‘ Ecco un marchingegno verbale. Come funziona?’ Il secondo è morale nel senso più ampio del termine: ‘Che tipo è colui che vive in questa poesia? Qual è la sua idea di ciò che è bene, di ciò che è giusto? E la sua idea del Maligno? Che cosa nasconde al lettore? Che cosa nasconde anche a se stesso?” (1)
Parto da questa citazione per dire che ci sono critici contemporanei che cercano spesso di rispondere soprattutto alla prima domanda: come sono fatte, come funzionano le poesie? Tutto ciò lo troviamo presente nella miriade di scritti teorici sull’argomento, con particolare attenzione ai vari metodi di studio della letteratura che sono succedute nel corso del Novecento. Leggo poi in giro che oggi manca la “poesia autentica”, e mi domando: è possibile stabilire l’autenticità del verso? Quando sento i critici-poeti dire che non si riesce più a capire verso dove va la poesia e che è divenuto impossibile fare mappe della poesia, penso che questa sia una istanza vera e seria, ma ciò che mi rende perplesso è l’idea che debba essere la critica letteraria – con i suoi strumenti, i suoi metodi e le sue regole – a definirne l’autenticità e le mappe. Io sono invece convinto, uscendo un po’ dal coro, che è la vita ad dover offrire gli elementi per la critica.
Perché la poesia e perché i poeti? La domanda è del filosofo Martin Heidegger, il quale si chiese quale fosse il senso della parola poetica in un mondo, quello della tarda modernità, che sembra dare poco valore alla parola, un mondo colmo di rumore, stordito dalle luci delle immagini, inebriato dalla velocità.
Questo mondo non lascia spazio a ciò che non è immediatamente utilizzabile e le parole della poesia, lente, appartate, quasi timorose, non sono immediatamente utilizzabili o, se si vuole, hanno un diverso grado di utilità. Perché dunque la poesia? Qual’ è il suo posto nell’era di Internet, dell’informazione globale, della comunicazione massificata? Perché oggi si scrive e perché si legge poesia? Sono attività residue? È il retaggio di altri tempi? Ma innanzi tutto c’è da chiedersi, come faceva Mario Luzi, grande poeta italiano, se questo esercizio, probabilmente marginale, che è la poesia, sia in grado di cantare qualcosa di pari alla vita.
È proprio su queste domande che, a mio avviso, bisogna cercare l’autenticità; è su questo terreno che la poesia da sempre si misura e deve misurarsi. Non è mai stata, certo, il centro del mondo e neppure un linguaggio di largo consumo e sicuramente non ha mai cambiato il corso della storia. Ieri, come oggi, da quando l’Occidente è entrato nella parabola della modernità, la poesia raccoglie, custodisce, testimonia i battiti del tempo umano, “la calda fuggitiva onda del cuore”, come scrive Reiner Maria Rilke nelle Elegie Duinesi, un vero monumento della poesia del Novecento.
L’autenticità della poesia va dunque cercata non solo nell’ “estetica”, ma anche nell’etica, atteso che la parola estetica contiene anche “etica”. Mi pare superfluo in questo spazio argomentare sulle teorie estetiche perché si rischierebbe di annoiare il lettore, che è invitato a leggere, se vuole, la tesi di laurea del filosofo tedesco Alexander Gottlieb Baumgarten intitolata “Meditazioni filosofiche su argomenti concernenti la poesia”; qui dico soltanto che la poesia autentica ha a che vedere con il reale, non concepito nell’atto del suo rispecchiamento, ma – direbbe Magrelli – nella sua invenzione, nella sua negazione, che riguarda e può riguardare tutto l’ambito del reale.
Poiché, a mio giudizio, l’autenticità va cercata soprattutto nel reale che la poesia rappresenta, sono d’accordo con Auden quando afferma che la critica deve non solo occuparsi di estetica, di letture filologiche e stilistiche, ma deve domandarsi chi è, quale visione del mondo mostra di avere l’uomo che ha messo insieme il “marchingegno verbale” che abbiamo sotto gli occhi, e quale profitto etico il lettore può ricavare dal colloquio con lui.
Ecco allora che quando si parla di “grande progetto della poesia” , il progetto non è , a mio modesto avviso, da intendersi come una “costruzione teoretica” che, sull’eredità della grande poesia del Novecento, ridetermini i confini dell’autenticità della poesia contemporanea, le sue caratteristiche formali, retoriche, metriche, tematiche, e che dica quale posizione essa debba occupare nell’attuale sistema dell’arte; per progetto intendo piuttosto un discorso su “che uomo/donna è” colui che ci parla, oggi, di poesia, e sul genere di visione del mondo che egli trasmette ai lettori.
Rispetto a questo fatto, gran parte della nostra poesia contemporanea non riesce, sia sul piano dell’impegno poetico che su quello della cifra stilistica e linguistica, a costruire una idea progettuale che vada oltre l’intimismo, il privato inteso come evocazione del proprio sentimento, oltre la descrizione del sociale, mostrandosi così incapace di attrarre e di interessare i grandi gruppi editoriali che hanno il compito di metterla nel circuito della grande comunicazione contemporanea.
A tanti poeti italiani del secondo Novecento e contemporanei non manca certo l’inventiva, la fantasia, la capacità di usare registri stilistici anche innovativi, quanto, piuttosto, la forza e il coraggio di andare oltre la “rappresentazione” del momento storico attuale, che continua ad essere “custodito” con canoni stilistici che si rifanno, in diversi casi anche pedissequamente, alla tradizione poetica italiana del primo Novecento, mentre, forse, sarebbe il caso di “tradirlo”, nel senso che occorrerebbe riconsiderarlo in una prospettiva tridimensionale che sappia dare un respiro europeo alla lirica e sappia altresì guardare ai grandi poeti di culture e tradizioni diverse.
La tradizione poetica del primo Novecento spagnolo ci dà, ad esempio, un quadro caratterizzato da affacci poetici molto originali e spesso anche estremizzati nella direzione del reale. Uno degli studiosi più appassionati della poesia ispanica, Oreste Macrì, fa rilevare che “le esperienze più avanzate – naturalismo – neoromanticismo, surrealismo, realismo marxista(…toccano) in Spagna l’estremo della polemica, e insieme della validità poetica, nei vari nomi di Neruda, Aleixandre, Larrea, Lorca, Alberti”. A questi poeti potremmo anche aggiungere Guillermo de Torre, Gerardo Diego, Miguel de Unamuno, Gongora e Antonio Machado, per andare ancora ai grandi poeti della Rinascenza catalana, Verdaguer e Guimerà. Nel tessuto sociale spagnolo l’identità del poeta appare quella dell’ “artista totale”, cioè di colui che è presente pienamente nella vita sociale della sua terra e che s’impone non solo per i suoi versi ma anche per esperienze, per la realizzazione di opere figurative e, financo, di cura di spettacoli.
La tradizione spagnola ci ha consegnato la figura del poeta che non è chiuso nella sua torre eburnea, nelle sue speculazioni intellettualistiche, nella magia delle sue alchimie, ma che assume il volto di colui che con la sua parola poetica scava, divelle, sferza e vive pienamente coinvolto nel tessuto sociale, politico e culturale del suo tempo. In quest’ottica Miguel de Unamuno(1864 -1936) è uno dei padri. Questi, definito da Guido Ceronetti “un uomo giusto e uno scrittore illeggibile”, fu un poeta-filosofo, un drammaturgo, un romanziere che oggi viene fatto rientrare nel movimento letterario chiamato Generazione del ’98, espressione del modernismo letterario spagnolo.
Credo , allora, che l’architrave di un “grande progetto di poesia” non possa dunque non poggiare sulla convinzione – direbbe Mazzoni in un suo saggio- che esistono delle discontinuità significative fra periodi storici diversi, nonché sull’idea che si possano raggruppare opere diverse per origine, scopo, funzione in insiemi unitari come gli stili, i periodi, i generi.
Insomma, un progetto necessita di uno “sguardo olistico” che creda nel valore rappresentativo delle esperienze estetiche.

La poesia tra etica ed estetica

Un progetto di poesia nel tempo della crisi non può trascurare, a mio giudizio, alcuni elementi cardini che io individuo: 1) nell’alterità, ossia l’apertura all’altro, per dirla con Levìnas, e al proprio tempo; 2) nella forza della parola poetica e del linguaggio; 3) nell’autentica espressione e trasfigurazione della condizione esistenziale umana.
E’ dentro questo habitat che occorre ricercare l’orientamento estetico della poesia contemporanea, superando tutte le estetiche del secondo dopoguerra, come quelle di orientamento marxista, quelle analitiche, l’estetica fenomenologica, tanto per citarne alcune, le quali, al di là delle ovvie differenze, hanno in comune il fatto di indicarci che non è possibile trascurare la valenza etica della poesia, dell’arte in genere, nonché gli aspetti etici dell’esperienza estetica e la responsabilità della forma.
Ribadisco, ancora una volta, che bisogna uscire dalla fissazione statica e classificatoria dei poeti; quando parlo di “progetto poetico”, non intendo fare riferimento ad un progetto dentro il quale debbano collocarsi poeti mediaticamente affermati o con un curriculum di premi, coppe, diplomi e medaglie che ne accreditano il valore; piuttosto mi riferisco ad un “progetto ideazionale” in cui il poetare esprima, anzitutto, la consapevolezza che – come scriveva Igino Giordani – “la civiltà è un sistema d’idee: e le idee sono messe in circolazione specialmente dai libri”.
Ogni società, soprattutto oggi, è, si può dire, quale i suoi libri la fanno”. Un libro di poesie, ad esempio, andrebbe pubblicato, non importa se a proprie spese o da un editore, se ha a fondamento questa visione, altrimenti diventa una sorta di esposizione occasionale ed autocelebrativa di se stesso.
Spesso “i poeti che attraggono” sembrano essere quelli che mettono in campo tecniche formali e geometrie di parole che fanno molta presa più sul piano estetico che etico; si tratta di poeti che si appoggiano all’idea che Adorno, nella sua “Teoria estetica”, sostiene allorché attribuisce al concetto di “forma” una funzione fondamentale, perché è per merito della forma – e perciò della sua irriducibile autonomia e individualità – che l’opera può “criticare” l’esistente, ponendosi nei suoi confronti come negazione dialettica.
Io credo che in un tempo di crisi come il nostro, la poesia debba, invece, “ripensarsi” collocandosi nella prospettiva etica dell’incontro e del colloquio, capaci di sconfiggere la solitudine e l’incomunicabilità vera che tutti soffriamo, stranamente al tempo di internet , dentro questa nostra società, in questa nostra Europa, in questo nostro mondo.
E qui mi pare sia importante, a questo punto, al fine di evitare equivoci, che venga chiarito il rapporto tra poesia ed etica. Si tratta di un rapporto vitale, non nel senso che debba attribuirsi alla poesia il compito di dettare norme morali o prescrizioni stringenti per superare una crisi, ma nel senso della sua funzione comunicativa, del carattere dialogico della parola poetica, con la sua costante volontà di apertura all’altro, come direbbe anche Paul Celan, per condurlo alla riflessione, per trasmettergli il valore della bellezza come valore in sé che ogni vero sentimento poetico esprime.
A volte si leggono poeti dal dettato semplice e dalla grazia formale attraente; altre volte ci si imbatte in poesie di grande virtuosismo, ma, a volte, andando in profondità ti rendi conto a pelle che dietro certo virtuosismo formale c’è il vuoto. “E non c’è niente – direbbe sempre Igino Giordani in “Poesia pura?”, “Fides”, giugno 1934, p. 264, – perché quegli autori sono orafi senza oro, virtuosisti senza virtù, scrittori senza idee: piccoli epigoni di un dannunzianesimo snervato dal crocianesimo. Col pretesto dell’arte pura, essi hanno distaccato l’arte dalla vita”.
Io mi permetto di dire che nutro perplessità verso una poesia isolata dalla vita e dal mondo e ritengo che occorra uscire dal solipsismo letterario e accademico per agganciarsi all’anima della società.
I poeti devono essere legati sempre più al mondo, e i loro versi non possono staccarsi dalla vita nelle sue articolazioni storiche, politiche, sociologiche, filosofiche, religiose, di idealità, passioni, difficoltà e speranze; una coltivazione della poesia come valore a sé stante e le dilettazioni poetiche disancorate dalla vita e dal suo “sitz im leben” restano solo “flatus vocis” destinato a dissolversi. Mi è davvero difficile pensare ai grandi poeti della letteratura estranei al loro mondo.
Il sommo Dante è forse pensabile staccato dalla politica di Firenze, dalle tensioni tra Chiesa e Impero, dai dibatti sociali, culturali e dai fatti della sua epoca? E per non andare lontano, poeti come Eliot ed Auden sono pensabili staccati dalle vicende del loro contesto socio-politico? E’ un caso se la poetica elotiana e di Auden opera una riflessione storica e metastorica sulla sofferenza della condizione umana? E’ un caso se entrambi colgono, per superarlo, il problema del rapporto tra arte e storia? Quando Auden in un suo verso afferma “Che perfino il tremendo martirio deve compiere il suo corso”, non fa proprio un richiamo esplicito alla situazione storico-politica del suo tempo e al problema della tirannide fascista? E ancora, come si fa a pensare i poeti francesi Claudel, Gide e Valéry slegati dalle situazioni sociali e storiche del loro tempo?
In un grande progetto di poesia, i versi dei poeti sono la “coscienza pensante” che deve aiutare questa nostra società in crisi a risollevarsi dal “disumanesimo” in cui sta sempre più sprofondando; il verso del poeta non è la celebrazione dell’estetica, non è arte per arte, non è il sollazzo di chi imbratta carta per mero piacere estetico interiore; il poeta non è un suonatore di cetra ai piedi del proprio sé.
Qui non si tratta di ripristinare la figura del poeta civile né le dispute dell’avanguardia sull’engagement della poesia, perché alla poesia non si può dare nessun compito: la poesia è linguaggio, linguaggio dell’anima, dello spirito, linguaggio che traduce la condizione dell’esistenza.
Il poeta, per dirla con Heidegger, è l’uomo della soglia, l’uomo della frontiera, del confine, nel senso che fiuta un pericolo, il disagio del suo tempo, intuisce ciò che altri non intuiscono, e quando intuisce “traduce”, cioè porta quel disagio, quel pericolo dentro un linguaggio che parte dalla vita e alla vita ritorna. Direi allora con Novalis che “dichten ist ubersetzen”, cioè poetare e tradurre vivendo al confine, che è quel luogo interiore, quello spazio dell’anima dove il poeta parla il linguaggio dell’essere, della spiritualità, dei modelli, dei principi, dei valori non per fissare canoni estetici ma per fornire un importante contributo alla società in cui vive, e caricando, così, il suo operato di responsabilità.
Il linguaggio della poesia diventa insomma servizio a favore dell’altro in qualunque parte del mondo esso si trovi, servizio per la comunità civile, e il poeta un costruttore di bellezza testimoniata attraverso il nesso tra etica ed estetica della poesia.

_________________________

(1) W.H. AUDEN, La mano del tintore, Milano, Adelphi 1999, p. 70.

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