
La robusta resistenza alle riforme è stata riconfermata in occasione delle nomine Rai. Carlo Fuortes, il neoeletto ad Rai, ha nominato i vertici delle reti nazionali, senza scostarsi di un millimetro dalla consuetudine radicata di soddisfare le aspettative dei partiti. L’azienda di Viale Mazzini, punto di riferimento culturale del Paese, è una sorta di proprietà privata dei partiti, preoccupati di aggiudicarsi almeno una rete attraverso cui esercitare la propria influenza. Una lottizzazione in piena regola, confermata nei tre anni di governo Conte, nonostante l’iniziativa annunciata di una riforma. La gestione Lega-M5S, con l’ad pentastellato Salini e il presidente leghista Marcello Foa, avrebbe avuto tutto il tempo di riformare l’azienda e introdurre il modello inglese della BBC per liberare la Rai dalle ingerenze della politica. Nulla di fatto. Perfino Mediaset, che non è proprio all’avanguardia, ha in programma una ristrutturazione che contempli un direttore unico. Ma oggi Conte è imbufalito perché il suo Movimento è rimasto a bocca asciutta. Eppure, era proprio lui ad essersi espresso contro la lottizzazione della televisione pubblica. L’ex premier ce l’ha con Letta (il Pd si è portato a casa due reti, Rai1 e Rai3) e ce l’ha con Draghi, e per ritorsione, ha deciso che i suoi parlamentari non parteciperanno alle trasmissioni sulle reti nazionali. Poco male, a trarne vantaggio sarà la qualità dell’informazione. C’è chi esulta, chi si dispiace, chi vede inverarsi la profezia secondo cui ad ogni apertura di bocca di Conte il Movimento perde punti. E c’è chi si rammarica perché non sa dove andrà a presentare la sua opera prima. Sì perché dopo Casalino e Di Maio, altri pentastellati si sono improvvisamente scoperti scrittori e ambiscono, giustamente, ad avere una vetrina. Attività letterarie a parte, nella spartizione delle reti, alla Lega è andata Rai2 e anche Giorgia Meloni ha avuto la sua parte: Paolo Petrecca è andato a RaiNews. Tutti soddisfatti meno uno. Ma se la rivoluzione promessa e attesa non si è avverata, la ragione principale è nell’assenza diffusa di una marcata cultura dell’indipendenza. E, soprattutto, non va trascurato l’aspetto economico. I bilanci di Viale Mazzini sono in profondo rosso. Con i suoi 13 mila dipendenti, tra manager, funzionari, giornalisti, agenti delle star, sindacati, fornitori e società di produzione private, la Rai si avvia a diventare un’altra Alitalia, con conseguenze peggiori essendo più grande. La politica non se ne cura. Dovesse fallire, com’è probabile, o non sopravvivere alla rivoluzione digitale in streaming, ci penseranno i contribuenti italiani. Con la famigerata propensione al risparmio della classe politica e la montagna di soldi in arrivo, metà già investiti in spesa pubblica, lo spaventoso debito pubblico, 160% del rapporto tra debito e pil, non pare abbia privato del sonno i rappresentanti del popolo.