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Personaggi degli Iblei di ieri… di Domenico Pisana

Mario Agosta tra fantasia, mito e realtà.
Tempo di lettura: 2 minuti

L’attività letteraria di Mario Agosta ha sicuramente arricchito una pagina importante della letteratura siciliana. Uno scrittore garbato, squisito, dai toni mansueti e pacati, verso il quale la critica ufficiale ha anche avuto parole di apprezzamento.
Nato a Giarratana(Ragusa) nel 1924, ma modicano di adozione, fu per decenni docente di scuola elementare e di francese nelle scuole Medie Superiori. Varia la sua attività di scrittore, saggista, narratore e pubblicista. Fu per diverso tempo componente dell’Associazione Alliance Francaise di Siracusa e membro di una commissione per la difesa dei diritti umanitari presso l’UNESCO a Parigi; come pubblicista collaborò a diverse testate locali e nazionali, tra cui La Sicilia, Il Giornale di Sicilia, Il corriere della sera. Ha ricevuto vari premi e riconoscimenti per la sua attività letteraria. Morì in un incidente della strada nel 2003.
Quello di Agosta è stato un itinerario scrittorio in continua evoluzione e crescita. Parte con Giraudoux fra noi(1968), prosegue con Giufà al bando, (1978), quindi Tempo di bagole (1987), La Luna di Giufà (1991), per giungere ai due romanzi L’appuntamento(1995), La voce del vento (1999).
Una interessante monografia critica su questo percorso di Mario Agosta è stata scritta da Saverio Saluzzi in suo saggio, ove delinea tutte le angolazioni tematiche e problematiche dell’opera di Agosta, nonché gli spazi letterari entro cui collocare la dinamica scrittoria dell’autore.
Certamente non si può sottacere il fatto che il personaggio centrale che ha dato un’impronta ed una connotazione specifica all’attività letteraria del primo Agosta è stato Giufà.
Perché, c’è da chiedersi, nell’universo narrativo di Agosta, troviamo questa polarizzazione attorno al personaggio Giufà? Sicuramente perché in Giufà con i mille gesti che gli appartengono, con la sua balordaggine, con la sua arguzia, con tutte le sue scaramanzie, con il suo costume di fatiche e di ribellioni, c’è l’essenza del popolo, e particolarmente del mondo contadino. Insomma, in Giufà non c’è il semplice “stereotipo della dabbenaggine”, ma l’intento di Agosta di recuperare, attraverso il ricorso a questo personaggio, la struttura di una società che nel paradosso delineava l’ansia di un riscatto sociale; la struttura di una società portatrice di una propria cultura e tradizione e che Agosta ha saputo leggere, interpretare e riportare sulla pagina con un linguaggio di varie tematiche: ironico, dilungato, asciutto, idillico, sentimentale, ma sempre radicato in un processo di identificabilità sociale.
Giufà rappresenta per Mario Agosta il personaggio nel quale sia il singolo che la comunità sociale proiettano ciò che hanno dentro di bene e di male; ecco perché – Agosta – “le vicende e i fatti di Giufà non esprimono soltanto una certa situazione sociale, ma anche una situazione interiore che ha la ragion d’essere nella struttura familiare del nostro contadino, di quello siciliano e ragusano in particolare..”
Con Tempo di bagole Agosta pubblica otto racconti di piacevole lettura, nei quali egli offre ai suoi lettori, con una vivace narrazione, una modificazione dell’orizzonte della sua scrittura. In altre parole, egli passa da una narrativa poggiata sulla individualità (Giufà) ad una serie di sequenze narratologiche ove è la coralità ad emergere con forza al fine di far risaltare il naufragio desolante del vasto e complesso ethos sociale. Il testo si sviluppa con un linguaggio schietto, senza veli, che incide sulla realtà delle cose descritte con grande espressività.
Nel 1991 Agosta pubblica La luna di Giufà e, così, ritorna nuovamente sul personaggio centrale del suo iter narrativo con una serie di novelle che arricchiscono ulteriormente l’universo immaginifico di Giufà, grazie anche al ricorso a fonti orali raccolte dall’autore nella cultura popolare iblea.
Il Giufà di Agosta, rispetto all’opera del 1978, appare qui più complesso e misterioso e dice bene Grazia Dormiente quando afferma, nella prefazione, che “Giufà sperimenta e vive il sedimento dell’inconoscibile, dell’enigma, della metamorfosi, complice della fascinosa avventura dell’uomo e della sua maschera”.
Ci piace, in questa sede, riportare, a proposito della figura di Giufà, personaggio protagonistico in La luna di Giufà e in Giufà al bando, uno stralcio della relazione di Rita Verdirame, docente di Letteratura Italiana nell’Università di Catania, intervenuta in un convegno tenutosi a Modica nel 2018 per ricordare la figura di Mario Agosta. La Verdirame ha definito le storie e le novelle di Agosta incentrate su Giufà come “Una operazione meritoria di conservazione del patrimonio culturale locale, poiché raccolte direttamente da parlanti dialettali e rigorosamente riportate sulla scia della grande lezione demopsicologica otto-novecentesca e dialettologica della scuola siciliana, da Pitrè a Salomone Marino al barone-contadino Serafino Amabile Guastella”. Ecco uno stralcio della relazione della professoressa catanese:

“Ma cerchiamo di conoscere più da vicino questa figura così profondamente radicata nel nostro sostrato antropologico.
Qual è la scheda anagrafica di Giufà? Se le sue origini geografiche e temporali sono ancora incerte, è però assodato che la sua nascita è remota (IX o XI secolo), il luogo d’origine è probabilmente l’India, la prima area di diffusione l’Anatolia; da qui il personaggio cominciò a proliferare sia in racconti arabi anonimi sia nella novellistica popolare di tutto il bacino del Mediterraneo, con onomastica affine – Giuchà o Jochà o Ğuhâ, o ancora Djehà (che si pronuncia giuhà) – e tratti psicologici simili pur nella loro contraddittorietà.
Diffusa tra gli ebrei di Anatolia e poi in Grecia, Bulgaria, Balcani, e in Israele, Marocco e Maghreb, la sua silhouette di furbo/credulone, triste/allegro, candido/scaltro risulta nella penisola iberica al tempo della diaspora giudaico-spagnola del Cinquecento. Differenziandosi a seconda delle regioni, questo eroe-antieroe indossa sempre la comica maschera dello strambo, marchiato dalla lettera scarlatta della stupidità (…)
Appare chiaro che il nostro Giufà, che possiede una cultura non elaborata e asistematica, utilizza la parola, un’arma potente per capovolgere gli eventi a proprio vantaggio, per tirarsi fuori dalle situazioni critiche, per neutralizzare l’inganno o la prepotenza altrui e per evitare trappole e raggiri del potere.
In quest’ottica credo che si debba valorizzare l’insistenza del letterato modicano Agosta sul personaggio il quale agli occhi dei compaesani obbedienti ai canoni della comunicazione codificata si comporta come un bislacco insipiente, anomalo e non assimilabile all’interno di un contesto organizzato.
Agosta lo dice espressamente nella bella e densa introduzione individuando le scaturigini del successo popolare del personaggio e sottolineando come il ‘tipo’ Giufà esprima la frustrazione economica umana e sociale della classe contadina: ‘Il racconto è il sogno da sveglio del contadino, Giufà potrebbe essere il sogno ricorrente e le sue novelle non sono altro che i sogni ricorrenti dei contadini che per mezzo di esse esprimono la loro triste condizione umana’. Dunque Giufà è ‘altro’, appartiene alla dimensione onirica perché portatore di una sua personalissima verità, perché è il concentrato del povero di spirito, pazzo, inadeguato, imprevedibile, impunito ma puro e libero come ogni autentico anticonformista. Possiamo pertanto affermare che il complessivo corpus del ciclo di Giufà curato da Mario Agosta, pur nella varietà di aspetti della sua spiazzante figura, offre l’intera fenomenologia dell’alterità: dalla sconsideratezza alla malizia, dalla stramberia all’innocenza disvelante del buffone sacro”.

Dalle novelle di impianto popolare Mario Agosta passa, verso il 1995, ad una scrittura molto più fine, elegante, avvertita, grazie alla pubblicazione dei due romanzi L’appuntamento (1995) e La voce del vento (1999).

1. L’appuntamento e La voce del vento

L’appuntamento ha avuto parecchi consensi critici a vari livelli e porta la prefazione di Giancarlo Quiriconi dell’Università di Siena; ma anche Sebastiano Burgaretta ne parla positivamente affermando che L’appuntamento è un racconto splendido, elegantemente riuscito ed armonico”, mentre Nino Barone lo reputa “un miracolo espressivo di alto valore letterario”.
Anche Bruno Majer trova nel romanzo “un’aria di favola e di mistero, quell’atmosfera di sospensione tra realtà e mito che ne costituisce il fascino sottile, il delicato profumo”, mentre Giovanni Rossino afferma che nel romanzo “l’autore inventa il gioco innocente della sua felicità”.
I personaggi del romanzo, Gilberto e tre donne, si muovono all’interno di una strategia scritturale nella quale Agosta accampa segmenti del proprio vissuto ed una istanza autobiografica. Il testo offre molti indizi nella direzione della sua terra, del suo ambiente, delle strade della sua città, tant’è che nel romanzo si accavallano i luoghi consueti delle passeggiate dell’autore, dei suoi incontri quotidiani, e non è un caso se proprio su questo scenario, umile e maestoso insieme, si inerpica l’apertura del romanzo, che poi si dispiega in descrizioni che si spingono anche fuori Modica, in quelle colline e campagne circostanti ove c’è il riaffiorare dei luoghi dell’infanzia:

“Non si parlò d’altro per tutto il tragitto. Ci limitammo ad osservare il paesaggio man mano che si saliva verso il “Dente” e che si offriva al nostro sguardo: la stazione ferroviaria ai piedi di Monserrato che dà su una vallata dove, ancora oggi, ogni passaggio di treno a vapore ci riporta indietro, al farwest della nostra infanzia…”

La coloritura ambientale ha una caratteristica evidente: figure, credenze, odori e sapori della terra sicula risaltano con forza e perfino Jasmina, la donna profuga bosniaca che campeggia nella narrazione e sulla cui epifania si incentra il testo, è una lavorante presso una conserviera degli iblei.
Il secondo romanzo La voce del vento, è un testo di alto valore umano e sociale, un testo con molte domande di senso, pieno di interrogativi racchiusi nei due protagonisti del racconto: Kumbo, venditore di magie, e Sandro, il professore, ed ancora in Adelaide ed Eleonora. Lo scenario è, anche in quest’opera, sempre poggiato sui luoghi della terra iblea: il castello, le casupole, gli altopiani verdeggianti, le pianure e le valli, il mare; tutto è armonizzato in un universo narrativo che ha il fascino della magia in un misto di fantasia e realtà. L’orizzonte del romanzo è baciato, sicuramente, dalla fede in Dio, dalla fede nel Mistero: “…E’ nel cielo – afferma il venditore Kumbo – che ho trovato i lumi della verità. A lui attingendo si accendono quei lumi che sono in noi e che illuminano il mistero della vita…”.
Il messaggio è chiaro: l’uomo può trovare la risposta agli interrogativi più profondi della vita solo se “riesce a guardare – direbbe Nino Barone – il cielo come fonte di tutto”. E Mario Agosta questo lo ha desiderato, se ha potuto scrivere nel suo romanzo: “Ho soltanto desiderio matto di rivedere il cielo, di ritornare sui miei passi”. La voce del vento è – come afferma Saluzzi – “la voce della memoria o della mortificazione, dei ritorni o delle nostalgie, della polemica o della contemplazione elegiaca, dell’afflizione o del diletto della speranza”

2. Il gioco della vita

Il gioco della vita è un’opera ove Agosta racchiude sette racconti e che, già dal titolo, sembra voler lanciare una provocazione: la vita non è di per sé un gioco, ma l’uomo, purtroppo, la riduce spesso ad un gioco. In questo gioco convergono “in unum” verità e menzogna, luce e tenebra, amore e odio, sogno e disincanto, delusione e speranza.
Il testo narrativo di Agosta si dipana facendo emergere una specifica ambientazione, una tipologia di personaggi e alcuni motivi della sua riflessione letteraria.
L’ambientazione è sempre, come nei romanzi precedenti, quella della Sicilia, con parecchi agganci al territorio d’origine dello scrittore. I racconti fanno rivivere momenti d’altri tempi e riproducono contesti ambientali tipicamente “rusticali”, in cui si respira un’atmosfera familiare, fatta di gente semplice; c’è, anche, una presenza di luoghi del ragusano abbastanza rimarcata, che testimonia l’esistenza di un patrimonio storico e culturale e di una armonia paesaggistica ricca di fascino:

“… ‘Ero ragazzo quando la conobbi’ fece zio Toni.. ‘Di mattina presto che era ancora buio, mio padre in carrozza mi accompagnava a scuola in quel di Modica, a una ventina di chilometri dal paesino. Si andava lungo uno stradale tortuoso fiancheggiato da ulivi sempreverdi e mandorli bianchi impregnati di rugiada o di gelo (…) Il viaggio per Modica continuò su un carretto di amici di passaggio. Ci sistemammo chi su seggiole legate ai pioli del veicolo, chi accasciato con le mani appoggiate alle sponde, chi seduto ‘‘a cascia di carretto con le gambe penzolanti nel vuoto. Conoscevo tutti nel villaggio. Si sa nei paesini è più facile conoscersi che in città (…) L’altopiano isolato e le abitazioni rupestri che costellano il circondario offrivano rifugi durante la guerra e le campagne della chiesetta che spicca laggiù a Cozzorose non servivano soltanto a chiamare i fedeli alla messa vespertina ma anche ad avvertire la gente dei pericoli che incombevano nel paese. Quelle grotte davano sicurezza e protezione a Marcella e i suoi vi trovarono un sicuro rifugio…“(pp.10-16).

Come si può notare in queste citazioni dell’opera, i paesaggi e le descrizioni, i toni colloquiali e le immagini, gli stupori ci offrono un percorso narrativo dove l’ambiente stesso è già “vita”. Per Agosta la vita è già in se stessa una “relazione con l’ambiente”, per cui la descrizione non funge da abbellimento, perché l’intento dello scrittore è quello di dare parola agli oggetti, ai luoghi, alle piante, ai paesaggi per ricostruire brandelli di vita e di storia scolpiti nella sua memoria.
Coerenti con l’ambiente sono anche i personaggi dei racconti, i quali vengono delineati dall’autore nella loro spontaneità, senza coloriture e aggiunte forzate. Sfogliando Il gioco della vita ne risaltano parecchi: Zio Toni, uno dei protagonisti del primo racconto; Marzio, che rievoca i tempi della guerra; Vasile, “che dubitava di tutto, che vedeva nero ovunque”; Isidoro, Nerina, don Tino Cicala, don Sariddu. E ancora Neli scaccia, col tasco a sghimbescio, il volto paonazzo e lo sguardo serafico “che sorseggia il suo fiasco di vino, sdraiato ai piedi della Madonnina dello Stretto, sua protettrice”; ed ancora Turi Scardenci, ‘Nzulu ‘u Monucu, Vanni u piecuru, e per finire tanti altri personaggi noti per i loro nomignoli, quali Trombetta, Tino La Torre, lo zoppo, Cosimo il ciliegino, etc…
Attraverso questi personaggi Mario Agosta non fa altro che rappresentare il mondo umile, semplice e, a volte, curioso, di un lembo di Sicilia, il Sud est, in cui lui è vissuto e cresciuto, e che non è morto dentro di lui. Egli, riportandoli sulla pagina, dimostra di essere legato alle proprie scaturigini; sono personaggi inventati, ma analogicamente mutuati dalla realtà, personaggi che hanno una loro dignità al di là della vita che conducono.
Perfino ad uno di questi personaggi, Neli scaccia, molto noto nel popolo modicano, Agosta, nel racconto Un vino ingeneroso, fa conservare la propria dignità, espressa sia nel bisogno di cercare amicizie, sia nelle reazioni dure contro coloro che cercano di offenderlo:

“Era il bersaglio dei monelli e non soltanto dei monelli. Lo chiamavano Scaccia ma lui non gradiva tale appellativo, non riusciva a stare senza ragazzi attorno, amava la loro compagnia e, se non li vedeva, li cercava ovunque e i suoi occhi brillavano di gioia solo se riusciva a trovarli. E quelli gli pagavano un bel bicchierotto di cerasuolo, di quello che si fa col succo d’uva, come lui stesso diceva, e diventavano ben presto amici.
Come al solito però, le cose si complicavano se uno di loro o un altro estraneo al gruppo, gli diceva
‘Scaccia, scaccitedda!! Picchì nun ti pigghi ‘na scaccia ppi scanciu ro vinu”?
E tutti i ragazzi in coro rispondevano:
‘Scaccia, Scaccia, Scaccia’.
Quella parola era come una dichiarazione di guerra. Neli non ci vedeva più dagli occhi, tanta era la furia bestiale che lo assaliva…” (p.67).

I personaggi di Mario Agosta si presentano ricchi di versatilità e di furbizia; a volte provocano la risata, hanno il gusto del pettegolezzo, altre volte invitano alla riflessione; altre volte ancora appaiono burberi e silenziosi, come nel caso di zio Toni.
Sul piano della tematizzazione narrativa, Il gioco della vita si dispiega mettendo in una sorta di circuito comunicativo tre momenti: la vita come rapporto con l’ambiente, la vita come capacità di relazione d’amore, la vita come dono di sé agli altri. Si tratta di tre indirizzi che caratterizzano i racconti, alcuni dei quali sono anche preceduti da citazioni di autori della grande letteratura quali Wilder, Dyke, Quoist, Camus, quasi a dire che in loro Agosta trova motivi di condivisione con la sua scrittura.
Questa visione della vita come colloquio con l’ambiente e relazione empatica con le persone emerge sicuramente in vari passaggi dei suoi racconti, come in questi:

“La vita che si trascorre nel paesino è serena, e i legami che gli esseri intrecciano tra di loro e con la natura hanno un grado d’intimità prettamente familiare. Il canto di un gallo, un ciuffo d’erba che si affaccia da un muro diruto, un gatto che passa, o dei ghirigori sulle facciate delle case, lo stridolio di una fucina: segni trascurati dall’uomo distratto, superficiale, sono percepiti in maniera esaltante dall’animo sensibile sino a far) gli toccare le corde sublimi della poesia”. (p. 41)

“Si ricordavano i meriggi del tempo della trebbiatura delle messi quando il vento, muto, imponeva la tregua agli spagliatori nell’aia assolata e gli animali cuocevano al sole e il pino, con la sua grande ombra, era meta agognata di grandi e piccoli (…) Tra gli operai c’era sempre qualcuno che sapeva raccontare storie che, anche se scontate, erano rese gradevoli per quel pizzico d’inventiva atta a colorirle.
Se ad ascoltare c’erano bambini ci si guardava dal raccontare storie di sangue e di violenza”. (p. 53).

Il gioco della vita contiene infine motivi esistenziali che vanno dagli affetti alle amicizie, dai rimpianti ai primi innamoramenti, dalle sofferenze alla morte, dal bisogno di pace ai disastri della guerra (“La guerra! Ma a chi salta in mente di farla? Si sta così bene in pace…”), quest’ultima messa in bocca al personaggio Marzio:

“ …‘Mio padre dalla guerra non è mai tornato’ – soggiunse – ‘e mia madre ad ogni fischio di treno in arrivo al paese, la sera, sulla soglia, lo sguardo perso in un cielo lontano, immagina il suo ritorno’. Zio ci teneva a sottolineare che ‘Si camminava scansando cadaveri sulla neve macchiata di sangue con l’occhio rivolto ad un orizzonte cupo e uno sfondo di paura e minaccia invisibile’…” (p.17).

In questa opera , pubblicata dal figlio dopo la sua morte, Agosta scrive, ricorrendo ad una osmosi tra memoria ed invenzione, storie che hanno il sapore della vita genuina, che fanno risaltare situazioni di arguzia, di briosità, di passioni, di rigidità mentale, di emotività; tutte situazioni che, specie in alcuni racconti, risultano pervase da un umorismo che scopre – direbbe Pirandello – “il sentimento del contrario” e che riesce a leggere nell’interiorità dell’uomo e nel tessuto più profondo della vita sociale.
Nell’opera narrativa di Agosta, per concludere, non c’è alcuna ideologizzazione ma un sano realismo; egli parte dal reale per elevarlo a documento quasi fotografico dell’esistenza con un piglio descrittivo immediato e parlato. Egli sa inventare e costruire percorsi con molta creatività ed inventiva, sa narrarsi dando forza alla voce del cuore e della memoria, nonché alle suggestioni e agli scenari della sua terra siciliana.
La sua scrittura ci offre un “io narrante”, che è la sua stessa essenza di autore, tutto proteso verso l’attesa di un “quid metafisico” dove l’uomo possa accedere alla verità. E le sue opere ci testimoniano proprio che Mario Agosta è stata una voce delicata che, nel disegnare i contorni di un’esistenza complessa, ha guardato al cielo, quel cielo che è stato l’oggetto del suo appuntamento finale; non è un caso che l’io narrante dello scrittore proprio nella sua ultima opera concluda affermando: “Signore ti cerco perché ci sei”.

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