Nella memoria collettiva modicana c’è una figura che certamente non è stata consegnata all’oblio. Si tratta del sacerdote Mons. Giuseppe Rizza, cui l’Amministrazione Torchi intitolò il centro polivalente ubicato nella piazza libertà del quartiere Sacro Cuore di Modica.
Di umili origini, Giuseppe Rizza nacque a Modica il 28 ottobre 1922 in una famiglia molto religiosa e fu il dodicesimo dei tredici figli venuti alla vita. Con l’appoggio incondizionato della madre, dopo la scuola elementare continuò gli studi nonostante il parere contrario del padre e di alcuni fratelli che volevano si dedicasse al lavoro dei campi. Dimostrò sempre volontà e intelligenza, che gli permisero di proseguire nello studio in maniera brillante e di superare tutte quelle difficoltà che il vivere in campagna comportava, come il raggiungere ogni giorno a piedi prima la scuola elementare ed in seguito la casa del professore Parroco Palazzolo, sita in Modica Alta.
Nel 1934 Giuseppe Rizza entrò in seminario, dove si fece ap- prezzare per equilibrio, bontà e rettitudine tanto da essere quasi sempre preposto dai superiori come “prefetto” con compiti di responsabilità. Qui curò, come risulta dai suoi vari appunti dell’epoca, in maniera precipua la sua vita spirituale, dedicandosi altresì con impegno e assennatezza allo studio.
Il 29 giugno del 1947 fu consacrato sacerdote da Sua Eccellenza Mons. Angelo Calabretta e fu subito assegnato al Piccolo Seminario di Modica, nella qualità di Direttore: una non piccola responsabilità, se si pensa che allora Modica era un vivaio di vocazioni e il Piccolo Seminario era il primo vaglio dei candidati al sacerdozio, la prima esperienza di vita seminaristica. Furono sette anni di dedizione esemplare, che diedero alla Diocesi netina frutti consolanti.
Molto belle le parole che ebbe a pronunziare nella sua prima omelia allorquando nel 1954 gli venne affidata la chiesa del S. Cuore:
“…Ho assistito con grande mio conforto a questa festa del sacerdozio: è sempre vero che nella vita si ha il bisogno di non essere soli, si teme, si ha paura quando si è soli: dal punto di vista umano, questo vale anche per il sacerdote.
La festa di oggi mi dice che il sacerdote non è solo; certo non ve lo nascondo: le impressioni che in questo momento mi pervadono l’animo, sono di quelle che si esprimono meglio col silenzio che con la parola. Non di parlare, ma di tacere ho bisogno: ho bisogno di considerare in profondo intimo silenzio quello che si è operato in me con il sacerdozio. E la delicata affettuosa attenzione di cui oggi mi vedo circondato, mi costringe a ripensare al Sacerdozio, a non distogliere da esso lo sguardo, a investigare se io proprio veramente ne sono rivestito.
Il Sacerdozio è stato il sogno della mia vita e ancor’oggi mi sembra un sogno: mi sembra che non dovrei credere a me stesso; mi sembra impossibile che una così grandiosa realtà sia potuta operarsi in me. Ascendo l’altare: offro a Dio un sacrificio di valore infinito: quello stesso che offrì Gesù. Dico al pane: “Questo è il mio corpo” ed esso diventa il corpo immacolato di Gesù. A me è ancora data la potestà di liberare le anime dal peccato. Ma questa vertiginosa grandezza che è in me, questa infinita realtà che m’innalza fino a Dio, questo carattere sacerdotale che mi esalta fino all’ebbrezza, non mi insuperbisce, no, anzi mi umilia, mi confonde perché non toglie la mia finitezza, perché lascia sussistere la mia debolezza, la mia miseria.
Il Sacerdozio è l’infinito: io il niente. Ma la mia debolezza non mi scoraggia, la miseria non mi avvilisce, perché so di poter dire “Omnia possum in eo qui me confortat”. So bene che il mio Sacerdozio mi impegna in vera lotta, alle volte dura, affligente, mortificante contro i nemici; tuttavia ripeto a me “haec est victoria quae vincit mundum fides, nostra”, e cioè questa è la vittoria che vince mondo, la nostra fede!”
La chiesa del S. Cuore era all’origine una piccola parrocchia di campagna che accoglieva villeggianti del centro modicano e per la cui erezione nel 1931 si costituì un piccolo comitato formato dalla famiglia del dott. Giorgio Galfo, dalla famiglia Floridia e dalle famiglie Galfo e Trombadore, Odierna e Micieli. Il comitato operò una sottoscrizione per raccogliere i fondi necessari per l’erezione della parrocchia, sottoscrizione che diede il risultato £. 29.378.
Nel dicembre del 1929 venne a Modica l’ingegnere del Vaticano, Mons. Chiappella, per occuparsi della costruzione della casa canonica e di una piccola chiesa; nel giugno del 1930, poi, il Vescovo Vizzini venne a Modica e, convocato l’antico comitato, diede la lieta notizia che di lì a poco si sarebbero potuti iniziare i lavori. Intanto bisognava procedere subito alla compera del suolo; ecco allora il comitato mettersi all’opera: la sera del 23 giugno, alle ore 21, Padre Celestino poteva fare il compromesso per £. 4000 dinanzi al notaio avv. Ignazio Stella. Così il 4 luglio 1930, Sua Eccellenza Mons. Vizzini, vescovo di Noto, poteva benedire la prima pietra alla presenza di tutte le autorità civili e militari.
Il 10 Novembre del 1931 la Chiesa fu completata e il 15 dello stesso mese veniva benedetta e vi si celebrava la prima S. Messa. In questa chiesa don Giuseppe Rizza non mancò, nella buona e cattiva salute, di profondere per 30 anni tutte le sue energie, vedendone crescere in maniera esponenziale il numero dei residenti che dal centro storico si spostavano verso il quartiere Sorda.
Dunque nella prima metà del ‘900 il sacerdote Rizza diventa testimone dei profondi mutamenti demografici, sociali, culturali, urbanistici del quartiere Sorda di Modica, e dal 1954 sino alla fine degli anni ’80 dovette affrontare non pochi problemi pastorali per raccogliere attorno al campanile giovani, bambini e famiglie che si trasferivano dagli altri quartieri della città. Un suo cruccio fu proprio la ristrettezza delle strutture parrocchiali e l’impossibilità di accogliere nella piccola chiesa il consistente esodo dalla zona alta e bassa della città di Modica.
Tutte le testimonianze, ecclesiali e non, raccolte nel volume “Il Padre, l’amico e il fratello” convergono in maniera singolare nel delineare una figura di sacerdote che mai fu sfiorato, specie nel periodo della contestazione del ’68 e agli inizi degli anni ’70 quando parecchi sacerdoti della diocesi netina lasciarono il sacerdozio, dalla tentazione della disobbedienza e dell’abbandono dell’abito sacerdotale, né offri il fianco al vento delle ideologie e delle mode del tempo che tendevano ad operare un’ emancipazione dalla fede; al contrario rimase come terra ferma, continuando ad essere un sacerdote fedele fondato sulla roccia della fede.
Del resto, la sua vita seminaristica era stata sempre caratterizzata dal desiderio di diventare sacerdote e i suoi scritti giovanili testimoniano con chiarezza come ci fosse in lui l’ardore di diventare sacerdote santo e il tormento interiore di riuscire nella sua missione piacendo a Dio in tutto.
Nel pieno della sua attività pastorale il sacerdote Rizza non fu risparmiato da critiche per il fatto che non amava schierarsi a fianco di correnti teologiche sulla scia del Concilio Vaticano II.
In realtà egli non fu per nulla un prete anticonciliare, anzi seguiva il Concilio soprattutto nelle sue proiezioni pastorali che cercavano di mettere al centro la nuova evangelizzazione delle famiglie, tant’è che la sua parrocchia divenne un primo esempio di aggregazione di famiglie cristiane.
Lontano da forme di ideologizzazione della fede, era abituato a vivere nella preghiera e nel nascondimento, non amava atteggiamenti da prima donna e la caratteristica dei suoi insegnamenti era sempre “la semplicità”, una semplicità che si articolava entro dimensioni espositive non di certo superficiali o prive di supporti di riflessione, ma, anzi, ben coordinate e saldate nell’ armonia di un discorso fedele ai dettami biblici e alle loro relative implicazioni esistenziali, radicato nella Tradizione e attento alle direttive della Chiesa magisteriale. Era, in sostanza, una semplicità che nasceva in lui dalla preoccupazione, a volte anche eccessiva, di mettere i suoi parrocchiani, i membri più vicini alla comunità, i catechisti, le famiglie, i più umili, gli artigiani e i lavoratori nelle condizioni di poter capire e accogliere il Kerigma cristiano con estrema facilità.
Il suo linguaggio era quindi volutamente scarno perché mirava all’essenziale e alla enunciazione dei concetti primari della fede cristiana. Sotto questo aspetto i suoi insegnamenti riuscivano a calarsi nella realtà sociale perché scaturivano da quella sua paternità spirituale umile, semplice e sincera, riuscendo a determinare uno scavo interiore nel cuore dei fedeli.
Di questo sacerdote sono rimaste molte tracce di testimonianze che possono sintetizzarsi in alcune frasi: “Uomo di preghiera e di ricca vita interiore” (Padre Francesco Vinci); “Testimone di vita sacerdotale”(Suore benedettine di Sortino); “Parroco fondato su solide basi”(Padre Callisto, cappuccino).E ancora, le parole di alcuni cittadini della zona Sorda:
-“Padre Rizza è stato il sacerdote della mia vita”;
– “Ha costruito al Signore un tempio vivo, spirituale”;
– “Era un sacerdote completo: dolce, umano, di una linea pastorale unica”;
-“Ci ha guidati a saper leggere la nostra vita in chiave cristiana”.
Molte anche le testimonianze di altri sacerdoti, religiose e di coppie:
-“Formatore dei futuri sacerdoti, pastore operoso”(Padre Francesco Viola);
– “Il fratello di tutti”(Mons. Matteo Gambuzza”);
–“Sacerdote di profonda vita spirituale e di eccezionale equilibrio”( Giorgio ed Enza Collemi);
–“La sua serena parola di fiducia e di forza(avv. Elio Ripoli, Roma);
-“Ci metteva in rapporto di amicizia con Dio”(Salvatore e Maria Bono);
– “Servo fedele, amava il sacerdozio”(Madre Rosa Graziano, vicaria generale della Congregazione Figlie del Divino zelo- Roma).
Ecco, in queste testimonianze si trova la chiave di lettura del sacerdote Rizza, un prete della gente e per la gente, un parroco del popolo e per il popolo, un sacerdote che ha conquistato il cuore dei più semplici, degli anziani, dei bambini, delle famiglie, dei giovani, degli operai e che nella sua vita ebbe solo una aspirazione: vivere pienamente il sacerdozio cercando di fare di se stesso un “alter Christus”.
La testimonianza umana, spirituale e di fede che Mons. Giu-seppe Rizza ha lasciato alla Diocesi di Noto e nella città di Modica è stata sicuramente rilevante ed efficace, specialmente in tutti coloro che lo hanno conosciuto e nella parrocchia del Sacro Cuore ove egli ha operato. A questa egli ha lasciato, con testamento, anche un suo bene immobile, un appartamento di via Risorgimento 49, che oggi viene utilizzato per finalità sociali, culturali e pastorali.
Un sacerdote, un padre, un amico, un fratello è stata dunque la figura di Mons. Rizza, che è morto il 6 gennaio 1984, giorno dell’epifania, con la consapevolezza, come si legge in suo scritto, che “l’uomo ignora di essere amato da Dio, da qui l’angoscia di cui parlano i filosofi, e che solo il cristianesimo, quello vero e vissuto, può addolcire e cambiare gli uomini”
Chiudiamo questo ricordo con alcune suoi pensieri di ricca profondità e verità contenuti nel libro “Il padre, l’amico, il fratello. Mons. Giuseppe Rizza, da me curato e pubblicato nel 1986, e in seconda edizione nel trentesimo anniversario della morte:
“L’umanità soffre per l’egoismo. I popoli sono in difficoltà per la bramosi di ricchezze e di potere o per principi sbagliati contro i diritti dell’uomo. Solo il cristianesimo, quello vero e vissuto, può addolcire e cambiare gli uomini”.
“Grande nemica della vita spirituale è la tiepidezza…, cioè l’atteggiamento di chi vuol servire due padroni e si barcamena per non scontentare l’uomo e l’altro, ma scontenta terribilmente Dio”.
“Mi pare che il Signore mi voglia povero, rinunciando al superfluo, e umile di cuore. Umiliarsi sempre dinanzi a Dio dopo il difetto commesso, perdonare e subito ritornare in pace”.
“E’ questo l’ideale di tutta la mia vita. Così mi pare che vuole da me il Signore. A me questo appare oltreché dal mio desiderio, dalla risposta del Padre spirituale, dal Vescovo.
Ciò posto, quello che per me importa è di essere buon prete, tipo S. Giovanni Bosco. Buon prete vuol dire prima santificare se stesso con lo spirito di preghiera, con la vita interiore; se non volessi essere un tal prete sarei un ingannatore di me stesso e degli altri, sarei un falsario”.