M.Knopfler
E’ la politica estera a stabilire l’autorevolezza di un paese e il prestigio di un capo di stato è il risultato di una conquista sul campo. Ha dimostrato di saperlo il presidente della Repubblica francese E. Macron che giovedì scorso, impedendo ad altri di rubargli la scena, primo capo di stato dell’Unione europea è atterrato a Beirut a due giorni dall’esplosione apocalittica che ha devastato la zona attorno al porto della capitale libanese. Insieme all’aereo presidenziale sono atterrati due aerei militari con il personale dei ministeri dell’Interno, della Salute e degli Esteri e 20 tonnellate di materiale sanitario. Con la propria presenza, Macron ha voluto manifestare la solidarietà della Francia e l’impegno a fornire tutti gli aiuti necessari e nel contempo farsi portavoce della “mobilitazione internazionale”. E’ stato accolto dal suo omologo Michel Aoun e da una folla riconoscente che ha continuato a gridare la propria rabbia contro il regime chiedendone la cacciata. Il Libano è in preda a una crisi economica iniziata negli anni della guerra civile, terminata 30 anni fa, e mai superata nonostante gli aiuti dei paesi stranieri e del Fondo monetario internazionale. La corruzione dilagante e un governo inefficiente hanno impoverito ed esasperato la popolazione ormai ridotta allo stremo. Le manifestazioni di piazza si susseguono e le proteste si fanno sempre più accese. A Beirut, Macron ha messo su un piatto della bilancia l’aiuto immediato a un paese al collasso, ma ha chiarito che si aspetta di vedere sull’altro piatto una serie di riforme che una situazione ormai degenerata impone. “Questa classe politica -ha dichiarato- non riceverà un assegno in bianco”. Il presidente francese, parlando a proprio nome, ha anche espresso la volontà degli Stati Uniti, di Israele e delle forze liberali e democratiche occidentali che chiedono il disarmo di Hezbollah, l’ampliamento del mandato di Unifil e il controllo da parte dell’Onu del porto e dell’aeroporto di Beirut, strategici per l’ingresso di Siria e Iran nel Mediterraneo. Un Libano inesistente politicamente nel cui governo, accanto ai cristiani maroniti, ai sunniti e agli sciiti, siede il partito di Hezbollah, milizia e braccio armato degli ayatollah, sarebbe funzionale al raggiungimento di quell’obiettivo. La distruzione di Israele è parte del piano concepito dal mondo sciita al fine di spingere la propria influenza all’area del Mediterraneo, dove si scontrano gli interessi di Putin e Erdogan nella guerra in Libia. Conseguenza di un’Europa inerme e un’Italia alla quale Trump aveva affidato la gestione dei rapporti con quel paese. Niente ha fatto il governo Conte, a parte le solite chiacchiere e, a un certo punto, perfino l’incertezza sulla scelta di campo, Al Serraj o Haftar? Tutto a svantaggio delle relazioni diplomatiche con il nostro dirimpettaio africano, come è emerso in occasione dei numerosi sbarchi di immigrati e a conferma della sciatteria italiana in politica estera. Al contrario della Francia che si è schierata con il generale Haftar, quindi con la Russia contro la Turchia che invece sostiene Tripoli. E non è casuale che fu proprio Macron all’ultimo G7 a caldeggiare la riammissione della Russia nel gruppo dei 7. E ancora, non trascuriamo il fatto che Erdogan è il paladino dei Fratelli musulmani, che l’Arabia Saudita, cui la Francia è vicina, vede come il fumo negli occhi. Fratelli musulmani legati, a loro volta, a Hezbollah. E per tornare al presidente francese, ricordiamo che è sponsor di un asse composto da Grecia, Egitto, Cipro e Israele, che comprende la realizzazione del gasdotto EastMed per costituire un blocco di interessi del fronte anti-Ankara. Tutto si lega. Il che non sfugge al dinamico e lungimirante inquilino dell’Eliseo. Non è azzardato dire che si è aperta in Europa l’era macroniana.