Ester Cecere, con alle spalle un consolidato itinerario poetico-narrativo molto apprezzato dalla critica, è alla sua seconda prova narrativa. Dopo il volume di racconti “Istantanee di vita”, Kairòs Edizioni, 2015, si cimenta infatti in questa una nuova opera dal titolo “Dall’India a Lampedusa”. Soste di viaggio, ove utilizza l’uso di un “topos” letterario da sempre oggetto di fascino, ossia il tema del viaggio.
E si tratta di un viaggio, questa volta “virtuale” – come afferma la stessa scrittrice nella sua nota introduttiva -, che si ricongiunge al suo viaggio reale fatto in India, nella regione del Rajasthan, ove è venuta a contatto con una realtà “cruda e scioccante” che è stata poeticamente trasfigurata nella sua silloge Con l’India negli occhi, “con l’India nel cuore”, edita nel 2016.
Due viaggi diversi, certo, ma che convergono nell’unità del sentire umano, spirituale e sociale della scrittrice , e in un percorso letterario specifico che ha al centro “due località, l’India e l’isola di Lampedusa, geograficamente e culturalmente molto distanti”.
Ciò che colpisce sin dal racconto d’apertura di questo volume, è il senso della “scoperta” che anima le pagine della Cecere, scoperta da lei intesa sia come approccio empatico a luoghi fisici, sia come “avventura dello spirito” mediante cui si determina un processo di cambiamento che riesce a modificare la percezione relazionale che l’autrice ha del mondo e del proprio sé, atteso che – direbbe Marcel Proust – “Il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi”.
E sono gli occhi fisici e del cuore a far intraprendere ad Ester Cecere il suo viaggio narrativo, ove subito trova spazio una coppia di sposi, Alessandra e Michele, che, giunta a Nuova Delhi, vive un attimo di smarrimento e di confusione nell’impatto con una città attraversata dal disordine, dal rumore dei clacson, dal gran vociare, da un traffico caotico dovuto «a una massa di persone e… animali (sì, proprio animali) e di veicoli, biciclette, carretti (caricati in modo inverosimile e trainati da persone, buoi e, talvolta, cammelli), motorini, tuk-tuk, caratteristici taxi a tre ruote, e qualche rara automobile, che si muovevano in tutte le direzioni, che transitavano anche nel senso contrario a quello di marcia, che suonavano continuamente ma senza effetto alcuno dato che scansavano gli imperturbabili pedoni all’ultimo momento, con uno scarto improvviso…».
L’incipit del primo racconto è, senza dubbio, uno sguardo nel caos di una terra ove la povertà si manifesta palpabile agli occhi della coppia, che si trova a camminare tra «branchi di cani randagi e di bovini che si spostavano tranquilli, come se stessero pascolando su verdi distese, di cinghiali che sguazzavano nelle fogne a cielo aperto che scorrevano in piccoli canali ai lati dei marciapiedi. E tutti insieme, cani, bovini, cinghiali, di ogni età e dimensione, senza infastidirsi a vicenda, “si arrampicavano” su enormi mucchi di rifiuti domestici, a volte vere e proprie piccole colline agli angoli delle strade, dove frugavano indisturbati….»
Uno scenario di povertà e di spaesamento che muta quando la narrazione conduce la coppia al mausoleo di Taj Mahal, che sorge sulle rive del fiume Yamuna, ad Agra, nell’Uttar Pradesh, stato settentrionale dell’India; qui la scrittrice colloca, con la semplicità della parola e di un linguaggio caldo, il genotesto del suo camminare tra realtà, memorie, conoscenze geografiche ed esperienze riflesse, disegnando, così, le coordinate di un racconto che si fa descrizione ed emozione. L’Ulisse che è dentro di lei riesce a dare, già da subito, affacci descrittivi carichi di fascino e magia:
«…Al sorgere del sole, accarezzato dai bagliori dell’aurora, il marmo bianco, di cui era interamente rivestito il monumento, si tingeva di un’infinita gamma di sfumature che andavano dal rosa tenue all’arancio. Almeno così aveva letto Alessandra, poiché sfortunatamente quel mattino c’era molta foschia e lei e suo marito Michele non poterono osservare quello spettacolo fiabesco… »
Ester Cecere rappresenta nei suoi racconti spaccati di culture che esprimono il senso dei luoghi, dell’ identità e delle tradizioni di un popolo, come , ad esempio, nel racconto “la festa del Diwali”, ove il viaggio di Alessandra e Michele diventa “ammirazione” di una «serie di fila di lucerne realizzate in terracotta e alimentate con olio… sistemate in lunghe file su terrazze, davanzali, balconi, e davanti alle soglie delle case e dei templi»; ora si fa “stupore” per «la presenza di quelle piccole scodelle di terracotta che moltissime donne espongono insieme agli orci su tappeti ai lati delle strade»; ora si traduce in un sentito “apprezzamento” per “il sorprendente estro artistico degli orientali”, per le splendide sculture realizzate dagli indonesiani in blocchi di arenaria da dove prendevano forma, inaspettatamente, le statue di “Barong”, la mitologica creatura somigliante a un leone; ora diventa “circuito di relazione umana” con quelle strade oggetto di visita piene di banchetti, « sui quali spiccavano rose sfuse o legate in piccoli fasci, e ghirlande realizzate con le corolle di fiori simili a gerani».
Dunque, banchi di vendita, carrettini rimorchiati dalle biciclette, donne intente a vendere ghirlande diventano il paesaggio di una narrazione entro cui l’autrice costruisce un dialogo semplice e solidale tra Alessandra e una venditrice trentenne con capelli neri raccolti sulle spalle e il viso adornato da due splendidi orecchini pendenti color dell’oro, la quale riesce anche a dare il suo sorriso, sentendosi guardata dalla sua interlocutrice.
In queste “soste di viaggio” si fa spazio anche il bisogno di inculturazione nella realtà dei luoghi, tant’è che Alessandra e Michele si vestono elegantemente per rendere omaggio ai festeggiamenti nel paese in cui sono momentaneamente ospiti(… “ Lei indossava una blusa nera su cui campeggiava un pavone dai colori sgargianti. Le donne la osservavano…”), e rimangono affascinati dall’India, al punto che Alessandra percepisce anche un senso di disorientamento e interdizione perché si rende conto del fatto – come si legge nel racconto La ragazzina dei cenotafi – che «In questo immenso paese, le vicende storiche e, di conseguenza, le molte etnie che da sempre l’avevano popolato con le loro culture tanto diverse, si riflettevano nella molteplicità e commistione di stili architettonici e decorativi che solo a prima vista sembravano uguali».
Il cuore della Cecere si esprime anche in quel senso di humanitas verso gli animali, che traluce particolarmente in alcune soste di viaggio, come quando scrive:
«….Eh si, l’India era un paese particolare anche nel rapporto con gli animali. Tutti li tolleravano, nessuno faceva loro del male ma nessuno se ne prendeva cura” Dovevano essere in grado di sopravvivere! E le venne in mente la sua Chérie, la barboncina nana che aveva sempre considerato il suo “terzo figlio” e che come un figlio, appunto, amava e accudiva. Nel rialzarsi, accarezzò un’ultima volta quel “piccolo”, solo, abbandonato a se stesso e bisognoso di cure e d’amore come tutti i “piccoli” di quell’enorme paese. “Me lo porterei a casa” non poté fare a meno di pensare. E ancora una volta si accorse che un subdolo sentimento di tristezza serpeggiava nel suo animo….».
Nel racconto “Terra rossa” la narrazione di Ester Cecere fa approdare il viaggio ad Alice Springs, la seconda città del Territorio del Nord, nel Red Center, cuore rosso dell’Australia, così chiamato per il colore del suo deserto, delle montagne e dei canyon; terra degli Aborigeni per antonomasia. Qui il racconto coglie attimi di un percorso che vede i protagonisti del viaggio ripararsi da «mosche non moscerini, che volavano in tutte le direzioni, infilandosi negli occhi, nelle narici e persino in bocca quando si tentava di parlare», proprio mentre sono intenti a viaggiare con Alan; un percorso che si fa ricco di nuovi incontri, in particolare con un’anziana coppia francese, una famiglia giapponese con due ragazze sui vent’anni, e una giovane coppia inglese con una ragazzina di circa otto anni. Un percorso, insomma, che si fa anche riflessione e lezione etica:
« …quello che Alessandra “imparò” nel deserto rosso del cuore dell’Australia non l’avrebbe appreso mai più in nessun’altra parte del mondo in cui si sarebbe recata. Soprattutto la solidarietà tra i ragazzini rappresentò una lezione indimenticabile per lei, tanto che, quando i figli che ebbe anni dopo si contendevano qualcosa, si scopriva a redarguirli, senza peraltro dare alcuna spiegazione e, quindi, sotto il loro sguardo interrogativo: «Non litigate, fate come i bambini aborigeni!».
Ecco come il viaggio, in questo caso, assume un valore simbolico di scavo interiore, di ricerca di se stessi, di rivisitazione delle emozioni e di lettura dei propri comportamenti, di incontro ed apertura all’altro; la stessa cosa accade, ad esempio, nel racconto “One dollar, Madame”, ove Alessandra incontra prima una ragazzina di quattordici anni, poi una giovane mendicante che dapprima la irrita perché le vuole vendere a tutti i costi delle cartoline, ma che poi la commuove fino a modificare il suo atteggiamento ed essere, alla fine, attratta dalla abilità della ragazza che, «inconsapevole del suo gesto, le rivolse un luminoso sorriso e partì alla volta di un pulmino, appena arrivato, con altri turisti alla ricerca di una nuova “preda”».
In questo viaggio tra “virtuale e reale” l’itinerario narrativo di Ester Cecere si sposta dall’India a Lampedusa. Qui i personaggi si muovono in contesti che fanno risaltare il fenomeno degli sbarchi. A partire da Sarino, che prende la scena tutto avvolto nell’agitazione per quel suo sogno, quell’incubo angosciante che gli si presentava, quasi ogni mattino ormai, «puntuale, all’alba, quando al sorgere del sole i gabbiani emettevano i primi versi dopo il silenzio notturno». E poi Anna Lupo, ispettore di polizia; il dottor Paolo Sartolo, responsabile del poliambulatorio di Lampedusa; Anna Volpe, con in braccio la bellissima bambina Aminah; Annamaria, impegnata nel volontariato, donna “attraente, mora di occhi e di capelli, come si conviene ad una bellezza mediterranea”, sempre “determinata, volitiva, fattiva, testarda quasi”; ed ancora Paola, desiderosa di fare un viaggio in Africa sin da bambina; e poi Alfredo, Marina, Cosimo, chiamato Nonno Mimino, Emanuele. Insomma, tutti personaggi che si intrecciano nelle pagine narrative della Cecere, divenendo metafora di vita con caratteristiche, stili, e analogie che possono rintracciarsi fin dall’antichità.
La narrazione è tanto semplice, lineare e palpitante, quanto poggiata su una ratio di pensieri e sentimenti che suscitano nel lettore una costante ricerca del senso collettivo ed individuale di certi accadimenti, i quali, attraverso il viaggio, diventano quasi familiari, determinando la necessità di interrogarsi sul perché di stili di vita diversi che segnano il vissuto dell’umanità.
Nelle soste di viaggio di Ester Cecere c’è una letteratura che va oltre il resoconto descrittivo dei luoghi che sono al centro di visite e di incontri dei suoi personaggi; c’è, infatti, anche spazio per l’introspezione, c’è il senso del peregrinare che si fa eziologico, ossia motivo di cambiamento, atteso che – direbbe Andrej Arsen’vico Tarkovskij, «C’è un solo viaggio possibile: quello che facciamo nel nostro mondo interiore. Non credo – prosegue infatti Tarkovskij – che si possa viaggiare di più nel nostro pianeta. Così come non credo che si viaggi per tornare. L’uomo non può tornare mai allo stesso punto da cui è partito, perché, nel frattempo, lui stesso è cambiato» (Andrej Arsen’vico Tarkovskij, “Tempo di viaggio”, 1983).
Ciò che piace di questi racconti, è il loro dispiegarsi senza cedimenti a costruzioni nebulose, è il loro connotarsi come libero pensiero di una coscienza in formazione che diventa voce narrante capace di far “convergere in unum” dubbi, riflessioni, gesti, sensazioni, disagi, situazioni, discrasie tra il modo di vivere dei più ricchi e i disagi dei più poveri raffigurati in “ragazzini chiamati a contribuire al misero bilancio familiare vendendo piccoli oggetti o mendicando”.
E quella della Cecere è una voce narrante che entra nelle pieghe di problematiche sociali incuneate nelle tappe di un cammino che conduce di visita in visita, di scoperta in scoperta, di stupefazione in stupefazione, di smarrimento in smarrimento, dal cuore dell’India al cuore di Lampedusa, nel tentativo di ricerca di verità e di valori di pace e di giustizia che nel tempo della globalizzazione hanno subito un tradimento. I sentimenti della scrittrice diventano, sotto l’azione del ricordo, della fantasia e della realtà vissuta, sentimenti universali, e le sue soste di viaggio un’occasione di discernimento dell’ anima e di confronto con il nudo realismo della storia, che conosce l’indifferenza ma anche l’accoglienza e il senso della fraternità, il limite e la polemica, il buon senso e la generosità.
Ester Cecere dà così vita ad un complesso narrativo omogeneo, pur se le ambientazioni si modificano lungo il percorso dei vari racconti, specie in quelli della seconda parte del volume come “Kafka” A dorso d’elefante”, “Immersione virtuale”, “Una Pasqua a Bologna” , “La ragazza col cane”, “A pesca con la fiocina” , ove la narrazione si fa più distesa, intrisa di dimensioni affettive e di piccoli gesti, di teneri sintagmi che risaltano, fra l’altro, nelle figure di Cosimo, da tutti chiamato Mimino, che “aveva un’età indefinibile e forse neanche lui ricordava più con esattezza quanti anni avesse” ; nella figura del piccolo Emanuele, di Marina che si domanda «quante altre partenze ci sarebbero state nella sua vita, quanti altri dolorosi strappi delle sue radici che, ogni volta, lasciavano un po’ di se’ nella terra madre…».
Nel grande mare in cui sia affaccia Lampedusa, l’autrice colloca sicuramente il suo viaggio interiore; ella stessa diventa l’albatro di baudelairiana memoria, l’ allegoria della sua diversità, del suo “volare alto” che la rende però esule tra gli uomini. E non è un caso se Ester Cecere mette in epigrafe ai suoi racconti citazioni di Premi Nobel per la Letteratura, di autorevoli scrittori e poeti, di pensatori della filosofia, del cristianesimo etc.., come Edgar A. Poe, Voltaire , Anatole France, Milan Kundera, Madre Teresa di Calcutta, Erich Fromm, José Saramago, Immanuel Kant, Arthur Schopenhauer, Franz Kafka, Fëdor Dostoevskij. Ognuno di essi viene assunto dall’autrice quasi come “mentor” per il suo viaggio rapido e veloce finalizzato a sondare l’animo proprio ed altrui, mediante l’attraversamento di una “foresta di simboli”, direbbe Baudelaire, o degli abissi del mare; quel mare di Lampedusa che non è solo quello delle tragedie, dei morti che in esso hanno trovato la fine, ma anche il simbolo dell’insondabilità del senso, del mistero, del viaggiare verso la ricerca di una meta per ritrovare il senso di se stessi.
Le soste di viaggio di Ester Cecere si connotano come “luoghi kairotici”, perché costituiscono un momento opportuno che invita a riflettere, a guardare al cammino verso la sapienza, la saggezza, il dominio di se stessi, la bellezza della relazione e dell’apertura all’altro; e i luoghi descritti, le persone che dialogano, gli spazi che si aprono nei vari racconti sono lo scenario di un’ispirazione interiore che mira a rappresentare il bisogno di conoscenza, di confronto, di apertura alla diversità e alla accoglienza umanitaria.
L’India e Lampedusa diventano, così, non meri luoghi geografici da scoprire per curiosità turistiche, ma l’immagine di un umanesimo che lancia la sua prospettiva spaziale ad un mondo globalizzato di ambigue e fugaci rappresentazioni.
In questi racconti c’è , pertanto, l’essenza più vera e profonda di Ester Cecere, la quale interpretando il viaggio come un misterioso cammino – direbbe Montale nella sua poesia “Prima del viaggio” – , ricrea le condizioni del suo mondo interiore e personale ove tutto si colora di attesa e di inquietudine spirituale, di senso e di stupore; disegna la parabola di un itinerario di “conoscenza” finalizzato alla crescita intellettuale e morale e alla ricerca della naturalezza e della spontaneità; risponde al suo bisogno di operare la riproduzione oggettiva di un paesaggio visivo, psicologico, di una dimensione etica ed estetica interiore, incarnando lo spirito di chi nel viaggio e nei luoghi e nelle persone incontrate ritrova le dimensioni di una ricerca e di un arricchimento umano e personale.
Per concludere, con questo volume l’autrice ci presenta l’India e Lampedusa come lo specchio di un mondo che vive contraddizioni e nel quale si trovano riflesse povertà e ricchezza, accoglienza e indifferenza, e nel quale, altresì, sbatte il rumore delle onde del mare e la voce di quanti lo attraversano in cerca di fortuna.
.Questi brevi racconti sono il respiro di una scrittrice che denuncia incongruenze, e che con uno stile di neorealismo rappresenta frammenti di un’umanità segnata da paure, dalla fame, dal bisogno di riscatto e dal desiderio di uscire dalla disperazione che uccide la speranza. E in questa opera Lampedusa ne è certo il simbolo, e non solo per il fenomeno migratorio, ma per quel viaggio interiore che ogni uomo intraprende quando si dà delle mete, costruisce aspettative e sogni, sperando che alla fine il viaggio non ceda il passo alla delusione.
In questa prospettiva, il viaggio ceceriano non è né un “nostos” né una retorica riproduzione descrittiva di fatti e di luoghi , di problematiche sociali, ambientali e relazionali, né una semplice modulazione emotiva di vissuti reali o immaginari, bensì un itinerario che si sviluppa in verticale, nell’interiorità, quasi come discesa agli inferi di dantesca memoria e di risalita alla luce per rappresentare le luci e le ombre, i volti e i valori di un mondo nel quale possa crescere la volontà della ricerca, della conoscenza piena dell’altro, dell’impegno a umanizzare la realtà nella quale si vive, senza la paura di perdere qualcosa ma con la forza del desiderio di cogliere, invece, l’occasione di conquistare qualcos’altro e di realizzare la speranza del superamento di quella “navigazione difficile”, “reale e quotidiana”, nella quale tutti siamo universalmente immersi.