
Un poesia solida, vibrante, densa di spiritualità e con un’architrave noumenica poggiata su fondamenti di esistenzialismo trascendente, è quella che la poetessa Iole Chessa Olivares, cagliaritana di nascita ma da molti anni residente a Roma, offre ai suoi lettori con la silloge “Nel finito…Mai finito”, Edizioni Nemapress, 2015.
L’autrice, con al suo attivo diverse pubblicazioni, tra le quali “Quel tanto di rosso”, 2007, e “La buccia del grido”, 2008, nonché riconoscimenti e traduzioni in inglese, francese, spagnolo e portoghese, già nel titolo di questa raccolta disegna, ricorrendo all’ossimoro, le coordinate del suo discorso poetico, distribuito in sette sezioni, ove il rapporto dialettico tra finito ed infinito, umano e divino, mutabile ed immutabile, stanziale e fuggevole diventa il paradigma del dramma nel quale si dibatte l’umanità nel suo divenire storico.
In questa terza sua opera, i versi di Chessa Olivares conducono il lettore lungo le vie di una visione dell’esistenza accompagnata, a latere, da acuti approfondimenti critici dei sui testi da parte di Plinio Perilli, atteso che ogni lirica dispone di un apparato ermeneutico che evita accessi ad interpretazioni fuorvianti della sua versificazione; una sorta, insomma, di vademecum che illumina l’orditura dei versi in modo puntuale e acuto e che rende inopportune ulteriori analisi e citazioni anche dal nostro punto di osservazione.
Quel che colpisce di questa silloge poetica è sicuramente il respiro filosofico-teologico che accarezza tutta la geometria delle immagini, dei simboli e delle allusioni, (il “cancello”, “il laccio della corrente”, la “nebbia”, “il singhiozzo della mente”, il “mare nero”, “l’altrove”, il “rumore delle origini”, la “corolla di fuoco”, “il limbo”, “il miraggio dell’ulivo”, “la cometa tracciante”, l’isola felice”, “il vero naufragio”, etc..), attorno ai quali si confrontano e si scontrano le varie antinomie tra finito ed infinito, vita e morte, ragione e sentimento, ombra e luce, parola e silenzio, realtà ed utopia, tempo ed eternità, storia e memoria, che attraversano tutta la tessitura delle liriche,
Leggendo questa raccolta poetica, tre , a mio avviso, risultano i versanti entro cui ruota tutta la struttura teleologica della poetica in divenire. Anzitutto la “Weltanschauung” della poetessa, ossia la sua visione della vita, concepita non come mero piacere, diletto, chiusura dentro i meandri dell’egoismo, dell’ individualismo intimista, ma come ricerca di un “altrove”, del “senso ultimo delle cose”, come capacità di superamento della finzione ( “Fa increspare di brividi / il gesto del burattino / rigido / carico d’insistenza…”) al fine di “rinascere / in un oltre più ampio” ove possa inseguirsi “l’essenziale / anche nel sonno…”.
Dai versi di Chessa Olivares traluce non la visione nietzschiana del superuomo, ma quella dell’uomo-creatura fragile che si deve confrontare con il divenire delle cose, con i mutamenti quantitativi e qualitativi del mondo che lo circonda e che proprio a causa della sua finitudine non può pensarsi come una monade, ma deve confrontarsi con “l’alter” e discernere su tutte le esperienze di bene e di male che possono presentarsi sul suo cammino .
Il secondo versante entro cui ruota la poesia di Iole Chessa Olivares è il costante “rapporto tra ontologia e prassi”, tra individualità e alterità all’interno della categoria tempo. La poetessa, sostanzialmente, crede che quando l’uomo riscopre il suo “essere” più vero aperto alla trascendenza, allora sarà capace di entrare nella prospettiva di tensione verso il superamento del limite, del finito e dell’ illimitato, riuscendo così a tenere “alta l’attenzione ‘all‘altro’ ”.
Con soluzioni lessicali davvero efficaci, del tipo “Inseguendo-fuggendo”, “sangue-fango”, “prima / lunga…lunghissima “, “sandalo-bomba”, “e…sale / sale l’attesa…”, “vago sospeso torpore”, “misura -dismisura”, “vicine e lontane altezze”, “modulato brivido-rossore”, “…un seme di cielo che è l’intero cielo…”, “luna-maree”, l’autrice indaga il mistero dell’esistenza nella sua complessa vicenda, un mistero che ella ricerca dentro la sua stessa anima mediante nuclei concettuali che costruiscono una “poesia meditativa” che si incammina sui binari di “una nuova misteriosa odissea”, che “in disparte origlia / sull’imbuto del mondo”, che “ ricompone devota / tutte le briciole /sangue vivo / di orme mai confuse”, che si congiunge con la poesia del dolore ( “Straziato alto / un solo grido d’uomini / ormai lontani / dall’acqua della vita…”) e con la poesia del sogno (“..e contemplo aurore / senza disturbare”), nel mentre l’inconscio è anche capace di emettere delicati gemiti, raggomitolando frammenti di memoria legati alla figura paterna:
“Sposto lo sguardo
per sfuggire la tua morte
s’insinua
nel gelo dell’aria
un dolore smarrito
scava divide sospiri
cerca sonno e riposo
nel cartiglio del tuo nome(…)
Così lontano
mi porta la tua assenza
così lontano
si volge
cresce
il mio vero naufragio”.
(Il vero naufragio)
Il terzo versante entro cui si dispiega la raccolta “Nel finito…Mai finito” è, infine, riconducibile a tutte quelle “ascendenze simboliste” disseminate lungo la raccolta, grazie alle quali la poetessa riesce a posizionare i suoi versi dentro un dialogo “io-tu” che allarga il respiro epistemologico della sua poesia, non ridotta a diario personale che racconta relazioni affettive, attese e speranze, pensieri e aspettative, ma a “luogo ermeneutico” dell’esistenza nella sua prospettiva universale, ove il compito del poetare diventa quello di rendere coscienti gli uomini del loro rapporto con il transeunte e con l’assoluto.
Nella poesia di Iole Chessa Olivares c’è un palpito di antico e di classicità che le consente di portare sulla pagina versi che si piegano, con eleganza di stile, nel quotidiano della vita, facendo ricorso all’uso di lemmi disposti in modo dialogico: “aria – acqua”, “agavi – rotaie”, “grilli-cicale”, cespugli-erranza”, “spazio-collina”, “pene-soprusi”, “altrove-inganno” etc.., al fine di suscitare nel lettore quell’alone di mistero che attraversa la vita dell’uomo, atteso che il “mistero” avvolge l’intera realtà, l’infinitamente grande dei cieli come l’infinitamente piccolo della vita animale.
Questa silloge, che fa prendere coscienza in modo profondo del fatto che l’itinerario dell’uomo non è altro che una dialettica costante tra “finito… mai finito”, sembra riportaci al grande poeta francese Paul Claudel, il quale accettava e recuperava – direbbe Corrado Rosso – “il mondo delle cause seconde (finite), perché le collegava di continuo alla causa prima”. Se Claudel per connotare questo rapporto ricorre a “L’Arbre”, cioè all’albero, al fine di simboleggiare la riunione icastica della finitudine e dell’infinito, della terra e del cielo, la poetessa Iole Chessa Olivares ricorre ad un mosaico di immagini, verbi, aggettivi, metafore e simboli per dire che quella umana è una parola appena appena balbettante (“…In filigrana / prende vita / la parola /intima / in pieno desiderio / si mostra, si nasconde / balbetta…), e per affermare che perfino “pare il mondo / solo una minuzia di mare …”.
Tuttavia risulta altresì vero che l’autrice nella lirica “Nella ruota del tempo” parla di un “occhio velato / da un tenace andare / sempre più in là…”, riportandoci, questa volta, a quei versi di Montale, allorquando afferma : “Sotto l’azzurro fitto / del cielo qualche uccello di mare se ne va;/ né sosta mai: perché tutte le immagini portano / scritto: ‘più in là’ ”.
Questo “più in là” rivela , a nostro avviso, quell’oltre, quell’altrove, quel “mai finito” a cui ogni uomo aspira e che egli non vede ma percepisce, così come egli ode il grido che c’è dentro le cose, anche se non sente la voce. Il “Mai finito” di Iole Chessa Olivares sembra così essenzializzarsi in una intelligenza superiore, in un Orizzonte di Trascendenza nel quale ogni uomo può tentare di trovare la risposta alle tante domande che nascono nel suo cuore, acquisendo così la piena consapevolezza che la risposta non può essere raggiunta “nel finito..” del mondo fenomenico.
Iole Chessa Olivares sembra insomma ribadire con Montale che l’unica certezza sull’ indagine sull’esistenza è che l’uomo deve finire: “Sappiamo – dice Montale – che dobbiamo finire: questa certezza ci rimanda all’Essere, all’eternità”. Così, infatti, afferma la Olivares: “C’è sempre bisogno di ricordare / che ‘essere’ dà possibilità / infinite / anche / tenere alta / l’attenzione ‘all’altro’ / cercare la pace / senza arrossire / vivere / senza cedere a sovrane stanchezze / o smarrirsi / come in un rito / per la propria salvezza”(da: “Nelle possibilità infinte” ).
Questa silloge, per concludere, piace perché è dotata di un orizzonte spirituale che va oltre spazio, tempo e materia, tuffandosi in un mare di modulazioni sentimentali che trasfigurano l’essenza della realtà in modo veritativo, senza retorica né abbellimenti alchemici, dove ogni verso sembra necessitato dal bisogno della poetessa di “rivelare l’etre”, cioè l’essere insito nelle cose, negli oggetti, nelle persone, nei segreti del cuore, nelle varie forme della natura, nelle articolazioni positive e negative che connotano l’esperienza sensibile.
In molte liriche anche il piglio eucologico ci restituisce il dialogo di un’anima che sa leggere il tempo e la storia con gli occhi dell’Infinito e che sa profeticamente disegnare il senso ultimo dell’uomo che da sempre ha anelato a cercare “l’isola felice / altrove / d’ogni speranza” . E Iole Chessa Olivares si consegna “all’aurora della sorte” con una domanda: “…Il mondo? / Un flusso incontenibile / onda anche di me / tra vicina miseria / e lontana eternità / nella sfuggente meraviglia / di un respiro verde-celeste / sacro / a ogni distanza.”