
Il nostro percorso di riflessione sui vizi capitali pone l’attenzione sul peccato di accidia. Alcuni ritengono che l’accidia sia un peccato di poco conto. Come è possibile – affermano a volte anche i cristiani – che sia capitale, in fondo è solo pigrizia, un atteggiamento quasi caratteriale! Ebbene, così non è perché l’accidia, lo sapevano bene gli antichi, è insidiosa: è dolce come il miele ma corrosiva come l’acido. L’ antica espressione “dolce far niente” la si trova già nell’autore latino Plinio il giovane (61-62 d.C.); l’altra espressione,“stare con le mani in mano”, viene attribuita allo storico Tito Livio (59 a.C.); e ancora , “stare a guardare il soffitto” è una espressione attribuita al retore Quintiliano (I sec. a.C). Stando poi a Plutarco, Catone il Censore (II sec a.C.) ammoniva che “a non far niente s’impara a fare il male”.
L’accidia è dunque un vizio già rilevante prima ancora del cristianesimo perché si configura come un atteggiamento letargico che porta all’apatia spirituale, alla tristezza, alla trascuratezza, alla pigrizia e all’afflizione, elementi che risucchiano le motivazioni della persona.
Originariamente secondo Evagrio Pontico, monaco e teologo, asceta e scrittore cristiano vissuto tra il 345 e il 399 d.C., l’accidia, che deriva dal greco akedìa, stava ad indicare due tentazioni: l’ “apatia” e la “tristitia”, cioè la tristezza che porta alla disperazione. Fu papa Gregorio, nel 590 d.C., ad unire “akedia e tristitia” in un unico peccato: l’accidia, peccato molto controverso ed insidioso che è stato oggetto di attenzione non solo della fede cristiana, della teologia, ma anche della medicina, della filosofia e della scienza.
L’accidia è un peccato o una malattia? Nel mondo greco l’accidia non veniva considerata un peccato ma una malattia curabile, e il medico Ippocrate la descriveva come uno stato di malinconia che provocava tristezza, ansia, abbattimento morale, la tendenza al suicidio e il senso di paura; i pazienti che ne soffrivano tendevano a rifiutare il cibo – diceva Ippocrate – e ad allontanarsi dagli altri. Il mondo greco romano considerava dunque il peccato di accidia un sintomo fisico, quindi il concetto che elaborava era molto vicino al concetto odierno di depressione. Quando però il mondo greco si imbatte con la fede cristiana, questa definisce l’accidia vizio capitale. E a questa definizione contribuisce certamente la Rivelazione biblica.
I cristiani del nostro tempo che scelgono di far guidare la loro vita dalla Parola di Dio, non possono né debbono sottovalutare questo peccato. Nella Bibbia, infatti, troviamo diverse testimonianze sull’accidia, ma ne sottolineiamo solo alcune presenti nel libro dei Proverbi: “Va’ dalla formica, o pigro, esamina le sue abitudini e diventa saggio. Essa, pur non avendo un capo, un sorvegliante o un padrone, si provvede lo stesso il vitto d’estate, accumulando cibo al tempo della mietitura. Fino a quando, o pigro, te ne starai a dormire? Quando ti scuoterai dal sonno?” (Pr 6,6-9). “Non amare il sonno se non vuoi diventare povero” (Pr 20,13). “La porta gira sui cardini, così il pigro si volta sul suo letto” (Pr 26,14).
Queste parole contenute nel libro dei Proverbi non sono semplici detti popolari, slogan tipici di una tradizione, ma indicano, attraverso il ricorso a delle immagini, che all’interno del popolo ebraico c’era una etica del lavoro. Il credente è invitato da Dio a prendere come esempio la formica, che è una creatura minuscola che lavora per tutta la sua vita, così da testimoniare la laboriosità e dare un senso di concretezza al lavoro. Come all’interno della comunità israelitica il disdegnare il lavoro a causa del peccato di accidia significava ridursi alla fame rischiando di uccidere non solo l’anima ma anche la famiglia, allo stesso modo può accadere anche oggi con il peccato di accidia. Questo, infatti, è una inclinazione alla negligenza, alla noia, all’indifferenza, alla pigrizia verso le realtà spirituali e morali.
L’accidia fa diventare insignificanti , rende inaffidabili nello svolgimento di un compito familiare, ecclesiale, sociale , politico e di una mansione istituzionale; rende altresì fastidiosi agli altri come il fumo o l’aceto: (“Come l’aceto ai denti e il fumo agli occhi, così è il pigro per chi gli affida una missione”, Pr 10,26); non solo, rende anche pericolosi a causa della incapacità di portare a termine un incarico (“Chi è indolente nel suo lavoro è fratello del dissipatore”, Pr 18,9).
Ma anche nel Nuovo Testamento non mancano le testimonianze che evidenziano il peccato di accidia. Ricordiamo la scena del Vangelo di Matteo con quel servo svogliato che, dopo aver ricevuto dal suo signore in custodia un talento, si accontenta di fare una buca nel terreno e di nasconderlo (Mt 25,14-29). Oppure l’episodio familiare con due figli, l’uno tutto parole e apparenza, che si dichiara pronto a correre nel campo a lavorare, ma poi se ne sta a poltrire in casa, e l’altro, che alza le spalle rifiutando l’impegno, ma poi s’avvia a lavorare nella campagna (Mt 21,28-31). E poi non si possono non tenere in conto le parole di San Paolo il quale in 2 Ts 3,6-18 condanna l’accidia affermando: “Sapete in che modo dovete prenderci a modello: noi infatti non siamo rimasti oziosi in mezzo a voi, né abbiamo mangiato gratuitamente il pane di alcuno, ma abbiamo lavorato duramente, notte e giorno, per non essere di peso ad alcuno di voi” (3,7-8). E ancora: “Infatti quando eravamo presso di voi, vi abbiamo sempre dato questa regola: chi non vuole lavorare, neppure mangi” (3,10).
Dunque la Bibbia è chiara e offre ai cristiani la consapevolezza che ci sono modelli da rigettare (gli oziosi /fannulloni/pigri) e altri da interiorizzare: la pedagogia evangelica è molto concreta e agganciata alle dinamiche che guidano l’agire morale. Gli oziosi e i fannulloni non sono graditi a Dio e fanno male non solo a se stessi ma anche alla comunità ecclesiale e sociale. Le parole di san Paolo non vanno lette come un generico consiglio, ma come norma che deve orientare la vita del discepolo di Gesù.
Il cristiano laborioso non è certo quello che cede ad un attivismo di sapore efficientista, ma colui che incarna la serenità di chi lavora con fatica (e con soddisfazione) contrapponendosi all’inattività dannosa, parassitaria e perniciosa dei nullafacenti e degli accidiosi. Dante nel quinto cerchio dell’Inferno descrive gli accidiosi mentre stanno affondando nella palude e che si rivolgono a lui dicendo: “tristi fummo nell’aere dolce che dal sol s’allegra portando dentro accidioso fumo”. Anche per il Sommo Poeta il peccato di accidia può condurre al suicidio.
Nel nostro tempo il rischio di cadere nell’accidia è forte e le forme di depressione, di malinconia, di tristezza che avvolge nella disperazione portando perfino al suicidio, sono sempre più ricorrenti. L’accidia può assumere anche una forma di tipo culturale. Quando infatti un cristiano rinuncia a pensare in proprio, a maturare scelte consapevoli e personali, ma si affida passivamente e in modo acritico a opinioni e progetti già confezionati altrove, forse sta per essere avvolto dal peccato di accidia. Occorre reagire al senso della depressione, al vittimismo e al clima collettivo di accidia spirituale e mentale che permette di fuggire da se stessi e dalla Parola e dalle parole che parlano di ideali e valori per i quali vale la pena di vivere e lottare. I cristiani si oppongono all’accidia nel momento in cui riescono a suscitare speranze convincenti.
“Legittimamente si può pensare che il futuro dell’umanità – affermavano i padri conciliari (cf. Gaudium et spes, n 3) – sia riposto nelle mani di coloro che sono capaci di trasmettere alle generazioni di domani ragioni di vita e di speranza”. Il camminare verso questa meta è un buon antidoto alla tentazione dell’accidia!
1 commento su “L’accidia, dolce e corrosiva come l’acido…di Domenico Pisana”
Spero che un prossimo articolo tratti dell'”orgoglio”, che sembra il peccato capitale più diffuso e più assolto dalla chiesa, addirittura preti ne fanno un uso ed abuso, forse inconsciamente riuscendo ad infilarlo fra le “virtù morali”.
Non mi meraviglio molto di questo, ma ricordo le parole di Leonardo Sciascia, il quale spiegava che nella nostra religione ognuno si pone come vuole senza nessun rischio di conseguenze: “dal mafioso alla persona semplice”, ognuno decide il “segno” delle proprie azioni, naturalmente autoassolvendosi.