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20 agosto: 122mo compleanno di Quasimodo…di Domenico Pisana

La parabola esistenziale di Quasimodo nelle due ultime raccolte poetiche “La terra impareggiabile” e “Dare e avere”
Tempo di lettura: 2 minuti

Ricorre il prossimo 20 agosto il 122mo anniversario della nascita di Quasimodo. L’associazione culturale Proserpina, che gestisce a Modica il Museo casa natale Salvatore Quasimodo di via Posterla, ha programmato delle iniziative che vedranno la presenza anche del figlio Alessandro. Vogliamo ricordare il Premio Nobel per la Letteratura soffermandoci sulla parabola esistenziale delle sue due ultime raccolte poetiche “La terra impareggiabile” e “Dare e avere” , ove riverberano tematiche etiche e di disincanto.
Iniziamo con “La terra impareggiabile” del 1958. Qui il poetare quasimodiano è ricco di spunti di cronaca e di occasioni di polemica, come appare evidente in diverse liriche della silloge, nonché di affetti che si agitano nella sua interiorità.
Nella lirica “Notizia di cronaca” il poeta, ad esempio, parla di “Claude Vivier e Jacques Sermeus, / già compagni d’infanzia d’alti muri / in un orfanotrofio, i quali freddamente a colpi di pistola, senza alcuna / ragione uccisero due amanti giovani su un’auto ferma al parco di Saint-Cloud / lungo il viale della Felicità, / sul calar della sera / del ventuno dicembre / millenovecentocinquantasei”; il testo, pur nella sua discorsività cronachistica, è portatore di messaggi e di motivi di vita che invitano alla riflessione.
Toni di rancore si colgono in “Un gesto o un nome dello spirito”, lirica in cui la versificazione si sviluppa con richiami a situazioni esistenziali lasciate aperte: […] “… Io vedo da una collina / di tufo e di conchiglie, e ronda il mare, / il mio sguardo infantile di rancore. / Mi hai strappato ogni primogenitura / bivaccando sotto la mia anima. / Ma se anche tu avessi dato un saluto / d’incontro felice col tuo segnale / alle mie pietre, agli animali, agli alberi, / non una parola interna avresti mutato / del mio ieri o futuro…”.
Il Quasimodo degli ultimi anni è ormai approdato alla piena consapevolezza della sua poetica; egli avverte su di sé il peso delle inimicizie e delle diffidenze che, naturalmente, trovano qua e là spazio nei suoi versi: […] …La mia vita, abitanti crudeli e sorridenti / delle mie vie, dei miei paesaggi, / è senza maniglie alle porte. / Non mi preparo alla morte, / so il principio delle cose, / la fine è una superficie dove viaggia / l’invasore della mia ombra. Io non conosco le ombre, in “Visibile, invisibile”
E ancora, nella lirica “Il muro” il poeta, ricorrendo ad un itinerario lirico analogico, specifica lo stato di aggressione silenziosa che circola attorno a lui:

Contro di te alzano un muro.
In silenzio, pietra e calce pietra e odio,
ogni giorno da zone più elevate
calano il filo a piombo. I muratori
sono tutti uguali, piccoli, scuri
in faccia, maliziosi. Sopra il muro
segnano giudizi sui doveri
del mondo, e se la pioggia li cancella
li riscrivono, ancora con geometrie
più ampie. Ogni tanto qualcuno precipita
dalle impalcature e subito un altro
corre al suo posto. Non vestono tute
azzurre e parlano un gergo allusivo.
Alto è il muro di roccia,
nei buchi delle travi ora s’infilano
gechi e scorpioni, pendono erbe nere.
L’oscura difesa verticale evita
da un orizzonte solo i meridiani
della terra, e il cielo non lo copre.
Di là di questo schermo
tu non chiedi grazia né confusione.

In quei “muratori tutti uguali, piccoli, scuri / in faccia, maliziosi” non c’è sicuramente il disprezzo di Quasimodo per i lavoratori, ma si nasconde un’allusione a personaggi che segnano giudizi sui “doveri / del mondo, che non vestono tute / azzurre e parlano un gergo allusivo”.
La dimensione di uno stoico distacco e di una irrisione di questi personaggi si coglie, altresì, nei versi in cui il poeta descrive la caduta dalle impalcature (“Ogni tanto qualcuno precipita dalle impalcature e subito un altro / corre al suo posto”): in questa caduta e veloce sostituzione c’è un processo allusivo che evidenzia come in quel momento Quasimodo intendesse polemizzare con uomini di cultura e intellettuali che avversavano la sua poetica; non bisogna, del resto, dimenticare che l’anno successivo all’uscita de “La terra impareggiabile” Quasimodo riceve il Premio Nobel per la Letteratura.
I dettami interiori e le disposizioni del cuore appaiono più sereni, invece, nelle liriche che evocano la Grecia. Qui sembrano riemergere alcune geometrie del Quasimodo ermetico e i versi riacquistano, pur nei loro intagli diegetici, le atmosfere e i toni della lirica classica; del resto, i luoghi e i personaggi richiamati nella versificazione, Micene, Maratona, Creta, Atene, Delfi, Eleusi, l’acropoli, il Minotauro, nonché miti e templi greci, non solo appaiono fonte di ispirazione lirica e di stupefazione, ma animano tutta la tessitura dei testi poetici:

“…Il lamento delle madri a Maratona,
il grido delle viscere popolane
non fu udito da nessuno. La Grecia
era libera. È libera la Grecia
Maratona è un luogo di soldati
non di sortilegi, qui non cresce tempio
né ara. Il suo tumolo è intatto, dall’alto
si vede l’Eubea…”
(Maratona)

... I giovani di Creta avevano vita
sottile e fianchi rotondi. Il Minotauro
mugghiava nel Labirinto anche per loro.
Sapienza, Arianna, dei sensi di Pasifae
che schiumò immagini bestiali col toro
scattato come venere dal mare…
(Minotauro a Cnosso)

“Dare e avere” (1966) è l’ultima silloge di Quasimodo, quella in cui prevale una nota di riflessione, serena e distesa, del poeta circa il suo rapporto con la morte. Scorrendo le pagine della raccolta, si coglie un’atmosfera di morte che aleggia come coltre nell’universo interiore del poeta:

…Sono malato:
sono io che posso morire da un minuto all’altro;
proprio io, Varvàra Alexandrovna, che giri
per le stanze del Botkin con le scarpette di feltro
e gli occhi frettolosi, infermiera della sorte.
Non ho paura della morte
come non ho avuto timore della vita…
(Varvàra Alexandrovna)

… Uguale a sé la morte:
una porta si apre, si ode un piano
sul video nella corsia a tende
di narcotici. Entra nella mente
un dialogo con l’al di là,
di sillabe a spirale che avvolgono
requiem su curve d’ombra;
un sì o un forse involontario.
Non devo confessarmi alla terra,
nemmeno a te morte, oltre la tua
porta aperta sul video della vita.
(Una notte di settembre)

… Scrivo parole e analogie, tento
di tracciare un rapporto possibile
tra vita e morte…
(Il silenzio non mi inganna)

La versificazione quasimodiana, come si può evincere dalle citazioni, si muove tra cielo e terra, tra immanenza e trascendenza, tra nostalgia e attaccamento alla vita vissuta e proiezione nell’aldilà. Il poeta tenta, all’interno delle sue introspezioni liriche, un bilancio della sua esistenza, affidandosi ad un sentimento che percorre e apre gli orizzonti futuri: “Sono ancora qui, il sole gira / alle spalle come un falco e la terra / ripete la mia voce nella tua. / E ricomincia il tempo visibile /nell’occhio che riscopre la luce. / Non ho perduto nulla. /Perdere è andare di là /da un diagramma di cielo / lungo movimenti di sogni, un fiume, / pieno di foglie (“Non ho perduto nulla”).
La lirica “Ho fiori e di notte invito i pioppi”, scritta nell’Ospedale di Sesto S. Giovanni nel novembre del 1965, chiude la meditazione lirica sulla morte che caratterizza quest’ultima raccolta poetica quasimodiana:

La mia ombra è su un altro muro
d’ospedale. Ho fiori e di notte
invito i pioppi e i platani del parco,
alberi di foglie cadute, non gialle,
quasi bianche. Le monache irlandesi
non parlano mai di morte, sembrano
mosse dal vento, non si meravigliano
di essere giovani e gentili: un voto
che si libera nelle preghiere aspre.
Mi sembra di essere un emigrante
che veglia chiuso nelle sue coperte,
tranquillo, per terra. Forse muoio sempre.
Ma ascolto volentieri le parole della vita
che non ho mai inteso, mi fermo
su lunghe ipotesi. Certo non potrò sfuggire,
sarò fedele alla vita e alla morte
nel corpo e nello spirito
in ogni direzione prevista, visibile.
A intervalli qualcosa mi supera
leggera, un tempo paziente,
l’assurda differenza che corre
tra la morte e l’illusione
del battere del cuore.

Il testo si snoda con pacata liricità e riesce ad intrecciare in modo armonioso luoghi, figure (“le monache irlandesi”), elementi naturalistici (“pioppi”, “platani”, “fiori”, “alberi” di foglie”), nonché sentimenti che lasciano presagire l’addio alla propria terra: “Mi sembra di essere un emigrante / che veglia chiuso nelle sue coperte, tranquillo, per terra”. C’è, nel poeta, la lucida consapevolezza della sua fine e dell’inevitabile incontro con la morte, che dichiara di accogliere con la stessa fedeltà con la quale ha accolto la vita: “Certo non potrò sfuggire, / sarò fedele alla vita e alla morte /nel corpo e nello spirito / in ogni direzione prevista, visibile”.
Il tono dimesso della lirica segna la scansione ritmica dei versi, i quali risentono di un pathos interiore che alimenta il senso atemporale in cui diventa sempre più impercettibile “l’assurda differenza che “corre/tra la morte e l’illusione/del battere del cuore”.

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