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Flai Cgil Ragusa: “Una riflessione sull’agricoltura”

Tempo di lettura: 2 minuti
In provincia si sta creando sempre più un clima difficile. Le aziende agricole e quelle della filiera agro-alimentare che vi operano da qualche giorno manifestano pubblicamente le loro difficoltà, derivanti dalla spirale economica imposta dal caro energie e dalla crisi che, invero, è iniziata prima della guerra mossa dalla Russia all’Ucraina. Sia l’inflazione che le impennate dei costi dei prodotti e dell’energia hanno iniziato a prendere piede già nel 2021 o forse anche prima. “Oggi  – rileva il segretario della Flai Cgil Ragusa, Salvatore Terranova – che siamo  dentro il picco di queste dinamiche, per lo più speculative, la parte piu rilevante del tessuto economico nostrano alza i toni, denunciando la impossibilità di continuare la loro attività produttiva, e fanno appello alle Istituzioni perché queste assumano interventi in grado di lenire le loro sofferenze.
Noi non disconosciamo che ci sono realtà messe a dura prova da ciò che sta avvenendo. Saremmo veramente disonesti se non ammettessimo, anche noi sindacato, la reale e difficile congiuntura in cui l’impalcatura economico-produttiva si trova a dover fare i conti. Vediamo quotidianamente – prosegue il sindacalista – le sofferenze del mondo produttivo, e lo vediamo soprattutto in quelle realtà piccole e medie che, oltre a dover competere contro giganti economici, oggi per tenersi nel mercato devono far fronte a costi ulteriormente insostenibili.
Detto ciò, ci sentiamo obbligati però da parte nostra a mettere in risalto un fatto, che potremmo definire come la sindrome di “attenti al lupo”, sindrome di cui sono affetti, in  Italia, coloro che pensano di rappresentare l’ossatura portante della produzione in questo paese. Quella di chiedere sempre aiuto, per poter arginare le difficoltà che comporta investire e produrre e stare nei circuiti dei mercati. Di chiedere aiuto per affrontare le spire di una economia della produzione, tipiche di un mondo ormai globalizzato.
Del resto, è patrimonio di tutti che i contributi di cui fruiscono le nostre  imprese sono ingentissime e sono “doni” che chi paga le tasse danno a chi produce. Sia durante la pandemia che prima, i contributi che sono stati indirizzate alle aziende agricole sono tali da far veramente tremare le vene ai polsi, se paragonati a quelli che lo Stato ha “preconfezionato” in favore dei lavoratori. Vi è in questo rapporto una differenza abissale. Prima della pandemia, ma anche durante, queste aziende lamentavano difficoltà che venivano adoperate come strumento per rigettare le proposte di aumento dei salari dei lavoratori agricoli. Il presunto contesto economico non favorevole veniva strumentalmente utilizzato per calmeriare, o meglio per spegnere le imprescindibili dinamiche di crescita del salario. Oggi, con la crisi in atto altri elementi si costituiscono come muro solido per contenere o meglio bloccare la giusta richiesta di rideterninare i salari dei braccianti agricoli, che nella maggior parte dei casi, per non dire quasi totalmente, sono da fame.
I tentativi avviati in questi ultimi tre anni per dare un ruolo dignitoso al bracciante, attraverso la valorizzazione del suo salario proporzionato al lavoro che svolge, sono stato più volte e con strumenti,  di cui non vorremmo parlare, messo in sordina. Tuttavia, abbiamo riscontrato qualche azienda che si è mossa nella direzione che si auspicava, cioè  di riposizionare in alto il portato salariale, ma sempre in una condizione di non rispetto dei contratti di riferimento.
Nel settore agricolo non si è mai scorta una fase in cui era possibile dare la adeguata giustizia retributiva ai braccianti. Ogni volta qualcosa non permetteva neanche di mettere su un tavolo di trattativa, perché il solo pensarlo rappresentava un danno alla permanenza in vita delle aziende.
E invece queste aziende sono cresciute, sono riuscite a collocarsi bene nei mercati, hanno fatto altri investimenti (e dicevano che erano in crisi), hanno aumentato il loro volume di affari (e di questo ne siamo contenti), ma non c’era mai margine alcuno per una trattativa finalizzata a ” sistemare” un quadro salariale desolante dentro il settore agricoltura. Benché le aziende agricole ricevano contributi, defiscalizzazione contributiva e altro, il tenore salariale in voga è  davvero drammatico nella gran parte dei casi. E anche laddove abbiamo assistito ad un rafforzamento degli assetti aziendali con la creazione di consorzi o di altre forme cooperative abbiamo  registrato, paradossale, a una contrazione dei salari. Un tenore che non investe solo il bracciante immigrato regolare, su cui magari si opera una ulteriore discriminazione o quello irregolare, spesso fatto lavorare la notte nelle serre e magari non viene pagato, ma riguarda la condizione reale di tutto il mondo bracciantile, dagli italiani agli stranieri.
Oggi che siamo di fronte ad un nuovo contesto improntato da una greve crisi indotta, dove gli elementi di appesantimento delle condizioni delle aziende si sono notevolmente aggravati, non possiamo non tenere conto di tutto questo. Per questo stimoliamo quotidianamente le istituzioni a livello nazionale di operare interventi per ripristinare le possibilità per le aziende di poter continuare il loro ruolo di produzione, prima che prenda piede una catastrofe economica e sociale.
Ma non va dimenticato che la creazione di un contesto di normalità e di sostegno alle aziende dovrà essere accompagnata da un similare intervento che permetta la manodopera agricola di uscire dal tunnel della sotto-paga, che è a tutti gli effetti, se dovesse ancora perdurare, finirà per produrre altra crisi. E questa volta dovranno essere le aziende a sentire il dovere morale e sociale di emancipare il mondo bracciantile da una condizione di sfruttamento, derivante dalla persistere di modalità retributive esterne a qualsiasi normativa e contrattazione nazionale e territoriale. Perché siamo al cospetto di una condizione contenente il rischio di generalizzazioni negative sulle aziende, nel senso che, se la retribuzione bracciantile si situano molto al di sotto degli standard salariali della contrattazione collettiva, a causa del prevalere del salario di piazza, il giudizio di sfruttamento lavorativo potrebbe rasentare tutte le aziende che non si attestano a parametri regolari.
Ben vengono pertanto gli aiuti, sotto molteplici forme, alle aziende, ma da questo deve discendere anche una nuova stagione di trattative, anche con la mediazione delle istituzioni locali, per riadattare i salari a criteri più adeguatamente vicini alla esigenza di promozione della persona attraverso il lavoro.
La crisi in atto – conclude Terranova – deve essere affrontata guardando tutte le criticità del settore agricolo. Va tenuto conto del rischio di disintegrazione cui potranno andare incontro tante importanti soggetti imprenditoriali e le loro aziende se si prolungheranno le condizioni proibitive attuali, ma va anche, speriamo, affrontata quella di un assetto salariale prevalente del tutto sganciato dalla regolamentazione e che colloca i braccianti tra i lavoratori più poveri.
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