
Tra le figure femminili della poesia contemporanea italiana, merita sicuramente attenzione Luisa Bolleri, che vive ad Empoli e che ha una produzione letteraria molto interessante a livello narrativo con la pubblicazione, dal 2011 al 2019, di romanzi e racconti, l’ultimo dei quali Precipitare, Leonida Edizioni; ed ora anche a livello poetico, con la recente raccolta Involuzione della specie, iQdB edizioni, 2019, inserita nella “collanazeta” curata da Nicola Vacca.
Il suo poetare è uno scavo nell’ontologia più profonda dell’uomo, ove si origina, si dibatte, muta e si sviluppa il ciclo dell’esistenza nelle sue forme di evoluzione e di involuzione. Il titolo della sua raccolta contiene già in sé una dichiarazione di sentimento al negativo, che non è soltanto personale, ma sociale e cosmico, perché a fronte di una accelerazione tecnica e di una globalizzazione che ha trasformato il mondo in un “villaggio globale”, c’è una caduta e crisi di umanesimo a tutti i livelli da far spavento, sì da far dire alla poetessa:
“…L’umanità è morta
se dopo settant’anni
niente è cambiato
nel cuore umano
se i deboli continuano
in altri luoghi e forme
a morire e pagare
gli errori dei potenti…”
( Nel cuore disumano)
Il tono della versificazione di questa raccolta non ha il sapore della retorica né della sterile denuncia, né si veste dell’emozione momentanea di fronte all’indifferenza e alle nefandezze della storia, ma assume, piuttosto, il valore di una “esegesi dolorosa e sferzante” del vissuto della società contemporanea, ove la reciprocità e il rapporto interpersonale hanno subito un arretramento impensabile, come se “Anni sbiaditi, ingoiati dalla Storia / vergata con ferocia repressiva” fossero trascorsi invano; come se nessuna lezione etica fosse venuta dai “muri alzati”, quando “l’aria al confine si smarriva / lacerandosi lungo il filo spinato, in Il Muro.
Il corpus poetico della raccolta si snoda su una diversità di momenti creativi divisi in quattro sezioni( “Il nostro pane amaro; “Fanno male questi tagli osceni”, “Sarò donna”, “Nel bunker”), le quali si integrano nell’unità di una versificazione ove il piglio delle poesie è tematico e problematico, sociale ed etico, antropologico e filosofico, risentito e amaro, proprio nel mentre si specchia dentro questo nostro tempo che continua a “inciampare su cose e parole / che fanno male”; su questo tempo rumoroso e ciarliero che induce la poetessa a stigmatizzare la mancanza di silenzio (“…Magari il silenzio sarebbe adatto /più del rumore denso e rosso…) e a fare approdare sulla pagina il suo sentimento di indignazione, il suo grido di disappunto, la sua voce di canto che s’inerpica dentro il disagio esistenziale della quotidianità:
“…Oh tempo monocorde che batti
e ribatti insistente come note
di tamburi lontani nelle notti
ma non comprendi il verso
di chi è diverso da te
di chi piange la sera
di chi canta la vita a vuoto
come un uccello muto”.
(A Josefa)
Luisa Bolleri avverte il malessere esistenziale che sta attraversando con forza la contemporaneità, e racchiude in immagini desolanti (“ “ovunque è polvere e macerie”, “Il pane nostro / è ancora amaro / ogni sorriso si spezza a metà”, in Sono rimasti qui) e di crudo realismo le tensioni sociali e i disagi del vivere, che, tuttavia, non chiudono in lei la forza della speranza( “…Ci trasciniamo, alla deriva, non sappiamo dove andare/ ma andiamo. Avanti”) e disvelano il senso di rottura del suo poetare:
“…Pazzi
siamo pazzi
noi poeti a volte
Ci tocchiamo la fronte disperati
ma non riusciamo mai – mai – a dire
quanto ci costi questo amore.”
( I poeti a volte)
E così, ogni poesia della raccolta Involuzione della specie è una “poesia di rottura” nel contenuto e nello stile, perché dice “ verità amare” che non appaiono; ridimensiona tutto ciò che la specie umana prende come modello di evoluzione, – ossia il mercato, il consumo, lo spettacolo, la rissa, l’intrattenimento effimero, il piacere estetico -, dimenticando quella massima biblica di genesiaca memoria che la poetessa fa propria: “L’amara verità / anche se non si vede / è che sei solo polvere / e volte lo dimentichi”, in Nessuna parola.
Luisa Bolleri non riduce mai il verso ad una sorta di intreccio di parole, e avanza il bisogno di una versificazione di rottura tutt’altro che pacifica, redditizia, consolatoria; insomma, una versificazione di impegno che invita uomini e donne ad uscire dalla menzognera auto-deificazione prendendo atto della “ limitatezza umana”, e che nel contempo si fa in lei domanda di salvezza: “…Vorrei tanto credere in qualcosa / un dio, un angelo o un santone pio /che mi sciolgano dall’apparente morte / ma ho imparato dalle lacrime, da me / che le bugie non salvano nessuno”, in Credere.
La sezione “Fanno male questi tagli osceni” è un canto poetico ove “l’amara verità” della finitudine umana tracciata da Luisa Bolleri si coglie in tutta la sua essenza e complessità, dando spazio ad un eloquio poetico attraversato dal riverbero di vicende e accadimenti toccati con mano ed espressi all’interno di un bruciore di sentimenti che si fanno messaggio attraverso immagini, segni e metafore:
…taglio a pezzi i pensieri
colpisco con l’accetta
foglie e fiori di plastica
…m’incarto di silenzio
denudo il quotidiano
glissando repliche
Cerco dentro le ombre
presso il pietrame a secco
dietro le nuvole
l’essenza della vita
(In mezzo a ombre)
Avevo un buco
in fondo al cuore
Era minuscolo ma tu
ci hai soffiato dentro
E adesso
è una voragine
( Il buco)
Sono, questi, versi che superano gli stereotipi e ogni forma del cosiddetto “poetese”, e rivelatori, invece, di una poesia che nasce dalla vita personale dell’autrice, dal suo essere donna, coscienza pensante, osservatrice della realtà, voce che sa denunciare e stigmatizzare le contraddizioni della condizione esistenziale maschile e femminile spesso avvolta nell’ombra dell’abbrutimento: “…Mi colpisci a tua volta / e mi urli addosso / parole di un pazzo / Cado a terra / ripensando ai tuoi baci / pieni d’amore / che ora sono sangue / Di rabbia e dolore / ti graffio e scalcio via / la tua condiscendenza”, in Alle spalle.
La poesia di Luisa Bolleri è quasi un canale di trasmissione di emozioni che da privati diventano universali, perché sono quelle di tutta l’umanità. Ogni poesia della Bolleri si svela, in questo libro, come l’espressione del cuore che diventa “parola”, la trasfigurazione di un sentimento che si fa “storia”, poiché dalla storia parte e alla storia ritorna. E allora, in questa seconda sezione della silloge si coglie il rafforzamento della voce di indignazione della poetessa verso tutto ciò che è male, violenza, mancanza di rispetto e “inverno di vita” come dice in un verso, nonché incapacità di amare e di comprendere. C’è, ancora, la trasfigurazione di una disgregazione sociale ed umana che l’autrice disegna con una efficacia di immagini e un complesso realismo connotato di metafore e segni: “ferite aperte”, “campo di dolore”, “foglie tagliuzzate”, “grembo primitivo”, “mummie vive”, “palude di liquido torpore”, “filamenti d’alghe”, “fiori di plastica”.
Dentro questa articolazione di immagini c’è sicuramente il mondo interiore dell’autrice che si snoda come uno “svelamento del suo percorso poetico, nel quale – direbbe Ungaretti – “l’esperienza individuale diventa verità universale in cui tutti possono riconoscersi” e in cui, altresì, si coglie tutto il cuore e il logos della poetessa che “parla a sé di sé” e , così facendo, anche agli altri.
E ciò si coglie anche nella sezione “Sarò donna”, che appare come un “tempo ontologico”, tempo, cioè, in cui l’essere della poetessa si riappropria dell’io, si pone domande, si abbandona ad un dialogo-confessione con se stessa molto amaro, segnato ora dalla nostalgia, ora da nuove emozioni, ora da aliti di vita e da risentimenti e astio; il tempo, insomma, diventa in lei luogo di senso e di rivisitazione, scontro dialettico con l’io poetico che si narra assumendo una valenza di condizionamento interiore lacerante. Emblematiche, a riguardo, sono le poesie Utopia e Sarò donna. Nella prima, la poetessa consuma il cedimento esistenziale del mondo femminile oltraggiato da logiche di soprusi e malversazioni (“ Non ho più armi / per combattere la guerra / contro barriere insormontabili), mentre nella seconda vive l’attesa di rimanere “voce elevata alta / contro il vento” e di restare “ comunque / una persona”, nonostante la consapevolezza della morte interiore e della necessità di approdare al giorno del riscatto.
Nella sezione “Nel bunker” l’itinerario poetico di Luisa Bolleri prosegue la sua meditazione esistenziale sulla “specie”, e attraverso testi poetici come “Trincea”, “Miserere”, “Radio Londra” punta lo sguardo su orizzonti nei quali si intravede una circolarità ermeneutica tra passato e presente, per poi giungere alla conclusione che “La guerra non finisce mai:/ ha solo cambiato il nome”. E il nuovo nome è l’auto-deificazione di se stessi (“…siamo i padroni di ogni tempo /dettiamo legge – specie sul futuro – /scippato un po’ ogni notte di nascosto, in Abitiamo); è la confusione delle lingue e delle relazioni che rompe tutte le certezze (“…Il caos spariglia le certezze”); è la perdita della speranza (E’ rotolata a valle / la speranza…”) a causa di un ambiente deturpato, di una educazione priva di orientamenti valoriali (“…Dove, dove abbiamo infilato / i nostri figli? / In un imbuto senza via d’uscita./ A quale destino sono condannati…”, in La speranza); è, insomma, l’abbrutimento di un’umanità che non conosce pietà: “…Ma la pietà per gli altri / non è di questo mondo”, in Uomini.
Si spiega così, in questo cammino denso di domande e di voli di speranza, l’amara presa d’atto, da parte dell’autrice, dell’ “involuzione della specie”, che si dibatte tra l’evanescenza di una vita che “sfugge come marea di alluvioni” e “senza lamento” uccide “l’amore / con lentezza / di nebbia sognata / di riflesso solo immaginato” e la consapevolezza di continuare a lottare senza arrendersi mai:
“…La guerra ci indurisce il cuore
ma daremmo la vita per un credo
non ci arrendiamo mai fino alla morte
sempre alla ricerca dell’amore
Un giorno il tempo ci vedrà diverse
rispetto a come eravamo
la schiena curva e le mani storte
somiglieremo alle nostre madri
Avremo lo stesso sorriso stanco
che al bisogno non è mai mancato
e ci ha riempito il cuore di calore”
(Siamo donne del Novecento)
Prendendo a prestito una espressione di Umberto Saba, la poesia di Luisa Bolleri ci appare come “poesia onesta”, nel senso che corrisponde a quella che è la visione reale dell’esistenza, evitando di cadere nella ricerca dell’appariscenza o nel tunnel di acrobazie stilistiche, o in pesanti assemblaggi metaforici e sintattici. Al contrario, ci troviamo di fronte ad una poesia che prende forma dalle esperienze della sua vita di donna, di persona amata e ferita, e animata dal bisogno di ritrovare nuovi orizzonti di “ri-meditazione” del senso dell’essere; orizzonti che, poi, diventano, sulla pagina, approdo delle sue ispirazioni e forti vettori di pensiero in dinamico movimento.
Involuzione della specie è sicuramente un libro da leggere e meditare, e chi lo farà, troverà in esso poesie ricche di intagli provocatori e allusivi, di recuperi memoriali e storici, di frammenti di vita reale quotidiana abbrutita da forme di irrazionalità e imbarbarimento. I versi di questa raccolta, che battono il respiro di un “pessimismo quasi irredimibile”, si offrono come lucida coscienza critica della realtà nelle sue ipocrisie e verità, e suscitano il bisogno di ragione, di bellezza , di felicità e di cambiamento. Questa raccolta poetica, in conclusione, mira a svelare alle radici la latente combinazione tra il “nous poietkos” dell’autrice, la comunicazione sociale e le forme di organizzazione dell’esistenza. Se appare chiara, da un lato, la convinzione della Bolleri circa la necessità di allontanare il dolore, la morte e il male che continuano a far restare l’uomo “quello della pietra e della fionda” direbbe Quasimodo, dall’altro c’è nel suo poetare quella “persuasione” di Michelstaedteriana memoria, secondo cui occorre “impossessarsi del presente, prendere su di sé la responsabilità della propria vita” per assorbire le negatività del presente e giungere all’accettazione critica della radicale imperfezione e finitudine umana, con lo sguardo proteso al futuro senza demordere dal “continuare”:
Si sappia che non c’è bisogno
di libertà o finestre spalancate
le idee buone rimangono
crescono e continuano a volare
inarrestabili in alto
vanno lontano
(Uomini)