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Scicli. Inaugurata la mostra di Giovanni Favaccio e Mario Caruso sulla vita religiosa iblea.

Inaugurata nei giorni scorsi a Scicli, presso il Museo del Carmine, la mostra di Giovanni Favaccio e Mario Caruso sulla vita religiosa iblea.
La mostra intende proiettare l’osservatore anche meno attento, nella parti più esclusive di alcuni importanti monasteri iblei. Al centro di ogni attenzione è posto dai due penalisti modicani, il monastero S.Benedetto di Modica che riesce ad evocare , come d’incanto, le sensazioni più intime e profonde anche fra i più stoicamente meno avvezzi alle religioni. Le Benedettine, da sempre “custodi viventi” dell’eternità del SS. Sacramento, sono nei cuori di tutti (foto in evidenza) . Centinaia di generazioni hanno attinto sapienza e Fede dal seno puro, immacolato ed incontaminato di queste suore. Per chi, come chi scrive, ha nel proprio sistema limbico e soprattutto nell’endocardio degli affetti, i ricordi di quella scuola centenaria d’abnegazione al dovere, amore e carità, è stato come tuffarsi nel mare dei ricordi più protopatici. La mostra non colpisce solo per gli straordinari effetti o per la perfezione della definizione dei chiaro-scuri o della luminanza della scala dei grigi, ma soprattutto per la maestosità dei soggetti, ricercati con minuziosa attenzione. Colpisce in maniera considerevole la continua ricerca dei campi di ripresa ottica sempre “in punta di piedi” come se il fotografo fosse “ sospeso nell’aere più rarefatta” . L’operatore, pur facendo parte dell’ambiente, riesce sempre a tenere una posizione di vantaggio ottico ma mai oltraggiosa della sacralità dei luoghi. Un silenzio atavico, tipicamente monastico ma mai banale accompagna gli scatti. Nelle foto di Favaccio prevale la ricerca del “totale” spiegato dal particolare, senza mai alcun rumore di fondo tecnicamente accentuato. La foto riesce a far vibrare l’occhio che scruta e soprattutto fa meditare. In quest’ottica Favaccio riesce a penetrare ogni animo. Non c’è sofisticazione nella ricerca di particolari superflui, ogni “insieme” fa pensare a lungo. E così come d’incanto, mi ritrovo davanti le pupille il vecchio pianoforte dell’Istituto su cui le mie piccole mai iniziarono a martellare in sequenza i lucidi tasti d’ebano ed avorio nel lontano 1964. Quelle note che rimbombano fra i miei neuroni, attirano dai meandri profondi encefalici luce, immagini, persino odori e sapori antichi, ma soprattutto volti di beatitudini infantili passate. Ci si innamora delle suore fin da bambini. Riappare la leggendaria immagine di Suor Cecilia, seduta sullo sgabello, che accarezza noi piccoli nuovi musicisti e ci prepara per il temibile saggio pianistico annuale. Ricompare suor Matilde la cui bellezza non sono mai più riuscito a trovare in nessun umano del mondo; riaffiora, con la sua voce suadente ed il volto dolce sempre sorridente, la Superiore Madre Agnese che invita tutti noi a prendere posto al refettorio. Un dèjà vù reale, senza limiti. La ricerca di Caruso è invece puntata sulla maniacalità del particolare che, guardando con attenzione, trova la sua identificazione e amplificazione visiva nel contesto della complessità degli ambienti e dei soggetti . La “luce” riesce sempre ad essere protagonista e ad imporsi con garbo nel particolare delle totalità chiaro-scure ambientali. Una ricerca prodigiosa che è possibile ammirare nella foto in cui , grazie al protagonismo di una semplice candela accesa che protegge dalle tenebre e del Vangelo aperto che dona amore, prendono vita i limpidi volti sfuocati delle suore retrostanti. Dalla semplicità di questa immagine si irradia la luce e pervade con forza dentro l’ambiente circostante. Questa “luce” impregna senza soluzione di continuità ogni cosa, avvolgendo anche i particolari sfuocati del fondo. Favaccio e Caruso ricercano il particolare anche nell’ assoluta sacralità dell’inviolabile. Entrano ( con il permesso ovviamente), quasi invisibilmente in clausura. In una piccola cella votata solo al sacrificio e alla preghiera, sopra l’inginocchiatoio, impreziosito dalla suora pregante, Caruso addirittura riesce a catturare un alone di “luce mistica”, imbrigliata dal suo colto obiettivo. Insomma , una ricerca difficile e da” campo minato”, operata dai due eccellenti fotografi che impressiona certamente ogni animo e che va sicuramente centellinata in ogni minimo dettaglio visivo. C’è tempo fino al 29 aprile. E’ una storia che merita e che va assolutamente vissuta.
Francesco Roccaro

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