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Viaggio intorno a Quasimodo a 50 anni dalla morte… di Domenico Pisana. “La fioritura” della poesia sociale di Quasimodo nella raccolta “Giorno dopo giorno” tra continuità e innovazione/6

La silloge di Quasimodo “Giorno dopo giorno” è il “culmen” di un’ ansia di ispirazione sociale e civile che andava maturando nel suo animo e, nel contempo, la “proiezione” di un dettato interiore che assume le tragedie della storia e le trasforma in parola poetica. All’interno della raccolta, infatti, coesistono due tematiche principali:

la denuncia del dolore di un intero popolo straziato dalla guerra, come si evince dalle liriche “Alle fronde dei salici”, “La notte d’inverno”, “Di un altro Lazzaro”, “Milano, agosto 1943”, “Forse il cuore”, “Uomo del mio tempo”;

la compartecipazione personale, in toni drammatici ed elegiaci, a questo dolore collettivo, come è evidenziato in modo chiaro nelle poesie “Lettera, 19 gennaio 1944”, “Neve”, “La muraglia”, “Dalla rocca di Bergamo alta”, “Presso l’Adda”, “S’ode ancora il mare”, “Elegia”, “Il traghetto”, “Il tuo piede silenzioso”.

Perché quest’apertura di Quasimodo a temi civili e sociali dovrebbe essere interpretata come “esercizio retorico”, come “opportunismo di maniera”, stante alcuni giudizi critici, e non, invece, come “processo di maturazione poetica” che trova nella lirica sociale un suo pieno completamento?

Noi riteniamo che il vero poeta, se non vuol apparire un uomo di arida elucubrazione intellettuale, debba essere capace di mettersi sempre in discussione e di aprirsi al divenire della storia non rinnegando il suo passato: egli deve guardare al passato, sapersi immergere nel presente e proiettare nel futuro.

Quando Quasimodo, nella lirica “Alle fronde dei salici”, con accenti e immagini bibliche che richiamano il salmo in cui gli Ebrei si rifiutarono di cantare in terra straniera il cantico del Signore, esprime sconforto e dolore per il dramma del proprio tempo, egli non si diletta in un artificio letterario, ma si incarna realmente nella vita degli uomini violentati dalla guerra. E il suo poetare, arricchito di socialità e impegno etico, si rimodula con nuove tecniche formali, ove l’ermetismo non scompare, ma continua a vivere in quel gusto per l’analogia ellittica, come emerge da alcuni versi stessi della lirica: “… sull’erba dura di ghiaccio, al lamento / d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero/ della madre che andava incontro al figlio /crocifisso sul palo del telegrafo…”

Quando Quasimodo descrive la Milano del 1943, (“Milano, agosto 1943”) devastata dai bombardamenti, prostrata e “morta….”, “morta…”, “morta…”, come, in modo ossessivo, ripete, non ci sembra egli voglia fare sfoggio di “eloquenza civica” o dilettarsi in una “macabra erudizione” a sfondo bellico, quanto, piuttosto, innalzare un grido di disperazione di fronte alle macerie e ai morti che avevano trasformato la città in un desolato cimitero.

Egli non solo si fa interprete di coloro che avevano subito una tremenda devastazione, ma anche voce che condanna ogni forma di guerra e di violenza che lacera l’umanità.

In situazioni storiche simili ci viene alquanto difficile pensare ad un opportunismo quasimodiano e ad un suo intervento dal “piglio oratorio”; siamo più propensi a credere ad una sincera partecipazione del poeta al dolore di una città, abitualmente ricca di vita ed operosità, sconvolta d’un tratto dagli orrori della guerra.

Certo, il canto lirico non poteva non uscire dalle raffinatezze e dalle ambiguità dell’esperienza ermetica, ma doveva necessariamente assumere toni “descrittivi e discorsivi” e tradursi in un’efficacia di immagini vive e palpitanti e di stampo quasi espressionistico.

Quasimodo, dunque, a partire dalla silloge Giorno dopo giorno diventa il banditore di una visione sociale della poesia, come egli stesso afferma nel suo “Discorso sulla poesia”, discorso apparso per la prima volta in volume come Appendice a “Il falso e vero verde”, Mondadori, 1956:

“… Siamo alla fioritura di una poesia sociale, cioè che si rivolge ai vari aggregati della società umana. Non poesia sociologica, perché nessuno sogna di fare del sociologismo, richiamando le forze dell’anima e dell’intelligenza. Dante, Petrarca, Foscolo, Leopardi, hanno scritto poesie sociali, poesie necessarie in un dato momento della civiltà. Ma la poesia della nuova generazione, che chiameremo sociale, nel senso che s’è detto, aspira al dialogo più che al monologo, ed è già una domanda di poesia drammatica, una elementare ‘forma’ di teatro…”

La poesia di Quasimodo si consacra pertanto a questa nuova prospettiva di socialità e i suoi versi diventano un “canto civile”, un “inno etico-sociale” che, da questo momento in poi, pervaderà la sua versificazione.

Nella poesia “Uomo del mio tempo” egli constata amaramente come l’uomo contemporaneo, nonostante la tanto decantata civiltà e l’apparente progresso sociale, sia rimasto ancora quello della pietra e della fionda:

Sei ancora quello della pietra e della fionda,

uomo del mio tempo. Eri nella carlinga

con le ali maligne, le meridiane di morte,

t’ho visto – dentro il carro da fuoco alle forche

alle ruote di tortura. T’ho visto: eri tu,

con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio,

senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora,

come sempre, come uccisero i padri, come uccisero

gli animali che ti videro per la prima volta.

E questo sangue odora come nel giorno

quando il fratello disse all’altro fratello:

Andiamo ai campi”. E quell’eco fredda, tenace,

è giunta fino a te, dentro la tua giornata.

Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue.

Salite dalla terra, dimenticate i padri:

le loro tombe affondano nella cenere,

gli uccelli neri, il vento, coprono il loro cuore”.

Questo testo poetico è portatore di una viva coscienza etica e sociale che ripercorre le tappe di una natura umana sempre uguale nel suo evolversi dalla primitività ad oggi. L’incipit della poesia è caratterizzato da un enfatico verbo al presente, (“Sei”), ad evidenziare, con tono di accusa, l’im-mutabilità (“ancora”) della dimensione ontologica dell’uomo, la cui natura ferina e il cui comportamento non sono cambiati per nulla nel corso del tempo.

L’uomo , secondo il poeta, continua nel tempo ad avere verso il proprio fratello lo stesso atteggiamento aggressivo e violento dei suoi antichi progenitori, anzi, si è prodigato ad affinare gli strumenti di morte passando dalla “pietra” e dalla “fionda”, dalle “forche” e dalle “ruote di tortura” ai più sofisticati carri armati (“il carro di fuoco”) e aerei (“le meridiane di morte”) .

In questo processo di perfezionamento dei suoi strumenti di offesa, l’uomo ha trovato nella scienza e nella tecnica i suoi alleati, che gli hanno consentito di poter esternare con maggiore efficacia il suo sentimento di inimicizia e di odio, così da ridurlo ad un essere privo di amore e di umanità.

In quel “senza amore, senza Cristo”, c’è, infatti, l’amara constatazione di Quasimodo dell’ecclissi di valori morali che ha occultato, nella coscienza dell’uomo, il dono dell’amore, predicato da Gesù Cristo, ma sicuramente riconosciuto in modo universale da qualsiasi fede religiosa.

Entrata in questo vortice negativo di sterminio, di offesa e di violenza, la storia dell’uomo, sin dalle prime manifestazioni dell’odio fratricida tra Caino e Abele, di cui parla la Bibbia, si è snodata in una continua lotta aggressiva nella quale uomini e animali si sono messi sullo stesso piano.

La continua insistenza sul verbo “uccidere”, accompagnata dalla congiunzione “come”, evidenzia il tono sempre più angosciato e disperato con cui Quasimodo arriva alla conclusione che la violenza è una condizione esistenziale strutturale ed ineliminabile del genere umano.

Una efficacia particolare assume la sinestesia utilizzata dal Nobel allorquando accosta il “sangue”, simbolo della morte, al verbo “odora”, in un quadro di riferimento al libro della Genesi, ove il racconto di Caino e Abele viene dal poeta esteso, nei suoi effetti più nefasti, alla storia dell’umanità.

Nella parte finale della lirica Quasimodo sembra aprire uno squarcio di speranza; egli, infatti, invita a dimenticare gli errori dei padri e a proiettarsi verso un orizzonte nuovo, dove quell’immagine delle nuvole di sangue”, – sostengono Barbiero e Roncoroni in “Fatti e idee”, Mondadori, 1987, p. 823 -, “ se da un lato allude alla minaccia ancora incombente sugli uomini, dall’altra introduce l’idea che questo minaccioso addensarsi di sangue e di lutti (metafora) possa ritornare sulla terra sotto forma di pioggia benefica e ristoratrice, una volta che gli uomini abbiano smesso in modo radicale e definitivo ogni odio e rivalità”.

Certo, anche in questa poesia i moduli dell’ermetismo non vengono pienamente rispettati, tuttavia la parola poetica non sembra aver perduto l’efficacia e la forza delle immagini dell’esperienza precedente, connotazioni che, anzi, risultano ulteriormente arricchite con il ricorso ad un codice lessicale realistico e, a volte, persino tecnico (“carlinga”, “meridiane”) .

In “Giorno dopo giorno” l’atmosfera di morte e di desolazione lasciata dalla guerra campeggia anche nella lirica “Elegia”, dove Quasimodo, con un ricorso ad immagini di derivazione leopardiana, affida alla luna un ruolo centrale. Gelida, limpida, solitaria, la luna ritorna ad illuminare le case distrutte, le tombe ignote, i cadaveri sempre più numerosi, offrendo agli occhi del passante uno spettacolo crudele e doloroso. Il poeta chiude ogni sogno e sentimento di speranza in una sorta di apocalisse universale, mentre la natura, nella sua impassibilità, assiste al cammino dell’uomo che si proietta verso orizzonti di morte.

Giorno dopo giorno”, in ultima analisi, dà corpo e sostanza a quella nuova ricerca di motivazioni poetiche che andava maturando nell’itinerario quasimodiano, e che nella silloge trova la sua essenza in una poetica di intonazione sociale innestata nell’esperienza bellica. La raccolta, del resto, come abbiamo più volte evidenziato, è sviluppata in un’atmosfera nella quale un buio siderale e il tempo oscuro della guerra (“questa profondissima / notte di guerra” – 19 gennaio 1944) aleggiano su uomini e cose e sulla natura in tutte le sue espressioni:

sull’”inverno, con l’erba di ghiaccio” (“Alle fronde dei salici”) e con la neve che “illumina i prati /come la luna e si fa funebre teatro di questo cerchio bianco di sepolti” (“Neve”) ;

sull’autunno che “guasta il verde ai colli” (“O miei dolci animali”);

sulla primavera, con “il lamento assiduo di gabbiani: forse / d’uccelli delle torri, che l’aprile / sospinge verso la pianura” (“S’ode ancora il mare”) ;

sull’estate, con il polveroso agosto milanese (“Milano, agosto 1943”).

Insomma, la natura è avvolta in un clima di angoscia e di morte, a causa della devastazione provocata dagli eventi bellici.

Nel prossimo intervento entreremo nell’analisi della raccolta “La vita non è un sogno” del 1949.

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