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Il libro di Claudia Piccinno, “Quel nido sul gelso”…di Domenico Pisana

Un’ermeneutica della vita che conversa con Dio, con gli avi e col dolore
Tempo di lettura: 2 minuti

Una poesia pervasa da aneliti, sospiri, emozioni ed intuizioni, filtrati con compostezza ulteriore, anche nel dolore, è quella che Claudia Piccino, traduttrice di raccolte di autori provenienti da Serbia, Turchia, Germania, Arabia Saudita, Romania, Francia, Cuba, Perù e India, offre al lettore nella sua raccolta dal titolo Quel nido sul gelso.
Il corpus poetico poggia su una trilogia di momenti creativi che si integrano nell’unità di una circolarità ermeneutica essenzializzata nell’immagine racchiusa nei due elementi del titolo della silloge: il nido e il gelso, elementi raffigurativi di archetipi universali.
La poetessa dà al nido una dimensione rappresentativa di un luogo di protezione, sicurezza e accoglienza, dove la vita prende inizio per poi svilupparsi; il nido è un luogo di intimità, quasi un’oasi di pace lontana dal caos del mondo esterno, e allo stesso tempo delicato e vulnerabile, esposto agli elementi e ai pericoli, proprio come le emozioni umane.
L’altro elemento, il gelso, raffigurato nella copertina, porta con sé una forte connotazione simbolica, spesso legata alla storia e alla tradizione rurale italiana. In letteratura e poesia, il gelso ha spesso indicato il valore della radici e della memoria, tant’è che si trova nei cortili e nelle campagne, evocando un senso di appartenenza e il legame con le proprie origini e ricordi d’infanzia; ma è anche considerato un albero della saggezza, forse per la sua longevità e per il suo ruolo nel ciclo vitale: nutre i bachi da seta, essenziali per la filatura.
La scelta di questi due termini diventa così una dichiarazione di poetica che pervade le tre parti del volume: Conversando con Dio, Conversando con gli avi, Conversando col dolore, che diventano uno spazio interiore in cui i temi della protezione e dell’intimità si fondono con quelli delle radici, della memoria e della saggezza. Per Claudia Piccinno il nido è il luogo dell’anima costruito sui rami della memoria e della sua storia personale, un posto dove custodisce e ascolta le “voci” più profonde e silenziose, come quelle delle mani, di cui parla nella poesia La voce nelle mani, presente nella terza parte dal titolo Conversando col dolore:

Eloquente è la voce delle mani
sconosciuta agli sguardi
sorda al resto del mondo
afona, senza tempo., pag. 77.

In questa poesia Claudia Piccinno opera una personificazione delle mani, attribuendo loro una “voce”. Si tratta, però, di una voce, non udibile, ma “eloquente”, perché la sua comunicazione avviene a un livello più profondo, non attraverso il suono, ma attraverso i gesti, il tocco, il lavoro e le cicatrici che raccontano una vita.
I versi evidenziano il valore dell’intimità, perché la “voce delle mani” non è per tutti. Non è un linguaggio pubblico, ma un’espressione silenziosa e privata che spesso sfugge all’osservazione superficiale. È una voce che può essere compresa solo da chi sa ascoltare con il cuore, e non solo con gli occhi o le orecchie. L’ultima coppia di versi rafforza questa idea di una comunicazione che trascende le convenzioni. “Afona” ribadisce l’assenza di suono, mentre “senza tempo” suggerisce che la storia raccontata dalle mani è universale ed eterna, non legata a un momento specifico, ma parte di un’esperienza umana condivisa.
Con questa poesia Claudia Piccino sembra quasi celebrare il potere espressivo del corpo, in particolare delle mani, come un linguaggio segreto e profondo che narra storie di vita, lavoro, affetti e dolore, in un modo più autentico e duraturo di qualsiasi parola pronunciata.
La prima parte della silloge, Conversando con Dio, lascia intravedere il senso profondo e multiforme del conversare con Dio. A differenza del “conversare con gli avi”, che è spesso metaforico e legato alla memoria storica, il dialogo con Dio si presenta come una pratica spirituale attiva, un legame diretto e personale che trascende il tempo e lo spazio che si dispiega nella preghiera, che è la forma più comune e universale di questa conversazione. Non è semplicemente un monologo in cui si chiede, ma un dialogo che include l’ascolto, la lode e la confessione.
In quel Conversando risuona tutta la fede di una donna che crede in un Dio che parla nella coscienza, dove il dialogo con Lui permette di esprimere pensieri, emozioni, dubbi e ringraziamenti senza filtri, nonché di cercare orientamento nelle decisioni difficili, di trovare conforto nei momenti di dolore e di ricevere forza per affrontare le sfide della vita.
Dalle poesie di Claudia Piccino emerge che credere in un dialogo con Dio riduce il senso di solitudine e di isolamento, fornendo un punto di riferimento stabile e immutabile in un mondo in continuo cambiamento; si tratta di un dialogo interiore e spirituale, considerato fondamentale per la crescita personale e morale e che aiuta a sviluppare virtù e a consolidare un’esperienza diretta e intima del sacro, rafforzando la fede e la fiducia in qualcosa di più grande di sé.
Tutto questo si trova espresso nella stupenda poesia Amami Dio, un testo attraversato da una universale patina teologica che parla di vulnerabilità, redenzione e del profondo bisogno dell’uomo di sentirsi amato e accettato per ciò che è veramente, senza maschere: la poetessa non chiede, infatti, di essere amata per le sue qualità, ma proprio per le sue fragilità e i suoi errori:

Amami nella mia imperfezione
e nei miei errori
amami nella misteriosa inquietudine
che si avviluppa alla mie radici.
Amami Dio
in ciò che ho di buono
e ancor più in ciò che ho sbagliato
liberami da un futuro remoto ingiusto e
immeritato.
Amami nella rabbia che non trasformo in
compassione,
nei gesti che ho frenato
per non oltrepassare la soglia verso la follia.
Amami e restituiscimi il candore di chi crede al
futuro,
amami perché io non perda lo stupore del presente.
Amami perché io faccia pace col passato.
Amami Dio
perché nella beatitudine del tuo infinito io riposerò, p. 23.

Analizzando il testo, la poetessa mette al centro l’accettazione dell’imperfezione, tant’è che menziona esplicitamente “l’imperfezione,” gli “errori” e indicando una profonda consapevolezza delle proprie mancanze; evoca la ricerca di pace interiore con immagini che richiamano la “misteriosa inquietudine,” la “rabbia” non trasformata in compassione, la liberazione da un “futuro remoto ingiusto e immeritato,” per ritrovare la fiducia nel futuro e lo “stupore del presente,” e per fare “pace con il passato.”: una richiesta, insomma, di equilibrio e armonia tra le diverse dimensioni della vita. La conclusione è un totale affidamento a Dio, con la speranza di trovare riposo e serenità nella sua “beatitudine infinita“; un atto di fede che riconosce la dipendenza da una forza superiore per superare le proprie battaglie.
Nella parte titolata Conversando con gli avi, la poetessa dà una forte testimonianza del senso che assume il conversare con gli avi, inteso come un modo per mantenere vivo il loro ricordo e la loro eredità. È un atto di memoria che la connette alle proprie radici, aiutandola a capire “chi è” e “da dove viene”; gli avi sono una parte fondamentale della storia personale e collettiva da cui proviene, e conversare con loro, anche in modo interiore, le permette di non disperdere esperienze, valori e lezioni necessari alla costruzione dell’identità.
Dalle poesie La lezione della storia, Zio Tore, Zia Lela, A mia nonna, Le mani della nonna, emerge che gli avi non sono solo un ricordo, ma figure che continuano a influenzare e guidare , e il conversare con loro, in questo senso, diventa per la Piccinno un modo per attingere a una saggezza che trascende il tempo e che si dispiega in una forma di auto-riflessione, così da divenire ispirazione creativa, come accade ad artisti, scrittori e musicisti i quali spesso si ispirano alle storie dei loro antenati, trasformando la loro esperienza in nuove forme d’arte. Per Claudia Piccinno, la conversazione con gli avi è un dialogo creativo che onora il passato e lo proietta nel futuro, è un modo per onorare la storia e rafforzare l’identità, trovando in essa ispirazione e una forma di arricchimento della vita interiore:

“…Zio Tore nascondeva in un cassetto
gli orrori visti e i valori traditi.
Zio Tore non sapeva leggere né scrivere
e camminava adagio
quando il riposo eterno
lo reclamò al suo viaggio”.(p.47);

“…Zia Lela coi dolcetti alle mandorle
Rito dei giorni di festa.
L’arcolaio, il fuso e il messale
E lei ritorna tra gli aromi perduti…” (p.49);

“…Amavi
Noi
Nipoti
A dismisura.

Amavi dirci:
Nessun altarino
Nelle vostre case, la luce
Arda nelle vostre vite! (p. 55).

Nell’ultima parte della raccolta, il dolore diventa il nucleo dell’ espressione artistica di Claudia Piccinno. Non si tratta di una fuga o di una semplice reazione emotiva, ma di un dialogo profondo e consapevole che trasforma un’esperienza personale in un atto creativo universale.
La poetessa offre il senso e il significato del dialogo col dolore. Conversando con esso, riesce a dare ordine al caos interiore, distillando l’emozione pura in metafore, immagini e ritmi che la rendano comprensibile non solo a sé stessa, ma anche agli altri. Questo processo non elimina il dolore, ma lo eleva a un piano superiore, trasformandolo da esperienza distruttiva a fonte di creazione.
Dai versi emerge infatti che parlare col dolore significa riconoscerne l’esistenza e accettarlo come parte integrante della vita; invece di respingerlo, la poetessa lo accoglie, lo interroga e lo ascolta, e questo suo atto di accoglienza diventa fondamentale per il processo di guarigione, che non consiste nel dimenticare, ma nel comprendere e integrare la sofferenza nel proprio percorso esistenziale:

Esplode di notte il dolore
quando non puoi
mentire a te stesso.
Brucia una voragine al centro del petto.
E’ l’urlo della tigre in gabbia
la ferita che si riapre., p. 67.

I versi nati da questo dialogo col dolore non sono solo un’espressione personale, ma un ponte verso gli altri. Sono in molti a provare dolore, ma pochi sanno dargli voce. La poetessa, esprimendo la sua esperienza in modo onesto e vulnerabile, offre ai lettori un senso di condivisione e connessione. Chi legge i suoi versi può sentirsi meno solo, riconoscendo le proprie sofferenze nei versi altrui. Il dolore individuale diventa così un’esperienza collettiva, un’umanità condivisa che unisce le persone.
Claudia Piccinno riesce, nell’ultima parte della raccolta Conversando col dolore, a compiere veramente un’operazione alchemica: trasmutare il piombo della sofferenza in oro dell’arte, offrendo un’interpretazione della realtà che è al contempo profondamente personale e universalmente toccante.
Concludendo, possiamo senza dubbio affermare che la struttura cosmico-esistenziale in cui si articola e si muove l’inquadratura logica, organica e concettuale di questa bella silloge di Claudia Piccinno, avvolge il lettore nella conversazione contemplativa di una poesia che procede a blocchi di intensità lirica di immagini, senza cedere a facili sentimentalismi, né a calcoli filosofici, né a drastica moralità, ma rivelandosi sempre proiezione piena di una coscienza poetica aperta all’avventura della parola innestata alla geografia dell’anima ed alla fisicità delle cose.

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