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Shirin Ebadi a Pordenonelegge: «Non bisogna perdere la speranza» di Giannino Ruzza

Tempo di lettura: 2 minuti

foto: copyright Giannino Ruzza

Nel silenzio raccolto della sala dell’Hotel Moderno, alle 16.30, la voce di Shirin Ebadi, premio Nobel per la Pace, ha rotto l’attesa con un’esortazione semplice e radicale: “Non bisogna perdere la speranza”. È stato questo il primo messaggio che l’avvocatessa iraniana ha voluto consegnare ai giovani connazionali e agli italiani presenti a Pordenonelegge, quasi fosse un filo sottile ma tenace che unisce chi lotta dentro e chi osserva da fuori.

Con tono fermo e parole taglienti, Ebadi – esule da nove anni in Gran Bretagna, più volte minacciata di morte ha denunciato l’orrore quotidiano del regime iraniano: tre impiccagioni al giorno, spesso in piazza, davanti a tutti, per “insegnare la paura”. Ha raccontato di dieci uomini messi al patibolo con l’accusa di spionaggio, “una menzogna costruita a tavolino, solo per soffocare il dissenso”. «In Iran – ha aggiunto – più il regime si sente fragile, più diventa feroce».

Nella sua analisi, il potere di Teheran non è quello che ostenta: “Non è così forte come cerca di far credere”. La vera arma, secondo la Nobel, resta il petrolio: “Quando riescono a venderlo, anche di contrabbando, con quei soldi finanziano Hezbollah in Libano e gli Houthi in Yemen. Bisogna indebolirli economicamente, impedire che il petrolio arrivi sui mercati”.

Eppure, paradossalmente, l’Iran oggi appare isolato. “La Cina non vuole sporcarsi le mani nei conflitti: preferisce indossare la maschera del pacifismo. La Russia è già logorata dalla guerra in Ucraina. Per questo il regime si trova sol, più debole che mai”, ha osservato Ebadi, lasciando intravedere uno spiraglio di cambiamento.

Mentre il presidente di Pordenonelegge Michelangelo Agrusti ha raccolto e rilanciato il messaggio, con una riflessione che non ha risparmiato l’Europa: “Siamo deboli perché davanti al petrolio arretriamo sempre, e mettiamo in secondo piano i diritti umani”. Infine, Agrusti ha aperto una finestra sul passato prossimo, ricordando Aleppo: “Lì, dove il desiderio di libertà aveva iniziato a germogliare, sono state massacrate cinquecentomila persone, tra arabi e curdi. Se l’Iran non avesse sostenuto Hezbollah con armi e rifornimenti, quella carneficina non avrebbe avuto quella portata”.

La Nobel ha concluso il suo intervento con una convinzione netta: “Alla fine il regime cadrà”, grazie soprattutto alla spinta coraggiosa dell’opposizione interna e degli attivisti.

E a chi le ha chiesto quale contributo possa dare l’Europa, la risposta è stata altrettanto dura: “L’Italia si è mostrata accondiscendente verso Teheran. Basti ricordare la visita a Roma dell’allora presidente Rohani, quando si arrivò perfino a coprire le statue dei Musei Capitolini per rispetto ai principi religiosi dell’Islam. Un gesto che ha messo l’arte in ginocchio”.

Le sue parole, scandite senza mai cedere alla retorica, hanno lasciato in sala una traccia forte: quella di una donna che – nonostante l’esilio, le minacce, l’isolamento – continua a credere che, anche nel buio più fitto, la speranza resti un dovere.

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