Un romanzo avvincente, ricco di affetti e di passioni, di fatti drammatici e in alcuni casi anche ripugnanti, brioso e scorrevole, tematico e problematico, quello che la scrittrice catanese Annamaria Zizza ha recentemente dato alle stampe con il titolo “La dolciera siciliana”, Marlin editore.
La scrittrice, che è una figura con un retaggio culturale immerso in una esperienza scrittoria matura e che si è già espressa con due romanzi di ambientazione egittologica: “Lo scriba e il faraone” e “La regina di Tebe”, porta sulle pagine del suo nuovo romanzo una storia complessa nella quale “una vita distrutta” a causa di uno stupro subito, diventa lo “scatto motivazionale” per non arrendersi e guardare avanti verso una “vita da ricostruire”, non rassegnandosi al male ma combattendo con la tutta la fede che la anima: fede in Dio, fede in se stessa, fede in quella parte di umanità sensibile al dolore altrui. Maria sa ricostruirsi, come hanno saputo fare i siciliani dopo il devastante terremoto del 1693, ricostruendo palazzi e case e rapporti sfilacciati o inesistenti. Maria, insomma, impara soprattutto dalle sconfitte, dalle lacrime versate.
Il romanzo ripercorre versanti polimorfici caratterizzati da eventi che lasciano il lettore con il fiato sospeso immergendolo nella complessità di un’esistenza, quella della protagonista Maria, avvolta in un climax dai toni variegati e via via sempre più intensi. Il romanzo si è fatto apprezzare molto in un giro di presentazioni, e sta suscitando un senso di curiosità e di gradevolezza dettato sia dalla carica emotiva ed affettiva presente nella storia narrata, sia dall’agile estro narratologico dell’autrice.
Ci troviamo, infatti, di fronte ad un romanzo storico che si offre come “letteratura d’umanità e della memoria”, e che ruota attorno a scenari incastonati in vicende e accadimenti che toccano le città siciliane di Modica e Catania, e Milano, e anche letteratura e architettura. Nella città di Modica è ambientata parte della storia della protagonista Maria, un’orfana di dodici anni che nella prima metà del settecento fugge dal Reclusorio del Santissimo Rosario. Vittima di uno stupro, Tommaso Campailla, medico e filosofo, si prende cura della ragazzina accogliendola in casa propria come “criata”, lemma siciliano che indica la domestica. Lei diventerà una bravissima dolciera. Alla morte del suo padrone, viene licenziata. Parte per Catania, travestita da uomo, per prestare servizio come cuoco nel Palazzo della principessa di Valguarnera. Sempre a Catania incontra il giovane poeta lombardo, Giuseppe Ripetti, precettore e ospite del principe Vincenzo di Valguarnera.
Il libro, già nel titolo, offre una dichiarazione di semantica narrativa: c’è, infatti, una sorta di interrelazione tra la protagonista Maria e la sua attività di dolciera in una città come Modica, la quale, ancora oggi, rifulge , fra l’altro, di una rappresentatività e simbologia nel campo dolciario. L’ex capitale della Contea è infatti nota per l’emblematico cioccolato e per quel patrimonio dolciario fatto di “‘mpanatigghi” ( ravioli dolci farciti di carne trita, cioccolata, zucchero e aromi), di “cutugnata” (marmellata asciutta di cotogne), di “citrata o aranciata” (bucce dei rispettivi frutti , ridotte a fiammiferi e cotte nel miele fino a durezza); ed ancora di “Cubbaita (suo sinonimo ggiuggiulena) di croccati di semi di sesamo cotti nel miele”, e di “nfrigghiulati”, polpettine di ricotta , uova, zucchero e farina, fritte nell’olio e bagnate di miele. La scelta della scrittrice di ambientare a Modica la sua storia è pertanto davvero encomiabile.
I trentasette capitoli del volume conducono per mano il lettore per entrare nella vicenda di Maria, questa “criata”, donna di servizio, passata attraverso la prova della malattia, guarita grazie alle cure di Campailla, e che da Modica si trasferirà a Catania, dove l’aspetta un’altra storia da vivere in una città che odora di fogne, di popolo e di pesce, ma anche di gelsomino, di alghe di mare sbattute sulla roccia nera, di essenze di zagare nei decolleté delle dame e di cannella, anche qui, di zucchero e di mandorle, di dolci consumati nei sontuosi pranzi e nelle colazioni e nelle feste che a casa dei principi di Valguarnera erano un rito frequente.
Annamaria Zizza disegna, attraverso la storia di dolore e di rinascita di Maria , il pentagramma di una narrazione letteraria che si essenzializza in fatti, episodi, esperienze, ricordi che evidenziano il piglio creativo ed inventivo dell’autrice, la quale riesce a situare i suoi personaggi in significativi luoghi ora di Milano, ora di Catania, ora di Modica, come, ad esempio, il Sifilicomio dell’ex Capitale della Contea intitolato a Tommaso Campailla e il Palazzo della Principessa di Valguarnera a Catania.
Fatti e storie raccontati fanno entrare il lettore nei diversi livelli del romanzo: quello storico-antropologico, quello letterario e quello etico- sapienziale, i quali convergono nell’unità di una narrazione di alto valore letterario ove la “storia di vita” narrata con forte carica di “humanitas”, disegna una sorta di prosopografia “dal basso” distribuita su accadimenti articolati sia su momenti soggettivi che su momenti comunitari, e con un sfondo di memoria territoriale: la vita in famiglia, i rapporti tra uomini e donne, gli approcci amorosi, le passioni, i riti nobiliari e religiosi, le metamorfosi, gli scambi verbali e le risonanze della bellezza dei luoghi.
In Maria, protagonista de La dolciera siciliana, è simboleggiata una categoria esistenziale che è quella delle reiette, delle emarginate di tanta letteratura, anche d’appendice, che hanno il pregio di essere aperte al cambiamento, ad una vita potenzialmente nuova e non condizionata, se non dallo stigma della nascita e, nel caso di Maria, anche dello stupro e della sifilide contratta a seguito della violenza. La sua rinascita passerà dai dolci e dai libri di medicina. Sta qui una lezione etico-sapienziale che ci viene dal romanzo.
La capacità di Annamaria Zizza di tradurre in sequenze letterarie le storie che ella narra, mette il lettore di fronte al quadro di una determinata epoca storica documentata attraverso l’ accesso agli archivi, e crea, nel contempo, “un repertorio di avvenimenti e di personaggi”: Maria, Tommaso Campailla, Antonia, Raffaele, Rosa, Giuseppe, Gesualdina, Giacinto, don Giacomo Appiapi, Lucia, Cristoforo, don Martino Pedrotti, Angioletta, Gaspare Cannata, Sua Eccellenza Giuseppe De Santis, Padre Giuseppe Drago, Girolama Lorefice, Francesco Matarazzo e tanti, tanti altri ancora. La scrittrice, altresì, ricorre alla forza evocativa del racconto, degli aneddoti, dei luoghi cogliendo le antinomie dell’esistenza, le credenze, le relazioni sociali, i linguaggi della comunicazione, degli affetti, del sospetto, della curiosità, della diffidenza, del sogno, (tutte dinamiche a-temporali), non isolandole dal loro contesto ma recuperandole, invece, nella loro attualità e dimensione semantica.
Il romanzo, così, ci immerge in un’ ambientazione calda, genuina e in cui si respira un’atmosfera fatta di dialoghi, arguzie, ammiccamenti e varie scene di vita:
– “…i maggiorenti del paese e soprattutto le donne che occhieggiavano fuori dalla carrozza e che uscivano da San Pietro, da Santa Maria di Beltem, dove si custodiva un cappello della Vergine Maria o dal Carmine alla messa dell’ora terza;
– Maria che “…Saliva spesso sulla terrazza grande perché le piaceva guardare il cielo da lassù e la città che sonnecchiava , le finestre e i portoni chiusi, e le scale, le tante scale, che si inerpicavano e sembravano non finire mai, sospese nell’aria…” (p.73);
-“ …Francesco Matarazzo in parrucca e veste talare pareva al punto di svenire, ancora sulle scale del palazzo. Ansimava forte trascinando la sua mole…” (p.105);
-“…Tutte le famiglie che contavano a Catania erano raccolte sui palchi montati vicino alla mole possente del Monastero: dame ingioiellate come per una prima di teatro, gentiluomini imparruccati e profumati, mises all’ultima modo, e caldo umido portato dal mare che i ventagli non riuscivano a scacciare…Uno scenario favoloso per Maria , che a Modica non aveva mai visto queste scene, questa ricchezza sbattuta in faccia, questa macchina così organizzata…”(p.182).
La scelta dei personaggi non presenta forzature o coloriture, ma si staglia in modo naturale nel tessuto ambientale del romanzo, puntando su figure che interpretano ciò che la fantasia letteraria della scrittrice riesce ad organizzare per offrire ai lettori messaggi e spunti di riflessione. Molto abile risulta la mano della Zizza nello schizzare i suoi personaggi e la protagonista dell’opera:
-“ I nobili sono strani. Ma tu non li contraddire mai e vedrai che non ti accadrà niente. Sempre devi dire Voscenza, bacio le mani. Ricordatelo Maria…” (pp.79-80);
-“…A volte si guardava allo specchio della toletta, che le rimandava la sua immagine di criata, e immaginava di essere un’altra, una signorinetta raffinata che sorseggiava cioccolata delle Indie” (p.81);
– “E così Maria aveva capito di avere contratto la sifilide durante quella violenza. E che quell’uomo che le aveva rovinato la vita l’avrebbe condannata ad una morte certa e dolorosa…”(p. 120);
-“ E però, cara donna Aurelia, non possiamo dimenticare l’amore che Nostro Signore dedicò alle creature deprivate di tutto. I poveri, gli umili, gli oppressi…Quelli che il nostro monastero caritatevolmente beneficia ogni giorno di ogni ben di Dio.” (p. 158);
-“ Maria aveva lavorato per ore per preparare i dolci per il pranzo…Qui non era come a casa Campailla…Qui a Catania dai Valguarnera il lavoro era a ciclo continuo…Era ormai a Catania da alcuni anni, ma il suo cuore era rimasto a Modica…”(p.164);
-“ Maria in quegli anni di permanenza a Catania aveva imparato ad amare alcuni luoghi che le davano serenità che negli ultimi tempi non riusciva a trovare. La Badia di Sant’Agata …era una di questi. Si sedeva a pregare quando finiva la messa e il prete andava in sacrestia per togliersi i paramenti sacri…”(p.231);
-“…Maria da giorni lavorava a pieno ritmo, come le accadeva quando era in sovrappensiero… cercava di non pensare a Giuseppe e a quanto le mancasse la sua presenza, il suo sguardo puntato addosso che pareva mangiarsela, il suo corpo…Ogni tanto il suo corpo era attraversato da un languore che aveva il sapore di sensi risvegliati, di baci dati e ricevuti che sentiva sulle labbra e che non se ne sarebbero andati più…”(p.237).
Ciò che piace di questo romanzo è anche la capacità di Annamaria Zizza di operare una osmosi tra storia, immaginazione e creatività letteraria, facendo risaltare situazioni di arguzia, di sentimenti passionali, di rigidità mentale, di vizi e di virtù dell’ethos di uomini e donne all’interno della loro cultura, e facendo ricorso anche ad efficaci lemmi in lingua siciliana: “Bidduzza, comu stai?”; “Voscenza”; “zaccaniava”; “Madonnuzza”; “fimminazze”; “buttana”; “maidda”; “masculi”; “streusu”; “causi”; “fintenti”; “musca cavaddina”; “Iamu, scinni àiu rittu”; “scupittuni”; “lastimi”; “A sira va a caccia”; “picciuttedda”; “scarmigghiate”; “mavarìa d’amuri”; “assuppa viddanu”; “‘ntrunatu”.
Il linguaggio, che si snoda sul modello quasi parlato della conversazione amichevole e familiare, si muove dentro un universo sapienziale risultando attraversato da spinte motivazionali e atmosfere ispirate alla condizione culturale e ambientale dei personaggi stessi.
Il romanzo di Annamaria Zizza in tal modo diventa nel contempo “racconto e documento”, e piace perché ricco di fascino e attrattiva, e perché offre tante dimensioni metanarrative che scorrono nel fiume di una fluida narrazione: la sofferenza, il dramma, il sogno, l’attesa, il bisogno, la rassegnazione, il cinismo, l’ipocrisia, la delusione, la speranza.
E così, racconto e documento, analisi e metalinguaggio diventano il binario del cammino di una coscienza critica, quella dell’autrice, capace, da una parte, di leggere la realtà e, dall’altra, di farla uscire dalla tentazione della manipolazione.
Hominem pagina nostra sapit diceva Marziale in un suo epigramma: ebbene, il romanzo di Annamaria Zizza ha “sapore di umanità”, umanità incarnata in una data terra, in un dato luogo, in una data storia, che – come direbbe Gesualdo Bufalino – “ non è solo quella conservata negli annali del sangue e della forza; bensì quella legata al luogo, all’ambiente fisico e umano in cui ciascuno di noi è stato educato. Storia è il gesto con cui si intride il pane nella madia o si falcia il grano; storia è un nomignolo fulmineo, un proverbio cattivante, l’inflessione d’una voce, la sagoma di una tegola, il ritornello d’una canzone; tutto ciò, infine, che reca lo stemma del lavoro e della fantasia dell’uomo”.
Nella umanità e nella forza di Maria c’è il simbolo di una condizione femminile che affronta la realtà, c’è il riscatto, c’è la consapevolezza di una donna che non ha bisogno di slogan per ricostruire la propria esistenza; la donna che incarna un’ idea, un’ essenza che esiste in Dio sin dall’eternità; la donna che con la sua volontà e dedizione si libera del fardello che ha frantumato la sua vita; la donna che sa cogliere i “segni”, espressione di un disegno provvidenziale, e per questo, nonostante i momenti di sconforto, riesce a risollevarsi dalle situazioni più buie; la donna che ha un talento che progressivamente si rivela; la donna che passa dalla sconfitta alla salvezza.
Maria è la donna silenziosa, di poche parole, che si esprime con i dolci, che ha connotati salvifici; è quasi una Beatrice che però cede all’amore, che si nutre di impasti, di profumi, di spezie. E con questi si fonde, diventando tutt’uno.