La poesia della romana Pamela Petrolati… di Domenico Pisana

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Una giustificata quanto matura tensione interiore protesa a cogliere il sovrasensibile e ad entrare nel segreto delle cose, appare al lettore la silloge Lo stato del mai, Edizioni Venaplus, 2022, di Elisabetta Pamela Petrolati. La poetessa romana, docente di scuola primaria, laureata in sociologia, e con altre raccolte poetiche alle spalle: Come per immagini (2019); Tracce di senso(2019), si cimenta in un percorso lirico ove la forte componente introspettiva e il “credo” nei valori perenni dell’umano e del divino aleggiano nelle pagine del volume.
Il titolo della raccolta è suggestivo, evocativo e dichiarativo di un sentire poetico vero di vita, segnato da una geografia di immagini. Il “mai” utilizzato dalla poetessa fa pensare al Petrarca che nel suo Canzoniere scrive “sospirar mai sempre”; ci ricorda i due celebri versi foscoliani che aprono la poesia A Zacinto, “Ne mai toccherò le sacre sponde / ove il mio corpo fanciulletto giacque”; ci riporta a Leopardi che, nello Zibaldone, scrive: “l’orrore e il timore che l’uomo ha, per una parte, del nulla, per l’altra, dell’eterno, si manifesta da per tutto, e quel mai più non si può udire senza un certo senso” ; ci fa venire in mente Jaques Prévert, che nella sua poesia dal titolo “Au grand jamais” – traducibile appunto come “Mai più” – essenzializza in una breve strofa il rapporto antinomico tra questi due concetti al contempo speculari, così tanto abusati in amore: “In piena notte all’alba /mai più per sempre /io ti amerò”. Ci ricorda, infine, Borges, che la stessa Petrolati cita nella sua introduzione, quando afferma che “non c’è altro enigma che quello del tempo, quell’infinita trama dell’ieri, dell’oggi, dell’avvenire, del sempre e del mai”.
Nella silloge poetica Lo stato del mai, c’è l’oggettivazione di una persistenza figurativa che mette in circolarità ermeneutica il passato, il presente e il futuro, e nella quale la vita, per la poetessa, non è retorica evasione dal reale, ma riflessione sui suoi accadimenti esperienziali, è sintonia con l’Eterno, proiezione del vissuto nei valori che allargano i confini del tempo in un arcobaleno di religiosità, fonte di attese e di fremiti verso cicli e orizzonti nuovi nei quali si dispiega un “velo” ove è disegnato il volto di un amore richiamato nella dedica del libro, totalizzando, nella sua iterazione di nessi, il senso del volume e la sua forza sintagmatica:

In un giorno senza tempo,
ti verrò incontro.
Alzerai il capo dal libro
che sfogli
e ti volterai verso di me.
In un giorno senza tempo
mi dirai:
-Non ti vedo da cinque
minuti e già mi manchi.
Il tuo sorriso
oltrepasserà ogni velo
e mi verrai incontro,
in un giorno senza tempo.
(Il velo)

Ciò che piace di questo volume è “l’energia simpatica” ( si badi all’etimo greco: syn – con, insieme, e pathos – passione, sentire) della parola, che rileva gli stati emozionali, e che si offre come spinta a una interpretazione amorosa di tutto il repertorio delle immagini, in cui si misura la diversa osservabilità della poetessa: “il filo vellutato sottile delicato”, la “voce”, il “bacio”, “l’abbraccio” , “le mani”, “gli occhi”, “nottate di calcoli”, “sassi, pensieri, nuvole, righe scritte”, “ricordi”, “desideri”, etc..costituiscono il mosaico di episodi che bagnano d’incontri la versificazione, poggiata sul senso d’una scelta e sul destino di un momento d’amore. E, così, la poesia de “Lo stato del mai” cammina fino al sorriso del cuore, che è come la brezza del lago trafitto dall’alba.
L’anima di Elisabetta Pamela Petrolati si meraviglia e diventa sequenza di similitudini, si arrampica, come l’edera, alle pareti di una narrazione infittita dell’opaco affanno della dimensione e delle variabilità. E il suo colloquio con il “tu” è, di volta in volta, dimostrativo o anagogico, chiomato delle parole indispensabili che, pegno d’entusiasmi, diventano un lungo segno di tenerezza nell’avventura dei ricordi o del bisbiglìo del tempo:

“…Viviamo lontananze parallele
(attenti a non sviarne l’attenzione all’infinito),
nel pagliaio del disegno universale
cerchiamo l’ago che cucirà, punto a punto,
i lembi delle nostre dilacerate vite
alfine pronte all’agognato travaso…”
(Distinti e uguali)

“…Sono l’ennesima Penelope
che tesse e disfa
i giorni della sua vita
affidando l’attesa all’unico
sentimento che sia per me casa…”
(Contare lento di dita)

“… Pesco le tue parole con le dita
una qua, una là,
sfuggono, le ripesco
ed è tutto uno zampillare
di giochi d’acqua…”
(Sciocche parole)

Il senso delle liriche di questa silloge è tutto nella “verità dell’esperienza”, nella coscienza del “vissuto” della poetessa, la quale, nella preminenza dell’empito espressivo fatto di immagini e riflessioni, porta sulla pagina una poesia realistica, non viziata da elaborazioni alchemiche; una poesia attraversata da riferimenti memoriali, dipanata nello sviluppo di panorami del cuore, di piccole esperienze che pulsano di brevi segni e profili, che definiscono il disegno d’un paesaggio d’affetti.
Una poesia, insomma, ricca di implicazioni d’anima, che riesce ad allargarsi, pur toccando il privato, fino a raggiungere i confini dell’universalità. Il tema del tempo che passa, tema sempre presente nella letteratura di ogni epoca, è avvertito da Elisabetta Pamela Petrolati con intensità dolorosa e trasfigurato con grande sobrietà dì linguaggio:

“…Ti vedo lontano nel tempo
quando tu, in quell’immagine
di ragazzo per sempre,
mi osservavi nel mio muovermi
e nel mio parlare e, spietato,
mi lasciavi nuda a me stessa…
(Sempre ti vedo, sempre mi vedi)

“…Tra passato e presente
il mio corpo freme
rispettando
l’antico presagio…”
(Arabeschi e damascati)

“…Nel tempo della lontananza
scricchiolano i pensieri sotto
il peso dell’irrealizzato,
fatto di mosse scaltre
a fuggire ogni
ragionevole compimento…”
(Ad un passo da qui)

“…Complice mi è questa opera
ad ingannar il tempo:
il più crudele proco…”
(Contare lento di dita)

Un tenue e delicato canto d’amore si eleva dunque da questa raccolta, alla radice della quale c’è una profonda spiritualità, c’è un leggere il mistero della vita e la bellezza dell’amore alla luce dei suoi valori eterni. La poetessa entra in campo nei suoi versi con immediatezza connotativa, con l’ansia di sempre nuove emozioni, non cedendo mai a schemi di evasione idilliaca, ma offrendo le note d’una musica interiore o mesta o amara, o serena o gioiosa, ma sempre palpitata di sicura educazione e formazione etica ed estetica.
Elisabetta Petrolati sa che l’amore è un viaggio travagliato, ma sa anche che, se vissuto in modo autentico, esso diventa “miracolo” (p.17), un essere “uno in uno” (p.45), “bacio /che si scioglierà nell’etere” (p.54), “lacrime che colpiscono” gli occhi “come la pioggia” i vetri” (p. 81).
Tra i componimenti della raccolta, ce ne sono alcuni che esprimono molto, a nostro avviso, il senso dell’amore nelle sue componenti naturalistiche e nelle sue radici eziologiche; portano il titolo “Amo”, “Mia madre”, “A mio padre”, “Mia sorella, “Alle mie figlie“.
La poesia Amo è un dialogo stupendo con l’usignolo mentre canta “odi alla luna / e il ragno tesse la ragnatela”; la poetessa rivela di amare le melodie dell’usignolo, ma al contempo ha dubbi interiori e, così, pone domande al volatile per conoscere il senso dei suoi canti: “sono forse voce /delle ignare vittime del buio /e delle trasparenti trame? / O sono forse i tuoi virtuosismi / anch’essi invisibile tela / ricamata nell’aria /spoglia e nuda, / intreccio di filo e canto, / raggio e ramo?”
La poesia Mia madre è un testo ove i filmati della memoria fanno riassaporare alla poetessa il rapporto affettivo con la madre (“Ti vedo ancora oggi, sulla linea del tempo, /ragazza muta in un mondo di voci.”), una donna silenziosa sul cui volto si alternano “tristi pensieri, sogni, attese e pianti”; una donna di fede (“Forse pregasti un giorno / Gesù, Giuseppe , Maria / guardate anche me, salvate l’anima mia”) rimasta nel cuore dell’autrice come “stella, divina: / Diva, infatti, il tuo nome”, dichiara l’autrice.
I toni affettivi si posano anche sulla sorella, rievocata come “custode”, “tabernacolo” , mentre le figlie sono descritte come “tre rose sgorganti /dal ceppo fiero”, “compatte e perfette”; intenso anche lo sguardo sul  padre evocato per l’ educazione “all’antica”: “..Padre mio, così ti chiamerò, sì, perché all’antica mi hai cresciuta,/ sappi che i tuoi segni fanno tremare / le mie gambe e le foglie delle viti/ tra le quali correvi da bambino…”
Elisabetta Pamela Petrolati si giova di approcci essenziali e diretti che approdano spesso a versi impostati come sentenza: “…A volte il tuo amore mi consola, a volte no…”(p.164); Te lo meritavi un / amore così, /carico degli amori / di tutti i tempi,/ libero e potente / come Dio…”(p. 156); “Non ci sarà mai più qualcosa / che assomigli a te e a me…”(p.148).
Anche se profondamente allusivo nello slancio lirico, la poesia della Petrolati si fa sublimazione del silenzio e silenzio di riflessione, dove diventa evidente che ella ha elevato il suo sguardo al di sopra delle miserie (“…Vani i tentativi /di raggiungere / la riva dei tuoi pensieri, / che, come esuli in terra straniera, / rimangono sordi / ai richiami dei miei…”, in Incomunicabilità) e delle fatue beghe della quotidianità, per fissarsi in qualcosa che investe la sfera della reciprocità nella sua essenza e che riguarda il suo stesso esistere; ed è questo che la fa poetessa, mettersi cioè in relazione creativa con la scrittura, con la quale trova il modo di dare voce ad una sua humanitas, ad una sua elaborazione di vissuti che toccano il cuore, così da farle dire – prendendo a prestito Shakespeare – “La ricchezza del mio cuore è infinita come il mare, così profondo il mio amore: più te ne do, più ne ho, perché entrambi sono infiniti”.
Elisabetta Pamela Petrolati abbraccia, nel suo “stato del mai”, la sua vicenda umana per sentirla nella sua espressione più vera, e la richiama nel fremito delle sue domande, sotto il pergolato delle sue riflessioni. Ella disegna il verso col prezzo del cuore, quando la sua anima è stanca degli inverni che la invadono. Perché la vita va capita nelle sue assurdità; e se fa male l’insistenza degli interrogativi senza risposte, a risvegliare uno squarcio d’orizzonte basta la leggenda d’aria che narra la perenne danza delle speranze.
E così, i versi di questa silloge indugiano negli incavi del cuore della poetessa e s’acquietano, scelgono un codice eloquiale che provoca una liberazione semantica che dà il vero senso degli episodi in cui fioriscono le mille variazioni delle trame: la parola poetica parla quando illumina di interpretazioni e suggerimenti l’inquietudine dei naufragi interiori o dei voli ubriachi d’aria. Non c’è asciuttezza lessicale nella versificazione, ma una sottile immediatezza di impressioni; la parola s’impingua di commozione e incanto e porta nei luoghi delle pensosità una fioritura ritmica che nobilita le occasionalità.
Lo stato del mai, per concludere, è l’universo di una relazione di armonie e disarmonie, dove vi è sempre un po’ di ragione, un rifiuto ragionato, ma resta sempre un po’ di passione. Gli istanti poetici fissati sulla pagina sono la coscienza d’una ambivalenza attiva e dinamica, ed obbligano l’essere a valorizzarsi o a svalorizzarsi. Nel “mai” di Elisabetta Pamela Petrolati, l’essere “sale o discende”, senza accettare il tempo del mondo che ricondurrebbe l’ambivalenza all’antitesi, il simultaneo al successivo; il suo “mai” stabilisce una sorta di scontro analogico tra il fluire del tempo e “l’istante” come luogo di senso; fa trasalire dagli attimi quotidiani un logos che si fa giudizio e scavo dell’esistenza umana, proiettata , mediante un legame tra parola e sentimento, nell’orizzonte di una “sete d’infinito” cui anela l’anima:

“…Me lo meritavo, io,
un amore così,
che fosse specchio
in cui vedermi bella,
o sarei annegata
nella mia sete
d’infinito
e sarei rimasta
anima errante
a cercarti
alla luce pietosa
delle stelle.
(Un amore così)

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