
A Bakhmut i combattimenti sono a un punto di stallo e le perdite, da entrambe le parti, sono ingenti, superiori tra i mercenari della Wagner. L’esercito russo è a corto di munizioni e artiglieria per continuare l’offensiva a sud e a est. Kyiv sta ricevendo carri armati batterie di missili e droni a lungo raggio da Stati Uniti, Germania e Francia e si prepara alla controffensiva. Zelensky è ottimista, Putin preoccupato. Ha ammesso che le sanzioni peseranno e anche la situazione interna, che va ad aggiungersi all’isolamento sul piano internazionale, desta apprensione. Domenica 2 aprile a San Pietroburgo, in un locale di proprietà di Prigozhin, uno street food bar, il noto blogger nonché comandante militare Vladen Tatarsky e influencer del genocidio ucraino, è morto in un attentato. E’ stata fermata la donna che aveva consegnato al blogger una statuetta contente esplosivo, la quale avrebbe legami con Alexei Navalny, l’oppositore russo confinato in una colonia penale perché accusato di terrorismo. In attesa di chiarimenti, Mosca ha attribuito agli ucraini la responsabilità dell’attentato, mentre Prigozhin ha dichiarato che Kyiv non c’entra, schierandosi apertamente contro la linea del Cremlino e avvalorando il sospetto di una lotta di potere interna. I servizi britannici parlano di terrorismo come strumento politico di un gruppo di oltranzisti russi che avrebbero voluto iniziare la guerra nel 2014 e oggi accusano quelli che ritengono essere i colpevoli del fallimento militare. Nella lista degli incriminati ci sono nomi di persone molto vicine a Putin e ai sostenitori delle sue scelte, tra cui il ministro della Difesa Shoigu di cui pretendono il licenziamento. Mosca preferisce ovviamente la versione che tiene fuori il suo capo ed enfatizza il pericolo proveniente dall’esterno, alzando così il livello di paura, alibi utilizzato dai regimi per spostare le cause dei problemi a fantomatici nemici esterni. Bisognerebbe rileggere Orwell o leggerlo per la prima volta per capire l’essenza di un regime. Putin, il freddo e disumano mandante delle atrocità in Ucraina, rispecchia perfettamente la psicologia dell’autocrate e le sue ossessioni. Dopo l’attentato, ha fatto immediatamente installare sistemi antimissile vicino alle sue residenze, un po’ per fini propagandistici, un po’ cedendo agli incubi alimentati dai video dell’uccisione di Gheddafi che pare lo zar guardi con frequenza insolita. Ma nonostante in Donbas i russi abbiano uno scarso controllo delle regioni annesse, l’operazione speciale deve continuare. Per Mosca la strategia è accumulare uomini. Putin ha recentemente firmato un decreto per la campagna di coscrizione di primavera. Saranno chiamati 147.000 cittadini tra i 18 e i 27 anni al servizio militare che si concluderà a metà luglio. Mosca vorrebbe reclutare 400.000 soldati e aggirare il dissenso spacciando la cosa come “volontariato”. Un conflitto che si prolunga presenta un conto altissimo: tanti morti, la necessità di una quantità inesauribile di armi, la sottrazione al mercato del lavoro di giovani uomini, le ondate migratorie di persone che hanno lasciato il paese per trasferirsi dove sperare nel futuro è possibile. Sono complessivamente 600mila, dall’inizio della guerra, gli uomini sottratti al lavoro. Un fatto destinato a incidere sulla stabilità economica e sociale del paese. Ma c’è anche la questione delle armi che il Cremlino deve affrontare e con le armi quella delle alleanze. La più affidabile è quella con Lukashenka, che ospiterà nel suo paese armi russe e depositi per ordigni tattici nucleari, come ha pomposamente annunciato Putin. Il bielorusso non può dimenticare che se ha conservato il suo posto di dittatore a Minsk non è grazie all’amore del suo popolo ma a Putin. Tuttavia, nel farsi magazziniere del Cremlino, non rinuncia, en passant, a farsi messaggero di pace: “Dobbiamo fermare la guerra prima che diventi un’escalation”. Bravo. Peccato che la frase riveli lo sgomento personale nel caso il suo datore di lavoro gli chiedesse di inviare i suoi soldati in Ucraina. Ma è pur vero che a cosa servono i depositi se mancano le armi? A questo pensano gli altri alleati di Mosca per i quali la guerra in Ucraina è una benedizione. Da Pyongyang partono munizioni e altri armamenti militari alla volta di Mosca, e da Mosca risorse alimentari e soldi alla volta di Pyongyang, dove i coreani messi a dieta da Kim aspettano razioni di cibo per poter sopravvivere. E’ noto che i regimi illiberali preferiscono affamare i loro popoli per investire in arsenali bellici e nella Difesa, che è soprattutto difesa del regime che teme rivolte interne sapendo di avere la coscienza sporca. E per rimanere in tema, c’è un altro paese che trae vantaggi dalla guerra. E’ la Repubblica islamica dell’Iran. Con un’economia devastata e rivolte popolari a intermittenza soffocate con brutalità, i perfidi ayatollah sono ben lieti di fornire a Mosca droni e missili per ricevere in cambio soldi e alimenti, augurandosi pure che l’attenzione dell’Occidente alla guerra distolga dall’interesse al suo programma nucleare sotterrato e sparso su diversi siti, a prova di distruzione da parte di Israele. Anche la teocrazia iraniana è riconoscente ai latrati della Nato, causa dell’invasione russa a scopo autodifensivo, la fandonia che mette d’accordo i regimi e fa da cemento alle alleanze che nascono per necessità.