
Tra i Paesi più avanzati civilmente, con uno stato sociale efficiente, rispetto per l’ambiente e tradizionalmente aperto all’accoglienza degli stranieri secondo il principio che chiunque calpesti il suolo svedese è ben accetto, dal 2019 ha rimesso in discussione il modello multiculturale cui si era ispirato. La ragione principale è legata all’immigrazione che fino a qualche anno fa non aveva avuto alcun impatto sulla società e sul senso di sicurezza della popolazione. Al contrario, chi imputava al fenomeno migratorio la causa del drammatico aumento della violenza era considerato razzista. A invertire la rotta e fissare la limitazione dell’immigrazione, è il Partito socialdemocratico guidato dalla premier Magdalena Andersson, in carica dal 2021, la stessa che ha annunciato lo scorso maggio la decisione del Parlamento unicamerale svedese di chiedere l’adesione alla Nato dopo l’invasione dell’Ucraina. “Non vogliamo una Somalitown nel nostro Paese”, ha dichiarato, riconoscendo che l’integrazione è fallita. In Svezia ci sono intere aree, non dal 2019, i cui abitanti non di origine nordica, hanno instaurato un sistema culturale e religioso proprio, che non riconosce le regole dello Stato svedese, dando origine a uno stato parallelo. L’auspicata integrazione, nonostante l’accesso all’istruzione, al welfare e ai servizi che lo stato svedese offre a tutti, non si è realizzata. Tutto è precipitato nel giro di due anni, in particolare nel sud del Paese dove la violenza in costante aumento di bande armate è fonte di crescente preoccupazione. Afflitta da problemi simili, la vicina Danimarca, collegata alla Svezia attraverso il Ponte Oresund, ha deciso di risolverli limitando al 30 per cento la presenza di immigrati entro il 2030. La Svezia intende spingersi oltre, al tetto del 50 per cento. Da paese tra i più tranquilli e sicuri, infatti, si è trasformata in una sorta di poligono di tiro con un tasso di sparatorie tra i più alti in Europa, il 47 per cento nel 2021 e il 44 per cento dall’inizio del 2022. La situazione attuale è conseguenza del fatto che nessuno, alle prime avvisaglie, aveva voluto riconoscere le implicazioni dell’accoglienza di persone culturalmente distanti, per timore dello stigma di xenofobia e razzismo. Domenica scorsa gli svedesi sono andati alle urne e il partito di estrema destra dei Democratici svedesi di Jimmie Akesson ha toccato il 20,7 per cento, per la prima volta secondo partito alle spalle dei socialdemocratici di Andersson al 30,5 per cento. Il tema della sicurezza, centrale negli interessi degli svedesi, ha fatto sì che i partiti in lizza siano giunti a una mediazione tra le posizioni tradizionalmente più tolleranti dei socialdemocratici e quelle più intransigenti dei democratici svedesi che pur avendo abbandonato l’estremismo originario rimangono sostanzialmente un partito anti immigrazione, anti islam e anti europeo. Il Covid e la guerra in Ucraina hanno distolto l’attenzione dell’Ue dalla questione tutt’altro che secondaria dell’immigrazione, a cui i conflitti sparsi ovunque hanno conferito carattere di normalità. L’Europa, per le condizioni di benessere dei suoi cittadini, e la prossimità ai paesi di partenza dei flussi migratori, è la meta preferita. Fingere che il problema non esista o pensare di risolverlo mettendoci sopra qualche pezza, ritarda la soluzione, peggiora le cose e aumenta la percezione di insicurezza e la convinzione che l’Ue non sia in grado di affrontare con consapevolezza, spirito unitario e pragmatismo un problema grosso come una casa.