
Dove inizia il valore della poesia e in che modo, in tanto vasta produzione poetica, si fa a scorgere il vero talento?. E poi quale ruolo gioca nel poetare l’ispirazione della Musa? E’ il poeta che cerca la poesia o la poesia che cerca il poeta? E’ paradigmatico quanto, a riguardo, dice Pablo Neruda in un suo testo poetico:
La poesia
venne a cercarmi. Non so da dove
sia uscita, da inverno o fiume.
Non so come né quando,
no, non erano voci, non erano
parole né silenzio,
ma da una strada mi chiamava,
dai rami della notte,
bruscamente fra gli altri,
fra violente fiamme
o ritornando solo,
era lì senza volto
e mi toccava.
(La poesia venne a cercarmi)
Stando a quando afferma il Nobel per la Letteratura, è la poesia che assume l’uomo-poeta con tutte le sue caratteristiche, con la sua natura, con la sua personalità e libertà, con la sua intelligenza e le sue capacità espressive, e agendo in lui lo fa parlare, lo fa scrivere. A chi e con quale scopo? E’ una sorta di mistero!
Una poesia nel mentre nasce, muore, se non c’è chi la legge, e nel mentre muore risorge, se qualcuno la fa propria. Neruda coglie un aspetto essenziale e fondamentale nella vita di un poeta, quello dell’ispirazione, della folgorazione – oserei dire; come San Paolo sulla via di Damasco, il poeta vive un momento in cui cade dal cavallo grigio della quotidianità e intuisce qualcosa dentro che lo porta a scrivere, a ritirarsi, a dare alla parola la sua forza espressiva per interpretare un sentimento che è suo, ma che diventa collettivo, di tutti e che si fa epifania di una essenza metafisica universale.
Personalmente sento la poesia come una dilatazione dell’anima che partorisce una parola che si fa linguaggio; il verbo dilatare è allusivo: potremmo cogliere una analogia tra la dilatazione dell’utero della madre proprio nel momento in cui dà alla luce un figlio e la dilatazione del sé del poeta che partorisce un testo poetico.
C’è in entrambi i casi la sofferenza di un parto: fisico quella della madre, metafisico quello del poeta.
Ecco, è l’ispirazione poetica, anzitutto, a svolgere un ruolo importante nella rivelazione del talento. Ci sono oggi in circolazione tante poesie belle, ben fatte, stilisticamente e formalmente accattivanti e che spesso si affermano, giustamente, nei concorsi, ma si avverte a pelle che c’è una debolezza di ispirazione e che la distanza tra l’esercizio alchemico-letterario, tra la finzione della mente che crea immagini, metafore, suoni, colori e figure retoriche e l’illuminazione che spinge a tradurre in versi stati veri dell’anima pensante, è davvero notevole.
L’ispirazione, certo, non è da intendersi come una speciale rivelazione né come uno scrivere di getto quasi sotto dettatura, ma è l’intervento del “pensiero pensante”, del sentimento, di uno stato d’animo, che si fanno presenti in modo straordinario al poeta, la cui intelligenza, è resa capace di concepire idee, immagini, figure, simboli e di formulare contenuti, particolarmente rilevanti, all’interno di una struttura metrica e di un codice lessicale, per l’identità di una comunità civile.
Nell’ispirazione poetica, dunque, interagiscono contemporaneamente tre ordini di facoltà: la concezione dei contenuti, che possono essere intimi, affettivi, sociali, idilliaci, paesaggistici, politici, satirici, memoriali, esistenziali, personali o di respiro collettivo; la volontà di esprimerli in una data forma stilistica e l’atto concreto dell’espressione di questi contenuti. In secondo tempo c’è il labor limae, che ogni artista compie dopo aver abbozzato l’opera, la minuzia nella scelta delle parole al centro della creazione poetica.
Data per necessaria l’ispirazione, il problema che mi sembra non sia da trascurare è stabilire il canone, cioè lo strumento di misurazione dell’atto poetico, della poesia, strumento che tende a farsi fondativo perché capace di rivelare una forza d’influenza tesa ad inglobare la creazione delle opere successive. Nel 1525, ad esempio, quando Pietro Bembo presentò il Canzoniere del Petrarca, non fece altro che individuare in esso un modello linguistico per la tradizione poetica italiana.
Oggi il mondo dell’editoria che conta, fa fatica a individuare, vista la frammentazione e la vasta produzione poetica, un canone “ri-fondativo” della poesia su cui vale la pena scommettere. Ancora nel terzo Millennio troviamo molti autori che si muovano tra il classico e il romantico, tra l’avanguardia e neoavanguardia, tra il realismo e la prosa poetica, tra sperimentalismo e neofuturismo, e che sono accomunati da regole formali e da specifici tratti letterari; ma troviamo anche autori che fanno “scelte impoetiche” dirompenti tenendo conto del gusto, dei valori e disvalori che si vanno affermando in una data comunità e in determinato momento storico.
In questo ultimo caso il canone fondativo diventa la società, la politica culturale dei governi, il senso estetico e il gusto della maggioranza della società veicolato dalla comunicazione massmediale.
Ecco, io credo tuttavia che nel nostro tempo un canone selettivo della poesia contemporanea non possa rompere con l’umanesimo classico ( nessuno, ad esempio, potrebbe pensare ormai inutili classici come l’Iliade e l’Odissea), ma nemmeno limitarsi a privilegiare la semplice ricollocazione nel presente della tradizione classica quasi come in un’ottica di continuità; credo si debba tener conto dell’identità culturale, sociale e morale della società contemporanea e del mondo globalizzato, della sua crisi, della sua complessità ed evoluzione, declinando la parola poetica dentro i conflitti della persona e dentro la caduta dei valori interpretativi dell’esistenza, atteso che il poeta è figlio del suo tempo.
E nel contesto del tempo europeo in cui viviamo, plurale, multiculturale, multireligioso, liquido, accentrato sulla esagerata godibilità dell’attimo, sul denaro, sulla smania di esserci, sulla visibilità come ostentazione e autoreferenzialità, sull’autodeificazione di se stessi, sull’oggi senza passato e senza memoria, sulla liquefazione di verità, certezze morali e valoriali, la poesia è uno “spazio di domanda di senso” dove protagonista indiscussa è la vita. Dentro questo spazio non esiste il mestiere di poeta, ma l’uomo che dalla poesia è cercato; esiste un “parlante” ( il poeta che scrive poesia, “un prodotto assolutamente inutile, – dice Montale – ma quasi mai nocivo e questo è uno dei suoi titoli di nobiltà”)(1) che non si prefigge di parlare o moralizzare o convertire qualcuno; la sua è una parola di conoscenza che cade nel vuoto, ma che sa “intus-ire” ( si badi all’etimo) cioè “entrare dentro” ciò che si agita nel cuore di una società e delle persone sia ad intra che ad extra.
E se ogni persona è, costitutivamente e non in senso dualistico, bene e male, angelo e bestia, sogno e desidero, creazione e distruzione, bellezza e bruttezza, spiritualità e corporeità, immanenza e trascendenza, e su tutto impera la liquidità, la dissolvenza e il nichilismo, il poeta è un uomo con una vocazione, nel senso che è chiamato a “intus-legere”, interpretare, con la sua parola, ciò che il tempo dice e in esso la persona vive, non certo per fondare una dottrina ideologica o una corrente.
Se le poesie non diventano “questo spazio di domanda” provocando crisi, dubbi, interrogativi per l’uomo del micro e del macrocosmo nella sua dimensione interiore più profonda, cade ogni motivazione di attenzione e di bisogno della poesia per una comunità civile.
Il talento poetico comincia a vedersi quando la poesia comincia a camminare con le proprie gambe disancorandosi progressivamente da maestri di riferimento e facendosi portatrice di una propria epistemologia e di un autonomo cognitivismo etico-estetico senza avere la pretesa di dare risposte. Lo “spazio di domanda” della poesia è uno spazio aperto, dove il lettore, come in un’agorà, può entrare e uscire, lasciarsi contaminare o rimanere indifferente; e dove i poeti – direbbe Montale – “possono scrivere prose classicamente tradizionali e pseudo versi privi di ogni senso”(2), oppure scrivere versi per essere urlati in un parco o – come sostiene sempre Montale – “in una piazza davanti ad una folla entusiasta. Ciò avviene soprattutto nei paesi dove vigono regimi autoritari. E simili atleti del vocalismo poetico non sempre sono sprovveduti di talento” (3).
La poesia e la sua lettura critica
Non c’è poeta che non si chieda: che fine farà la mia poesia? Piacerà, sarà compresa, accolta, rifiutata, esaltata, denigrata? E’ una domanda che ne suscita un’altra: chi ha competenza a dire se la mia poesia vale o no? Anzitutto il lettore! Ma quel che egli dice è spesso dettato dal gusto e dalla comprensione immediata del testo, e non essendo in possesso di specifici strumenti le sue considerazioni hanno un valore relativo. Qui sorge, allora, il problema della critica letteraria, che presenta connotazioni diverse sulla base del sitz im leben (contesto situazionale) e di tradizioni; esiste però anche un tratto che accomuna indirizzi e posizioni critiche discordanti, quel tratto che Montale chiama “il rifiuto dei giudizi di valore”.
Montale infatti, che non era laureato né aveva una laurea in critica letteraria(che non esiste), fondava questa sua considerazione su una convinzione, che io condivido, e cioè che “l’opera d’arte in se stessa – a parte obiecti – non esiste”. (4) In effetti, come insegnava anche Benedetto Croce, ogni poeta, come anche il musicista, il pittore, nel momento in cui porta una cosa dal non essere all’essere, accade che già l’oggetto del suo parto, cioè l’opera d’arte, è perfetta nel suo cuore e, pertanto, la sua pratica esternalizzazione, sicuramente utile e necessaria, non può aggiungerle nulla.
Un critico letterario non ha il compito di esprimere “giudizi di valore” affermando qui c’è poesia, qui no, qui c’è narrativa qui no, perché non potrà mai entrare nella dimensione intuitiva e ispirativa di un’opera di poesia, ma può esplicitare la natura del testo sul piano della sua efficacia contenutistica, semantica e formale rispetto al tempo in cui l’opera si situa.
Esistono oggi critici di estrazione formalista, altri di impronta idealista, altri ancora dal piglio psicologista, sociale, altri di impronta storicistica e ideologica. “In disparte metterei – ed è Montale che parla e il suo pensiero è ancora valido – gli ingaggiati, gli intruppati, gli antiautonomisti dell’arte. Per essi l’arte deve servire a qualcosa, e fin qui nulla di male anche se l’asserzione è contestabile; il guaio è che questo servaggio è il prezzo che l’artista deve pagare a determinate ideologie politiche”.(5)
Ci sono, infine, a mio giudizio, anche i “critici autoreferenziali” o, per meglio dire, “autoerotici”, il cui linguaggio è fatto di “ismi”, esoterismi, speculazioni filologiche esasperate, barocchismi di presunta scienza letteraria, e che con la loro mente imbastiscono costruzione critiche “senza centro e senza scopo” che neanche gli stessi addetti ai lavori comprendono.
E sì, perché il critico auterotico non ha un destinatario a cui consegnare un pensiero comprensibile, neanche al poeta che recensisce, ma è preoccupato di parlarsi addosso con un criticismo speculativo davvero artificioso e senza una suggestione capace di invitare alla lettura del poeta recensito ed oggetto della sua attenzione. Mi chiedo come possa appassionare il lettore, e i giovani in particolare, alla poesia. Questi critici, che io rispetto ma non ne condivido l’impianto noumenico, in realtà non è che non siano portatori di erudizione, di preparazione, di fascino e genialità, spesso sono anche bravi poeti e letterati di un certo peso, letterati di vasta cultura, solo che pretendendo di dare “giudizi di valore” finiscono per esprimere più un senso di gusto personale che un obiettivo servizio alla cultura poetica.
Ad ogni buon conto resta fermo che i giudizi critici sono sempre relativi, atteso che – direbbe lo scrittore e poeta satirico inglese Alexander Pope, “i nostri giudizi sono come i nostri orologi, i quali non si trovano mai d’accordo, ma ognuno di noi crede al suo”.
Una conferma, in tal senso, ci viene da grandi maestri della critica letteraria, come Natalino Sapegno e Francesco De Sanctis, i quali, ad esempio, parlando dell’Alfieri tracciano giudizi critici che si muovono in direzioni diverse. Il Sapegno scrive: “Poeta puro, al di fuori e al di sopra di tutte le ragioni e preoccupazioni letterarie fu l’Alfieri: la voce poetica più schietta e la più grande di tutto il secolo”(6)
Il De Sanctis, invece, giudica la poetica tragica dell’Alfieri “‘fredda e monotona’ perché in tanta esaltazione fittizia ti senti nel vuoto e perché fra tanti motti e sentenze memorabili non ricordi un solo personaggio” (7)
Quale dunque il compito del critico, almeno secondo la mia opinabile visione, verso la poesia? Chiaramente chi vuole può cimentarsi nello studio della storia della critica per approfondire l’argomento; questo non è il luogo dove è possibile fare ciò. E allora, mi limito solo a qualche osservazione.
Io credo che l’attenzione del critico debba puntare anzitutto lo sguardo sulla parola poetica, poiché un’opera letteraria, poetica è sostanzialmente fatta di parole e con le parole si costruiscono immagini, si attivano metafore, si fanno tropi, si generano simboli, segni e perfino combinazioni fonico- ritmiche, si intrecciano forme, stili, figure retoriche di cui i manuali di grammatica e letteratura sono ricchi. Una poesia, per essere tale, non può fare a meno di queste regole elementari.
Un secondo sguardo del critico dovrebbe soffermarsi, secondo me, sulla capacità innovativa del linguaggio da parte del poeta, sulle coordinate portanti e complessive dell’opera o delle opere poetiche, cercando di individuare la sua struttura teleologica in ordine ad una dichiarazione di congruenza ad un insieme, ad una prospettiva cognitiva, filosofica, antropologica, etica ed estetica che, legittimamente, il critico deve identificare e di cui il poeta può totalmente ignorarne l’esistenza.
Ad ogni modo, a chi produce un’opera di poesia dico, con le parole di Francesco De Sanctis, che “il critico è simile all’attore; entrambi non riproducono semplicemente il mondo poetico, ma lo integrano” e che – come sostiene Henry James – “criticare è valutare, impadronirsi, prendere possesso intellettuale, insomma stabilire un rapporto con la cosa criticata e farla propria”.(8)
Un critico, per concludere, quando legge un’opera di poesia può comportarsi così come diceva nel 1866 lo scrittore Luigi Settembrini, nella sua opera Lezioni di letteratura italiana:
“Ci sono due specie di critiche, l’una che s’ingegna più di scorgere i difetti, l’altra di rivelar le bellezze. A me piace più la seconda che nasce da amore, e vuol destare amore che è padre dell’arte; mentre l’altra mi pare che somigli a superbia, e sotto colore di cercare la verità distrugge tutto, e lascia l’anima sterile”. (9)
La seconda è quella che piace anche a colui che scrive, quale appassionato lettore di poesia consapevole che la poesia, al di là dei suoi esiti e giudizi, resterà sempre – direbbe Montale – “una delle vette dell’anima umana”/ Continua
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(1) Cfr. Eugenio Montale, Poesia, prosa, traduzioni, UTET, Rizzoli Editore, 1975, pp.421-433.
(2) Ibid.
(3) Ibid.
(4) Ibid.
(5) Ibid.
(6) Cfr. Compendio di Storia della letteratura italiana, Vol. II, Ed. La Nuova Italia, p.569.
(7) Cfr. Storia della Letteratura Italiana, Vol.II, Ed. Feltrinelli, 1978, p.820).
(8) https://aforisticamente.com/frasi-citazioni-e-aforismi-su-critica-letteraria/
(9) Ibid.