“A che serve la bellezza se si tiene nascosta?”
La vicenda raccontata da Sandra Guddo è la ricerca della bellezza nascosta dentro una momentanea deformità. Il suo racconto svela un aspetto dell’umanità reale, fatta di personaggi negativi capaci di rinnovarsi attraverso la sofferenza e posti nella condizione di godere del frutto del loro stesso male pregresso. Così il cerchio si chiude, con la ricerca e la scoperta inaspettata dell’amore filiale. Quasi un raddrizzamento del male, nel senso che questo trova il suo scopo: ciò che ne deriva è la giustizia che azzera il vizio.
L’autrice, con lucida profondità, ritrae il percorso di formazione del protagonista e dei personaggi che ruotano intorno a lui, in un racconto ricco sul piano emotivo e terribilmente realistico. Disagi e sofferenze vissuti dal protagonista, su cui aleggia la figura del padre, accennata ma non colta nella sua funzione protettrice, e della madre che annaspa nel tentativo di suggerire al figlio delle scelte da compiere e che poi, solo per la strana logica del caso, gli offre involontariamente gli strumenti per la soluzione del dramma.
Il racconto si snoda attraverso il presente e un passato che emerge come feedback e minaccia irrimediabilmente la serenità del presente. Ci sono ferite impossibili da rimarginare, mentre stanno sempre in agguato i ricordi e i rimorsi.
Il protagonista, Cesare Molinari, ha consapevolezza della propria perversione, che lo fa sentire lontano dalla possibilità di recuperare, perché caricato dal fardello di una colpa che lui per primo non riesce a perdonarsi; dunque, sceglie la via più facile, che è il persistere nel compiere il male come se si trattasse di una forza irresistibile in cui compiacersi e a cui trovare soluzioni solo momentanee. “Invano cerco di obliare: il mio corpo è un diario vivente”.
Tuttavia, a salvarlo rimane la disponibilità all’incontro di un affetto sincero, personificato da una donna che lo folgora con la sua bellezza e lo colpisce per i segni della sua femminilità, al punto da fargli pensare che dentro di lei avrebbe voluto che si formasse suo figlio. Sarà quest’incontro il momento di volta. Il desiderio della paternità determinerà la possibilità del cambiamento, ancor più perché catalizzatore del cambiamento è una donna che ha fatto, come lui, esperienza del male. Il resto della vicenda è solo una conseguenza di questo spiraglio che si apre verso la cura dell’altro, che si chiama paternità: “sono attratto dallo scatto che immortala un polpo che tenta la fuga dallo scolapasta rosso, unico elemento colorato, dove è stato sistemato in attesa di finire giù nell’acqua bollente”.
«Fa tenerezza, vero?».
Mi giro a guardare la donna che mi ha rivolto la domanda.
Resto come folgorato dalla sua bellezza (…) ma sono i fianchi che si allargano come la cupola di una cattedrale a colpire il mio interesse, istintivamente penso che quella sarebbe la nicchia ideale dove far alloggiare e crescere il seme della mia progenie. “Devo essere impazzito… sto forse pensando di fare un figlio con lei?”
Umanità e dolore, come ingredienti fondamentali del romanzo, conducono il lettore nella stessa voragine di male in cui vivono i personaggi, per poi uscire insieme a loro verso la conquista della serenità e dell’equilibrio.
Il lettore attento saprà scoprire il perché di una vicenda torbida, che inizia con una deviazione sessuale perversa scaraventata in modo violento su una giovane donna teneramente amata e desiderata; ma si conclude con il trasformare il carnefice in salvatore della donna stessa (“mentre mi chino su di lei, per la prima volta, avverto che il desiderio di proteggerla è più forte del desiderio di possederla. Mi sento più padre che amante respinto e questa sensazione mi piace. Se Camilla è pronta a svoltare pagina allora anch’io sono pronto a farlo e a iniziare, dopo anni di sofferenza, un nuovo corso”).
A questo punto i ruoli vengono capovolti, tanto che la vittima, con una debolezza tutta umana, si rivale sul frutto del dolore subito e sarà invece il carnefice a diventare portatore di ordine e misura. Il tutto in modo inaspettato, attraverso un percorso che si tinge delle sfumature del giallo risolto in modo sorprendente: “Per anni mi sono visto un mostro, ora mi vedo padre; aveva proprio ragione frate Carmelo quando, convinto, mi ha assicurato che, anche dove sembra esserci soltanto il male, per un imperscrutabile disegno divino, c’è sempre anche il bene di cui noi non vediamo traccia, dobbiamo solo avere fede e questa si rivelerà ai nostri occhi”.
Le Geôlier è un romanzo estremamente realistico e attuale con cui Sandra Guddo penetra dentro la nostra società attuale, cogliendone con lucidità tanti aspetti spesso scomodi per l’uomo comune che teme il confronto con la realtà complessa che viviamo.
A quest’analisi cruda ed obiettiva ad ogni pagina presta la propria immagine il protagonista Cesare, che fa eco al protagonista della poesia di Jacques Prévert Le geôlier, con cui Sandra Guddo ha intitolato il suo romanzo. Si tratta di un uomo, un antieroe che scardina le aspettative di chi crede che i protagonisti possibili debbano necessariamente essere figure esemplari. Con la figura di Cesare l’autrice mostra il coraggio di rischiare catturando l’attenzione del lettore che da lei si fa guidare in un percorso di compiacimento nel male.
Ma non è un male fine a sé stesso. Cesare è consapevole di vivere la sua sessualità come vizio, in cui trova un piacere perverso che lo distoglie dall’avere stima di sé, ma nello stesso tempo lo trattiene in modo irresistibile. Tuttavia, ciò che porterà Cesare ad uscire dal dramma è la consapevolezza del male, prerogativa indispensabile per poter uscire fuori dalla palude e riemergere rinnovato e con una nuova forza che lo porterà a far nascere il bene dal male. Da carnefice, privo di responsabilità, a paladino della giustizia, che sperimenta il bisogno di perdonare se stesso per essere perdonato (“Non ti chiedo di dimenticare, ma di perdonarti…Non è mai tardi per fare la cosa giusta!”).
Questa è, in sintesi, la storia di solitudini che cercano soluzioni, in cui il paesaggio descritto dall’autrice è immagine dell’anima e rifugio dall’irresistibile fascino del male: “C’è una cosa che mi manca più di tutto: il mare della mia isola. Tutti i pomeriggi, al tramonto, andavo sulla scogliera ad ammirare il colore cangiante di quella immensa distesa d’acqua che si tingeva di mille sfumature: ora blu cobalto, ora verde smeraldo, interrotta dal bianco spumoso delle onde e, nelle giornate assolate, le sue acque trasparenti sembravano cullare piccole scaglie dorate, incomparabile dono dei riflessi solari. Immaginavo anche che, da un momento all’altro, dalla profondità dei suoi abissi potessero apparire conturbanti sirene da cui mi sarei lasciato rapire. Godevo del profumo intenso che quasi mi stordiva e mi trascinava in dimensioni lontane quando il mare era solcato da antiche imbarcazioni recanti genti straniere venute da lontano: forse fenici o greci, saraceni o normanni; allora immaginavo di vederli sbarcare, accolti dagli isolani sempre propensi a offrire ospitalità a chi veniva in pace, pronti a scambiare merci di ogni genere, mentre lingue e culture diverse si fondevano per dare vita a qualcosa di nuovo e di più maestoso”.
Il male di cui parla Sandra è un’erbaccia che si moltiplica invadendo il terreno della società moderna alla ricerca di ricchezza, potere e piaceri artificiali quanto effimeri e violenti. Un ritratto impietoso della nostra realtà, con un focus ancora più realistico e crudo sulla condizione di una Sicilia soffocata dai suoi stessi mali:
“I meridionali vivono alle nostre spalle perché non vogliono lavorare, sono dormienti e sprecano, in questa dimensione onirica, distorta e stereotipata, il denaro pubblico. Sarebbe stato più realistico e obiettivo ammettere che al Sud non sono state create infrastrutture adeguate ad assicurare lo sviluppo economico delle popolazioni meridionali, né molte opportunità di lavoro, che perciò scarseggia e a molti di questi terrun, per sopravvivere, non resta che lasciare le loro case e i loro vecchi in cerca di fortuna in terre lontane”.
Il tutto è narrato con un linguaggio semplice e familiare, attraverso immagini consuete vicine al nostro modo di esprimerci. È anche questo che ci consente di sentirci vicini al mondo dei personaggi incontrati nel romanzo.
L’autrice non si arrende di fronte al male, imperterrita ne ricerca la motivazione, liberando i personaggi di responsabilità e attribuendola alle vicende.
Ai personaggi tutto il merito di sapersi rialzare dal male.
Enza Maria D’Angelo