
Un libro autobiografico di cuore e di passione, di idee e di visioni appare agli occhi del lettore “Io sono Giorgia. Le mie radici, le mie idee”, Rizzoli, 2021, pubblicato da Giorgia Meloni, leader politico di Fratelli d’Italia, libro che nella classifica della saggistica è in testa e che risulta distribuito, secondo i dati più recenti, in 13 edizioni e con 169.000 copie nelle librerie.
Un libro che ho deciso di leggere perché mi hanno incuriosito i tanti commenti, sia positivi che negativi, che ho avuto modo di leggere sui social, commenti che, è la mia deduzione, spesso non sembrano il risultato di una accurata esegesi del libro né obbediscono a quei criteri ermeneutici essenziali che la lettura di un testo esige, ma che si basano su elementi isolati, su pregiudizi di natura politica, su antipatie o simpatie a prescindere, sulla persona dell’autrice, o su condivisioni acritiche e adesioni politiche. Ne riporto alcuni:
“Sono rimasta abbastanza basita dalle idee che vengono proposte: sembra veramente di voler tornare al medioevo”;
“A metà tra fantasy e fantascienza: libro colmo di inesattezze e teorie fantasiose. Libro consigliato solo se si è supporter di Giorgia Meloni”;
“Al di là delle proprie idee politiche…libro scorrevole e mai noioso. Scritto con passione e senza la paura di far trasparire delle fragilità personali. Un libro che è una sbirciata nel personale di uno dei personaggi politici più discussi del momento”.
“Non resterà nella storia della letteratura ma è leggibile e gradevole… Uno spaccato di vita e di politica che vale molto più del prezzo di copertina. Chi ha le idee della Meloni non rimarrà deluso, chi le avversa troverà molti spunti di riflessione. Per me è un libro da leggere”.
Questi commenti e i tanti che si potrebbero ancora citare, mi creano il sospetto che siano frutto della lettura di qualche paginetta e ,in qualche caso dell’assenza di lettura, mentre basta solo leggere il titolo per capire che esso contiene una dichiarazione narrativa poggiata su due importanti sostantivi: “radici” e “idee”, che diventano il filo rosso che unisce l’esperienza di una donna che, ricorrendo al racconto diretto di se stessa, supera gli stereotipi, spesso pregiudiziali, della comunicazione mediatica.
La struttura teleologica del volume si snoda su sei linee di movimento che si integrano nell’unità di una narrazione fluida, scorrevole e coinvolgente, che si rivela portatrice di sei unità tematiche specifiche: “Io sono Giorgia”, “Sono donna”, “Sono madre”, “Sono di destra”, “Sono cristiana” “Sono italiana”.
Sono tutte tematiche che l’autrice pone sul tappeto non per tracciare, a mio giudizio, un manifesto politico o per tessere alchimie elettorali, né per delineare una mera autobiografia di se stessa; si tratta, invece, della testimonianza di una persona consapevole dei suoi pregi e dei suoi difetti, che vive la politica con passione e che – come ella stessa afferma – “crede in quello che fa e cerca di farlo al meglio”. E una autrice che dice questo, al di là del nome che porta, delle idealità che persegue e del ruolo che riveste, merita rispetto, in modo particolare in quanto donna operante, diciamolo chiaro, in una cultura maschilista che spesso offende le donne e che tende a fare di esse oggetto di violenza come, per la verità, la stessa Meloni sa bene, essendo stata da definita, non da persone rozze ma da gente raffinata di ambienti universitari del Nord, meritatamente poi sospesi, “pescivendola”, “troia”, “scrofa”, “vacca”.
1.Io sono Giorgia
“Io sono Giorgia” è il primo orizzonte del libro, ove è singolare lo svelamento dell’autrice della propria realtà esistenziale, segnata dalla consapevolezza di essere stata oggetto di rifiuto da parte della madre che voleva abortirla:
“…la verità è che io non sarei nemmeno dovuto nascere. Quando rimase incinta, Anna aveva ventitré anni, una figlia di un anno e mezzo e un compagno – mio padre – con cui non andava più d’accordo e che, da tempo, aveva le valigie pronte per andarsene lontano .Una famiglia ferita…”
Partendo da questa rivelazione, l’autrice, come un fiume in piena, racconta il suo rapporto con la madre, il tempo impiegato per accettare la notizia appresa e per “digerire il sasso” come lei afferma; e lo fa con la serenità di un linguaggio che non si fa giudizio della madre, ma accettazione della sofferenza di una donna che voleva abortire ma che alla fine “si chiede: è davvero una mia scelta rinunciare a essere madre ancora una volta? La sua risposta è puro istinto: no, non voglio rinunciare, non voglio abortire. Mia figlia avrà una sorella”.
Della figura del padre, l’autrice mostra una immagine sbiadita, l’immagine di uno che sparisce all’improvviso abbandonandola, lasciandola nella fase delicata della crescita vissuta tra la scuola, la parrocchia e la piccola casa dei nonni ritenuti la vera guida autorevole.
Dunque, l’infanzia di Giorgia Meloni si essenzializza in una dimensione di fragilità relazionale che lascia un segno indelebile.
La vita della protagonista conosce vari accadimenti: dall’incendio della casa materna, all’acquisto di un altro appartamento alla Garbatella, a poca distanza da quello dei nonni, alla sua vita da preadolescente “scandita tra la scuola, la parrocchia e la piccola casa dei nonni…guida autorevole e quotidiana”, mentre la madre continua a lavorare “inventandosi mestieri ogni volta diversi”.
La Giorgia adolescente non è certo una ragazza felice, ma trova in famiglia quello che le serve: affetto e cura, a fronte di forme di violenza psicologica subite, oggi si chiamano bullismo, che l’autrice racconta con sofferenza; discorso a parte la vicenda con il padre, del quale lamenta l‘abbandono, l’indifferenza e il disinteressamento.
La narrazione in questo primo versante del libro è, dunque, una testimonianza di vita reale che induce la protagonista del racconto a delle conclusioni:
“…Sono cresciuta con l’idea di non meritare niente e la mia reazione è stata quella di impegnarmi con tutta me stessa per dimostrare il contrario. Perché il punto è sempre lo stesso: un conto è quello che succede e un conto è come lo affrontiamo”.
Una reazione che Giorgia Meloni pone subito in essere, tant’è che a quindici anni e mezzo bussa “al portone blindato della sezione del Fronte della Gioventù alla Garbatella” ove trova la sua seconda famiglia. E, così, prende avvio la sua esperienza di impegno politico, partecipando a riunioni con l’obiettivo di dialogare, di cercare dei riferimenti e delle aggregazioni come la parrocchia, il volontariato, l’associazionismo, e di dedicarsi all’affissione notturna di manifesti facendosi coinvolgere, a differenza di tanti altri giovani “che pensavano alle mode o alla discoteca o andavano a fare shopping in via del Corso”, in una militanza politica convinta e declinata nella scuola, nella società, in sezioni giovanili, nella ricerca di nuovi tesserati, e nel contempo cercando di lavorare la sera facendo “la babysitter(anche della figlia della compagna di Fiorello, sì), la guardarobiera, l’ambulante al mercato di Porta Portese in un banco di musica, la barman” , nonché di lavorare “al Tina Pika dove si esibivano comici poi diventati famosi, come Enrico Brignano e Antonio Giuliani”.
E cosi prende sempre più corpo il cammino storico-politico della Meloni, che si misura nei coordinamenti studenteschi, “come quello degli Antenati, che nel 1994, quando la destra non era esattamente maggioritaria, portò in piazza a Roma oltre ventimila persone”, fino a diventare responsabile di Azione Studentesca e per giungere a ventinove anni a rivestire la carica di vicepresidente della Camera dei Deputati.
2. Sono una donna
La seconda parte del libro, “Sono una donna” offre al lettore un racconto intriso di esperienze di vita, di accadimenti nei quali l’autrice narra di aver dovuto “combattere contro ridicoli stereotipi” e affrontare insulti allorché si seppe della sua gravidanza, fino a sentirsi augurare di abortire.
“Sono una donna, e non mi piace essere trattata come una panda… Sono una donna , e non avevo il physique du role – per guidare i giovani militanti di destra : così scrive l’autrice; e sono parole di una donna senza tentennamenti che affronta con coraggio le varie vicende parlamentari quando vive all’interno di Alleanza Nazionale, allora guidata da Gianfranco Fini; di una donna che non teme confronti; che non si fa intimidire dalle polemiche allorquando il Corriere della sera lancia una sua intervista. “Titolo: Questo Silvio non mi piace. All’alba, -racconta l’autrice – Berlusconi aveva chiamato La Russa arrabbiatissimo: ‘La ragazza mi ha già rotto le palle’. Le ore successive furono piuttosto complicate, tra mediazioni, spiegazioni, precisazioni, ma alla fine rimasi al mio posto”.
In questa parte del libro, il racconto è ricco di particolari, riferisce di interventi politici in seno al Congresso di Alleanza Nazionale del 2002, di partecipazione a dibattiti sulle Olimpiadi di Pechino del 2008, di viaggi all’estero, di interviste televisive, della sua esperienza di ministro della Gioventù, tutto un complesso di esperienze che le fa raggiungere tratti di popolarità fatti oggetto di critica:
“Qualcuno parlò di velinismo, contestando un fenomeno che umiliava il valore delle donne, ma la verità è che ciò valeva spesso anche per gli uomini…può sembrare paradossale – confessa l’autrice – e invece sono davvero una persona riservata…”
Insomma dal volume emerge la storia di una donna la cui vita è stata una sfida continua, e che è passata da babysitter, guardarobiera , ambulante di mercato a ministro della Repubblica, con la consapevolezza di aver fatto tutto il possibile delle sue capacità:
“Ho imparato tutto in corsa, gettandomi ogni volta a capofitto, ma per farlo ho dovuto ricorrere a disciplina e concentrazione. La disciplina è stata la mia benzina, ma anche la mia gabbia. Il grande paradosso della mia vita è che, per costruirmi la liberà di essere la donna che voglio essere e di fare le scelte che voglio fare, ho rinunciato a ogni altra libertà”.
3. Sono una madre
Questa terza parte del libro si connota come racconto dell’autrice della propria maternità. La scoperta dell’attesa della figlia Ginevra viene percepita come “un dono di Dio”, pur confessando che “la maternità non era mai stata uno dei grandi obiettivi” della sua vita, anzi “la maternità è stata uno stravolgimento totale, tra momenti di estasi e altri in cui – scrive la Meloni – avrei voluto sbattere la testa contro un muro”.
La narrazione dell’essere madre, che è circostanziata, ricca di particolari, di episodi vissuti diversi, offre una riflessione “sulla differenza di genitorialità tra la nostra generazione – scrive l’autrice – e quella dei nostri genitori”, indugia su processi educativi tra passato e presente, sulla diversità di metodi educativi, ed evoca le difficoltà che si incontrano nel conciliare il proprio dovere di madre e l’impegno di parlamentare e di segretario di partito.
Ciò che traspare dalla narrazione è una serenità d’animo, la consapevolezza di non poter assolvere a tempo pieno il suo ruolo di madre, e soprattutto il bisogno di mettere a fuoco questioni legate alla dimensione della genitorialità, “come la teoria gender, l’utero in affitto o l’aborto al nono mese”.
La Meloni, definita “una bigotta agli occhi del pensiero dominante. Un’impresentabile oscurantista, che si aggira minacciosa nel tentativo di mettere al rogo chiunque voglia favorire il progresso” , nel suo racconto evidenzia, con onestà intellettuale, la ratio di fondo delle sue scelte morali, non fondandole su presupposti confessionali ma su una “laicità di buon senso” che si oppone ad una cultura politica di sinistra che arriva al paradosso di ritenere immorali “le sperimentazioni sugli animali” e, invece, scelte di progresso “quelle sugli embrioni umani”; quella cultura di sinistra che inneggia a libertà che “privano un bambino della madre o del padre”, che decidono della vita di un altro e disporre della morte come si ritiene.
La ratio di fondo di questa parte del libro trova un approfondimento specie quando l’autrice racconta alcune sue esperienze di partecipazione a delle manifestazioni a Verona, (ove – scrive – “le femministe mi urlavano contro”, i picchetti impedivano di entrare), facendo risaltare sia le contraddizioni di uno “Stato che negli anni ha patrocinato le cose più impresentabili”( e anche oltraggiose della fede cristiana), di uno Stato che finge “di non vedere le iniziative nelle scuole in cui si prendono i bambini di sei anni e si cambiano loro i vestiti , mettendo alle femminucce gli abiti dei maschietti, e viceversa, per spiegare la teoria gender, e che poi “si vergogna di mettere le sue insegne su un convegno che parlava di come incentivare la famiglia naturale fondata sul matrimonio, di come aiutare le donne a non essere discriminate, a non dover scegliere tra mettere al mondo un bambino e avere un posto di lavoro”.
Giorgia Meloni offre una narrazione fuori dal coro, affrontando temi di bioetica del nostro tempo come aborto, eutanasia, sacralità della vita, l’adozione ai single, le leggi sull’adozione, l’omosessualità, la già citata teoria gender, con un realismo che cerca un confronto che dice di non trovare, tant’è che – afferma – “mi capita spessissimo di essere banalizzata, o ghettizzata da certa intellighenzia per le cose che dico, indipendentemente dal come e dal perché lo dico, come se il merito delle questioni non interessasse perché è più importante appiccicare un’etichetta o farmi rientrare nello stereotipo che altri hanno costruito per me”; mi dispiace – prosegue l’autrice – essere etichettata da qualcuno come ‘omofoba’”.
Dalla narrazione di Giorgia Meloni si diparte, dunque, uno sguardo coraggioso su “questioni di merito” legati ad una problematica etica complessa e centrata su quelli che vengono definiti “valori non negoziabili”. Dal suo racconto emerge un modello politico poggiato “sull’etica della sacralità della vita”, un modello di matrice religiosa che attribuisce un valore assoluto alla vita e che sostiene l’obbligo di salvaguardarla sempre e comunque, evitando di interferire con il suo corso naturale. E’ questa la prospettiva che emerge dal suo impegno socio-politico in fatto di etica, prospettiva secondo la quale la vita appartiene a Dio che l’ha creata e affidata all’uomo, chiamandolo a collaborare.
Riteniamo che si tratti di un modello etico legittimo e riconosciuto a livello universale, che ha anche alcuni punti in comune con la visione della vita propria della teologia morale cristiana e che l’autrice mostra di condividere non solo sul piano personale ma anche nel suo ruolo di soggetto politico; un modello che – secondo l’autrice – non piace alle culture di sinistra che privilegiano “un’etica della qualità della vita”, di matrice laico-scientifica, secondo cui la vita appartiene all’uomo e il suo valore non è determinato dall’essere creata da Dio, motivo per cui tutte le norme morali intorno alla vita sono stabilite dall’uomo nel quadro di un pluralismo etico che ha il diritto di scegliere e il dovere di difendere la libertà di scelta degli altri. Due prospettive diverse di un civile dibattito e confronto.
Dentro questo quadro di riferimento di pluralismo etico e democratico si collocano allora tante domande che l’autrice si pone nel libro, del tipo:
-E’ lecito che una donna, magari costretta dall’indigenza, ceda il proprio utero per denaro e affronti una gravidanza, un parto, e poi veda quel bambino nascere e lo venda, perché qualcuno possa avere un figlio col proprio patrimonio genetico quando non è biologicamente possibile, per l’età avanzata o perché gli aspiranti genitori sono due uomini? A mio avviso non lo è.”
-“E’ giusto spiegare cosa sia l’omosessualità a bambini di sei anni nella stessa scuola in cui si è scelto di non portare l’educazione sessuale? E perché, pur non essendo sessuofobi, non insegniamo l’educazione sessuale a scuola?”
A queste e a tante altre domande Giorgia Meloni dà le sue risposte, risposte che possono anche non condividersi, ma che, per come sono esposte nel libro, non palesano arroganza, offesa, intolleranza, né meritano di essere messe etichettate dai suoi avversari con epiteti che ella stessa scrive con amarezza in questo suo libro.
4.Sono di destra
La stesura narrativa di questa quarta parte del volume offre al lettore la esperienza politica della Meloni, che sin da subito del suo racconto è consapevole di aver “raccolto il testimone di una storia lunga settant’anni” e di essersi “caricata sulle spalle i sogni e le speranza di un popolo che si era ritrovato senza partito, senza un leader.”
Con una descrizione dettagliata e avvincente, Giorgia Meloni si addentra nei filmati della sua memoria radicati nel governo di centrodestra di Berlusconi, nel governo di Mario Monti fino a giungere alla costituzione del partito “Fratelli d’Italia” con una manifestazione del 16 dicembre 2012, che l’autrice così racconta:
“Quella meravigliosa giornata di metà dicembre mi convinsi definitivamente. Volevo tornare a essere fiera del mio lavoro. Volevo che quelle persone tornassero a essere fiere del loro partito, ad amare la politica, e a praticarla. Esisteva un popolo di destra, smarrito dopo anni di scandali e di crisi economica, a cui era necessario dare voce senza compromessi. Ad ogni appaluso della platea, cresceva in me la convinzione che uscire dal PDL e fondare qualcosa di nuovo fosse la strada giusta”.
E in effetti, a distanza di nove anni si è rivelata una “strada giusta”, atteso che oggi Fratelli d’Italia è sempre più solo in testa alle preferenze dei cittadini, seguito da Lega e Partito Democratico.
L’autrice racconta in sincerità tutte le vicissitudini dalla fondazione del partito: la delusione alle elezioni europee del 2014, l’insoddisfacente 4, 35 per cento alle elezioni politiche del 2018, fino a giungere al maggio 2019, quando Fratelli d’Italia raggiunge un “inatteso 6,44 per cento eleggendo 6 europarlamentari. Da lì –scrive Meloni – cambiò tutto, iniziò per Fratelli d’Italia una storia completamente nuova”. Un storia di destra nella quale è confluita molta parte dell’ex partito Alleanza Nazionale fondato da Gianfranco Fini, storia che l’autrice racconta di voler riscrivere consapevole di essere “bersaglio” costante di giornalisti, opinionisti, commentatori, politici e intellettuali:
“La loro ostilità è per me come una stella polare che mi conferma che la rotta è quella giusta. Io sono di destra; lo dico, lo ripeto negli incontri pubblici e privati. Lo rivendico con l’orgoglio e la dignità con cui si rivendica una identità, un’appartenenza vissuta. Anche sapendo che definirsi tale significa essere immediatamente esclusi dai circoli dell’èlite, dai salotti radical chic che imperversano in Italia; significa attirarsi l’ostilità e il disprezzo di una buona parte del mondo dei media, degli intellettuali, degli accademici, degli astrali custodi di verità imposte; significa essere additati come oscurantisti, reazionari nella migliore delle ipotesi; nella peggiore, come portatori di un virus dell’intolleranza o di razzismo”.
Queste parole sembrano la narrazione soffusa dell’amarezza di una donna che avverte di essere discriminata per le proprie idee; il messaggio che si coglie nelle sue parole sembra voler evidenziare come l’Italia sia il paese dove l’intellettuale non può che essere di sinistra; viene da pensare al filosofo Norberto Bobbio il quale, nel 1955, data della sua prima pubblicazione del volume “politica e cultura”, così si esprimeva: “Se tutto il mondo fosse diviso, esattamente, in rossi e neri, mettendomi dalla parte dei neri sarei nemico dei rossi, mettendomi dalla parte dei rossi sarei nemico dei neri. Non potrei stare in alcun modo al di fuori degli uni e degli altri, perché – questa è l’ipotesi – essi occupano tutto il territorio … E, quando quell’ipotesi si avvera, il mestiere dell’intellettuale, che rifugge o dovrebbe rifuggire dalle alternative troppo nette, diventa difficile”.
Ma che cosa significa per l’autrice essere di destra? Significa:
“Affrontare senza paraocchi ideologici il mondo e le sue sfide…Per la destra la politica parte dalla realtà, non dall’dea che ci facciamo di essa. Si combatte per l’uomo concreto che vive nel mondo concreto. La realtà è la vita presente ma anche quella passata: la tradizione, la memoria”.
Giorgia Meloni dice di essere di destra perché crede nell’importanza della “tradizione e della memoria”. La tradizione non è una mera conservazione del passato, ma un “consegnare” (tradizione viene dal latino “tradere”) alle future generazioni le radici e l’identità da cui si proviene, aiutandoli a proiettarsi nel futuro innovando, ricercando una prospettiva di nuovo progresso.
L’autrice, ancora, parla di una destra che crede nei valori dello spirito, che contempla al suo interno il divino nella visione che ha dell’uomo.
Per avvalorare questa prospettiva di “custodia della tradizione”, la narrazione dell’autrice cita un testo poetico di Pasolini, Saluto e augurio, dove “Pasolini consegna nelle mani di un imberbe fascistello degli anni Settanta il suo testamento ideale”:
Prenditi
tu, sulle spalle questo fardello(…)
Difendi i campi tra il paese
e la campagna, con le loro pannocchie
abbandonate.
Difendi il prato
tra l’ultima casa del paese e la roggia.(…)
Difendi, conserva, prega!(…)
Oggi: difendere, conservare, pregare.(…)
Dentro il nostro mondo, dì
di non essere borghese, ma un santo
o un soldato: un santo senza ignoranza,
o un soldato senza violenza.
Porta con mani di santo o soldato
l’intimità col Re, Destra divina
che è dentro di noi, nel sonno…”
Lungo il percorso della sua narrazione autobiografica, l’autrice fa una analisi nella quale stigmatizza “l’istinto talebano che spinge capitalisti e maitre a penser di sinistra a invocare e praticare la censura della libera espressione”; l’imporsi del ‘politicamente corretto’ che imperversa e detta le proprie leggi assurde”, indicando con franchezza la propria identità.
La Meloni descrive infatti, con un linguaggio chiaro, con passione, pathos interiore e convinzione i versanti portanti della propria identità:
“La prima identità è il mio nome, che è la prima parola che un bambino sente nelle sue orecchie (…). La seconda identità è il mio sesso. Scelto dalla natura o da Dio, fate voi. Mi colloca in una parte precisa del genere umano. Il mio è quello femminile(…) La terza identità è la mia fede, nel mio caso tramandata dai miei genitori, dalla terra dove sono nata e cresciuta. E’ una identità che può essere scelta, cambiata, negata…o anche trovata perché magari Dio è un incontro maturato nella vita(…)
La quarta identità, quella italiana, è il senso del mio patriottismo. E’ l’appartenenza a un popolo, è l’amore verso una terra, è la lingua in comune, è il paesaggio che forma un’idea , sono gli usi e i costumi ereditati e da amare perché legame profondo con i nostri antenati, il loro lascito, ciò che sia chiama “Tradizione”. E’ il ‘Noi’ che costruisce la lealtà nazionale a fondamento della stessa democrazia”.
5. Sono cristiana, sono italiana
Nelle due ultime parti del libro, il flusso narrante dell’autrice poggia l’attenzione sulla propria fede religiosa che affonda le radici nell’educazione familiare, particolarmente della nonna; sulla frequentazione della parrocchia di San Filippo Neri, alla Garbatella, ove Padre Guido “si occupava dei suoi ragazzi uno per uno(…) Fu lui a imporsi con mia nonna – scrive la Meloni – e con mia madre, perché fossimo battezzate, quando ormai avevamo sei e otto anni”.
Il testo racconta anche qualche aneddoto: l’udienza di papa Giovanni Paolo II, allorquando da giovane consigliere provinciale di 21 anni, venne scambiata per la figlia di un consigliere e le fu sbarrato l’ingresso sostenendo che i familiari non erano ammessi. “Servirono le assicurazioni dei colleghi – scrive la Meloni – per consentirmi di entrare e partecipare all’udienza”.
Il lettore si trova, poi, di fronte una narrazione che si dipana come la testimonianza di una comune credente, senza artifici né alchimici ragionamenti, ma con la semplicità di chi ha dubbi, di chi è consapevole che la fede religiosa va testimoniata, ma non usata come strumento politico:
“Non ho mai smesso di credere in Dio. Ma la dimensione intima è talmente personale che non può e non deve essere utilizzata come paradigma di un movimento politico collettivo o addirittura di una nazione. La mia fede in Dio, imperfetta, dubbiosa, dolorosa, è mia solo mia. Credo sia così per qualunque altra persona sulla terra”.
A questa consapevolezza ne segue anche un’altra, quella che la fede cristiana non può restare chiusa dentro le chiese, ma deve avere una rilevanza sociale e nella vita pubblica. L’autrice sostiene di non credere nella “cultura della tolleranza”, ma di professare la “cultura del rispetto”, quella che sa dialogare con l’altro, “perché in fin dei conti tolleri ciò che, nel profondo, non vorresti avere tra i piedi, mentre la parola ‘rispetto’ deriva dal latino “respiscere”, guardare in profondità”.
L’autrice dichiara apertamente che il suo modo di pensare affonda le radici nel cristianesimo sia in Italia che in Europa: “Puoi essere ateo, o buddista, o musulmano, ma se sei nato e cresciuto in Europa i valori cristiani sono anche i tuoi”(…)Considero surreale che nell’Europa di oggi, mentre professiamo la cultura della accoglienza, diciamo anche che per realizzarla occorre rinunciare ai simboli della nostra identità. Vuoi essere buono? Comincia a far sparire le effigie della tua religione…a partire dai crocifissi una volta appesi nelle nostre scuole”.
A riguardo l’autrice porta le sue argomentazioni affermando che “esporre il crocifisso in luogo pubblico non sta a indicare l’imposizione di una religione”; insomma per la Meloni quando nella scuola si appende sui muri il crocifisso, non si attua alcuna una “pressione” su coloro che appartengono ad altre religioni o si determina una “lesione della libertà religiosa degli alunni e una violazione dei genitori ad educare i figli secondo le loro convinzioni.
Dal pensiero dell’autrice si evince la necessità di portare la questione sul “terreno della ragione”, ove tutti, se intellettualmente onesti e liberi da visione ideologizzanti , possono trovarsi d’accordo. La prima cosa che la ragione riconosce è che ogni persona ha la propria identità, i cui significati, però, sono molteplici. L’identità, infatti, se intesa in senso antropologico-culturale, delinea i caratteri salienti di un popolo o di un gruppo sociale ed è costituita dalla storia, dalla lingua, dalle abitudini, dalle tradizioni e dai valori che distinguono una comunità dall’altra. In questa direzione, pertanto, l’identità collettiva nazionale dell’Italia è qualcosa di storicamente e culturalmente diversa rispetto a quella brasiliana, iraniana o del mondo musulmano in genere.
Gli studenti italiani e le loro famiglie vivono le loro esistenze all’interno di una società dove il cristianesimo cattolico, con tutte le sue forme storicizzate, ne ha segnato il cammino. Al di là del fatto se gli studenti siano ferventi credenti o meno, praticanti assidui o meno, testimoni di quei valori morali come la pace, la giustizia, la fratellanza, la solidarietà che il crocifisso richiama, resta certo che la loro dimensione esistenziale è strutturalmente e intrinsecamente contrassegnata dalla cultura cristiana, di cui il crocifisso è il simbolo più alto e significativo.
La seconda cosa che la ragione riconosce è che alla luce di queste considerazioni oggettive, appare improponibile l’idea di esporre pubblicamente il crocifisso perché sarebbe come voler negare o rendere insignificante il fatto che in Italia c’è stato e c’è un patrimonio storico e culturale che ha nel cristianesimo un riferimento identitario fortemente rilevante. Appare anche debole la posizione di coloro che ne auspicano l’eliminazione per evitare discriminazioni rispetto a cittadini che frequentano le scuole italiane e che appartengono ad altre identità storico-culturali e religiose. La debolezza sta nel fatto che ai soggetti con identità differenti, si pensi ai musulmani presenti nelle nostre scuole, si vuole riconoscere il diritto alla loro identità religiosa operando uno svilimento dell’identità di coloro che li accolgono e che cercano, in uno spirito di dialogo interreligioso, di stabilire con loro processi di integrazione. Perché un musulmano che trova un crocifisso dovrebbe sentirsi leso nella sua libertà religiosa, quando lo stesso Corano mette in luce un certo numero di punti attinenti alla dottrina cristiana? Vi si trova, infatti, un rispetto illimitato per Maria, madre di Gesù, che, liberata da ogni attacco denigratorio, è presentata come la più pura delle figure di fedeli (Sura III,42), come c’è rispetto per Gesù (Sura III, 45). E ancora. Perché un buddista dovrebbe sentirsi offeso nel suo credo di fronte al crocifisso, visto che è simbolo di una cultura di vita, di solidarietà e di amore e considerato che il suo Budda gli insegna dei comandamenti simili, del tipo non uccidere, non rubare, evitare le bevande inebrianti, non danneggiare nessun essere vivente, non dire bugie? Perché un taoista o un confuciano dovrebbe essere leso nella sua libertà religiosa, se egli riconosce che Gesù è il Saggio dell’Occidente, degno di essere paragonato ai tanti saggi della storia e della cultura cinese? In una Europa dell’accoglienza il simbolo del crocifisso ispira sentimenti di unità e fratellanza in tutti gli uomini, i quali, invece, riescono anche a dividersi per un valore che non è solo religioso ma anche di grande idealità umana e civile.
Nelle pagine di questo libro non emerge quell’ atteggiamento “antieuropeista” dell’autrice che la narrazione mediatica le attribuisce; scorrendo la lettura si coglie invece il contrario, si avverte la presenza di una visione europea che fa propri i valori del cristianesimo nel pieno rispetto della laicità e delle diversità culturali e religiose; si coglie il modello di Europa che sarebbe – secondo l’autrice – importante costruire, ossia un modello di Europa capace di muoversi e svilupparsi in due direzioni: a)l’Europa politica, sociale e dei popoli, non solo quella dei banchieri, della moneta; l’Europa delle identità socio- politiche, l’Europa che rispecchia le vocazioni territoriali e che evita l’accentramento di gruppi di interesse e il rischio di essere governati da multinazionali; b) l’Europa dei valori, della sussidiarietà e della solidarietà sociale. Senza un progetto valoriale, culturale e di solidarietà tra i popoli non è possibile costruire un’Europa autentica e con un’anima; si costruirà l’Europa delle banche, dei mercati e delle grandi lobby economiche, ma non una civiltà europea in cui possa affermarsi il rispetto della diversità e in cui venga salvaguardato il diritto alla vita e siano tutelati i valori dell’accoglienza, dell’integrazione, della libertà e della democrazia.
L’Europa in questa fase di emergenza costante del fenomeno dell’immigrazione, sta dimostrando, a parole, un grande senso di responsabilità, ma non si può negare che è stata lasciata sola a dover farsi carico della accoglienza. Ce la farà nel tempo a reggere il peso? Ci sembrano queste le problematiche che l’autrice espone nel suo libro con ragionevolezza, sapendo che probabilmente le “costeranno una grossa lettera rosso scarlatto cucita sul petto: ‘Razzista, xenofoba, vergognati’ ”
Dunque, un’Europa dei valori è quella che, secondo l’autrice, bisogna far crescere, un’Europa dove la libertà e la democrazia vengano tutelate dagli attacchi del terrorismo con un sistema di difesa che in atto la comunità europea non riesce a darsi:
“L’Europa che voglio è quella che si occupa delle grandi questioni, come la politica estera e di difesa(….)La mia, insomma, è ‘L’Europa delle Patrie, ma patria anch’essa”(…)
Questo lavoro autobiografico si conclude con delle considerazioni che spiegano il senso dell’affermazione dell’autrice: sono italiana. La narrazione si sofferma sulla pandemia, sulle sue conseguenze nefaste, e apre delle prospettive sul futuro politico del paese:
“Ricucire il rapporto tra popolo e Stato è il compito storico che ci appartiene. Un movimento di patrioti serve a interpretare autenticamente lo spirito della nazione, a difenderne gli interessi culturali, strategici ed economici. E’ in una nazione divisa e frammentata il compito dei patrioti è prima di tutto quello di ricucire le tante ferite che abbiamo ereditato”;
“Mentre il mondo parla Italia, noi parliamo di Prima, Seconda, Terza Repubblica. Queste numerazioni mia hanno stancata, e in fin dei conti ben poco è cambiato fra queste varie presunte fasi della nostra Repubblica. L’unico cambiamento vero sarebbe passare dalla Repubblica del Palazzo alla Repubblica degli italiani”.
Conclusioni
A lettura ultimata di questo libro, trovo che si fa apprezzare sia sul piano del contenuto che sul piano formale e della stesura. Una narrazione scorrevole, avvincente, calibrata nei toni e nelle analisi, che riesce a fare entrare il lettore nel mondo delle paure e dei sogni dell’autrice, nelle sue idee e nei suoi dubbi, che fa emergere anche le debolezze di una “donna soldato” che ha degli ideali da raggiungere e che si confessa apertamente senza infingimenti.
Certo, tutto quello che l’autrice sostiene sul versante politico, presenta parti di verità, ma ci sono anche problemi e dati discutibili che non sempre sono condivisibili, mentre per quanto concerne il racconto della sua parabola autobiografica nulla si può dire nulla perché è uno spaccato della sua vita.
Nel complesso ho letto questo libro senza quei pregiudizi che il mondo dei social e dell’informazione costruisce automaticamente attorno a chi è in prima linea sul versante della politica; ho trovato una donna diversa da quella che appare o fanno apparire nella narrazione mediatica; ho letto questo libro “sine glossa”, non interpretando le parole ma considerandole per quel che significano; ho trovato una donna immersa nella politica e a tratti amareggiata, che soffre il linciaggio morale, che non ama la denigrazione, l’ insulto, ma la politica come strumento di proposta, di ideazione, di dialogo nella diversità; del resto come ogni arte anche la politica ha bisogno dei suoi grandi artefici, leaders e dei suoi artigiani; “naturalmente – diceva Don Sturzo – vi saranno anche dei mestieranti; il pubblico sceglie i suoi beniamini anche fra i mestieranti.”
Oggi non serve la politica menzogna, quasi che mentire fosse un obbligo; non è così. La menzogna viene sempre a galla, ritorna più a danno che a utile. “Se è vero che Bismarck – scriveva Don Sturzo – diceva di usare in diplomazia la verità per far credere il contrario, è più esatto affermare che la verità in diplomazia è un mezzo che presto o tardi produce i suoi frutti inestimabili di comprensione, fiducia, simpatia e solidarietà”.
Oggi serve una politica che coniughi idealità e realismo, valori etici, abilità e competenze; una politica che non abbia timore di dire il no, che non prometta quel che dubita di poter mantenere, che non rimetta a domani quel che può fare oggi e che non faccia in fretta quel che può fare domani con calma.
Serve una politica più moderata e più umile e che abbia la consapevolezza di capire che la folla che applaude durante i comizi è la stessa folla che potrà un domani essere avversa.
9 commenti su ““Io sono Giorgia. Le mie radici, le mie idee”…di Domenico Pisana”
Nella sostanza una donna come spesso si dice che si è fatta da sola, una strada tutta in salita, forse un po’ di pianura, mai una discesa!
Seppure da tempo sono apolitico, come spesso ho sottolineato ho apprezzato la Meloni per la sua coerenza politica, non si è voluta inciuciare con la marmaglia e di riflesso è meno ricattabile. Il che le rende le cose che dice o le posizioni che prende più facili. Non deve rendicontare a Draghi!
Leggendo il suo lungo articolo, a tratti mi sono appassionato perché in tante cose, (che per la verità non sapevo) specie sull’Europa, mi ci rivedo ed era come se avesse letto i miei commenti. Gli ideali della Meloni, mi sembrano veritieri in quanto semplici e facilmente attuabili, non fantasiosi, non velleitari come invece i suoi colleghi, consumano tanta di quella saliva che poi devono prosciugare il Mar Nero per insalivarsi le bocche.
La sua infanzia accomuna tanti uomini e donne comuni, qualcuno potrebbe pensare: ne avrà viste di cattiverie, di ingiustizie, di dolori, caspita che vita! Io dico: una vita!
Come ogni lavoro o carriera, specie se parti dal basso, puoi salire, ma arrivato in cima poi devi saperci stare, devi mantenerti saldamente se non vuoi rovinare giù drasticamente. Auguro alla Sig.ra Meloni che possa realizzare quanto esposto nel suo libro (che non comprerò), e di riuscire a portare avanti i suoi ideali con la determinazione che in questi ultimi tempi l’ha contraddistinta.
Ps: Prof. Pisana, anche Renzi ha pubblicato il suo libro, non è che mi fa arrabbiare la Faletti?
Con affetto alla Dott.ssa Faletti…….
《ho trovato una donna immersa nella politica e a tratti amareggiata, che soffre il linciaggio morale, che non ama la denigrazione, l’ insulto, ma la politica come strumento di proposta, di ideazione, di dialogo nella diversità》.
Trovo una grande ipocrisia di fondo in questa SUA “recensione” assolutamente non imparziale.
Poiché conosco molto bene le sue posizioni oscurantiste non mi meraviglio che si ponga estimatore di una certa cultura “Ciellina integralista” definita di destra.
Il linciaggio morale è figlio delle sue parole e azioni, da anni è promotrice di una cultura di violenza che la pone al vertice di un gruppo politico dedito alla persecuzione delle minoranze (ed è paradossale come ella rappresenti il volto di un mondo che non vuole accettare il cambiamento, che non accetta dimensioni femminili, a parte la sua, al di fuori del focolare domestico).
Non indugio oltre, il discorso non merita ulteriore buonsenso.
Una donna che si è fatta da sola, ma veramente dite? E’ nata dal berlusconismo più sfrenato, degna adepta del movimento “leggi ad personam”, sostenitrice di Ruby rubacuori, nipote di Mubarak… e non andiamo oltre. Oggi ha raccolto il peggio del peggio della peggior destra ancora in vita in Europa. Si è posta all’opposizione per gonfiare il proprio seguito da persone di destra estrema e orgogliosamente “fascista” attorniati da una insalata di persone deboli e insicure sedotte dall’arroganza e dagli slogan in salsa burina. Ma questa è la cultura di destra ?
Poi c’è da dire che San Giorgio ha sconfitto un drago, il problema è che i “Draghi” sono molti e San Giorgio è uno solo……..
@ puppetta:
Mio malgrado preferisco la Meloni a cento Draghi .
Le ricordo che i muratori, sono peggio della mafia..vanno a braccetto con tutte le associazioni malavitose..
puppetta, non si arrischi a parlar male di fascisti o populisti che la sbranano, si ricordi il motivo perchè il sud è sottosviluppato, rifletta puppetta e poi legga i commenti, ma non solo di persone deboli che si gonfiano con potenti appellativi, ma anche di pseudo intellettuali catto-fascisti che a tanti fanno intendere di essere catto-comunisti. Sono la stessa cosa, purtroppo, sono il degrado culturale di una Italia a due velocità, un nord egoista e ricco ed un sud ignorante e infarcito di malaffare.
puppetta, lasci stare tanti commenti di persone semplici che adorano catto-fascisti che si atteggiano da catto-comunisti. Ha ragione quando scrive che l’Italia ha la peggior destra d’Europa, purtroppo. Andare avanti senza curarsi di loro, saranno sempre dalla parte sbagliata della storia.
Affinché possa esistere un Nord opulento, DEVE esistere un Sud disastrato, succube ed affamato.
Non per niente , qualche secolo fa hanno incaricato Giuseppe di sbarcare a Marsala…
Solo dopo si rese conto di essere stato usato, e decise di ritirarsi a Caprera.
Capimastri e muratori erano già presenti quando emerse il brigantaggio.
Poi dopo emerse la mafia…
Il vittimismo siculo è una costante che si perpetua, purtroppo. Ma volevo dire che, più che altro i siciliani sono così per scelta. terrorista cita Giuseppe, ma tantissimi in Sicilia si unirono a quei mille al seguito di Giuseppe. La Sicilia da sempre ha accolto tutto, salvo poi a lamentarsi dopo, i siciliani non sono così incapaci come lei scrive terrorista, lei parla che siano “disastrati, succubi ed affamati”, non non è completamente vero, i siciliani sono proprio così per scelta e non è colpa di Giuseppe Garibaldi, non è colpa della Democrazia Cristiana, non è colpa di Berlusconi, non è colpa di Musumeci o di altri e non è colpa del m5s, i siciliani sono così per carattere, accolgono tutti e poi quando passa qualche tempo tutti a lamentarsi. Rilegga la storia terrorista, anche durante l’epoca degli spagnoli i siciliani si lamentavano dei Borboni, ma da sempre è stato così. E non lo dico solo io, lo hanno detto in tanti, ad esempio un altro Giuseppe, un tal Giuseppe Tomasi di Lampedusa, proprio quello del Gattopardo, lo legga, legga cosa spiegava del popolo siciliano. E poi, terrorista, lasci stare maestri muratori o capimastri… i briganti erano già presenti, e continuano ad essere presenti anche oggi con nomi diversi. Terrorista, il problema della Sicilia è il degrado culturale di un popolo (naturalmente esistono tante eccezioni, magari molti non sono più, ma erano eccezioni come Falcone e Borsellino ad esempio), è un degrado culturale che viene sfruttato talvolta anche pseudo intellettuali estremisti.