
Due autrici siciliane meritevoli di attenzione, e la cui voce poetica ha oltrepassato l’isola e la penisola, sono sicuramente quelle di Floriana Ferro e Kiara Quaquero.
La prima, Floriana Ferro, è catanese, ed ha trascorso alcuni periodi all’estero come “visiting scholar” a Stanford, e “chercheuse libre” alla Sorbona. Ha frequentato il Dottorato di ricerca in Filosofia e Storia delle Idee presso l’Università di Catania, occupandosi di filosofia contemporanea, in particolare dell’etica intersoggettiva di Levinas.
La Ferro, che vive e insegna a Udine, è una poetessa che sa dare di se stessa una profonda spiritualità, con un eloquio lirico che vive l’empatia con il tempo, le stagioni e la terra intesa come radicamento nelle proprie origini.
Dopo il suo esordio letterario con il romanzo “Il viaggio di Sofia”(2007), vincitore, nel 2008, del Premio Letterario Internazionale Archè, VII Edizione, ha intrapreso un percorso poetico intenso e ricco di pathos interiore, pubblicando due raccolte poetiche: “Danza di equinozi”, A&B Editrice, e “Il ventre della terra” , Armando Siciliano Editore.
Quella di Floriana Ferro è una poesia che vive di respiri filosofici gradevoli e che reinterpreta e fissa sulla pagina frammenti d’esistenza che si snodano in liriche armoniose e delicate che giungono al lettore come carezze d’anima.
La silloge “Danza d’equinozi”, tradotta anche in inglese, risulta divisa in varie sezioni: “Mormorio di primavera”, “Vapori delfici”, “Chimera”, “California”, “Nido disfatto”, “Deliri di Marsia” e “Tempo d’inverno”. In ognuna di esse la poetessa utilizza un registro stilistico connotato da brevi liriche, da testi poetici quasi in forma di epigramma, e da poesie con un timbro ora ermetico ora sperimentale, ora allusivo ora analogico, ma tutte convergenti verso un esistenzialismo in cui il senso della vita e delle cose, la speranza e il destino dell’uomo, la caducità dell’essere, il futuro e il valore del tempo, la solitudine e il dolore, l’incapacità di amare e di comunicare si accampano come motivi portanti della strutturazione del suo poetare.
Che cos’è l’uomo, per la poetessa, se non un soffio, un germoglio, un insieme di pollini che si perde nell’aria, (“siamo germogli / una mattina di primavera /pollini dispersi /dal vento di Levante /destinati a svanire nell’aria / ci adagiamo impalpabili nel giaciglio della vita, in “Dispersi”) ; e che cos’è l’essere nel tempo, se non un dialogo con la solitudine (“…sorda agli idiomi / di una moderna Babele / mi rifugio in solitudine” ), e un camminare verso un destino inconoscibile che si affaccia all’orizzonte; che cos’è, ancora, la vita, se non la leggerezza di un volatile e la finitudine dell’esserci come creature minuscole rispetto al battito delle stelle:
previsione
di percorsi terrestri
tra capricci di venti
funzioni di nubi
memoria d’ossa e sangue
dirige all’approdo
su rami secchi
(Volatili)
fuggo
le spinte del rock
gli agglomerati di luci
gli schiamazzi
urlo
tra il battito pulsante
delle stelle
minuscola
(Minuscola)
Tutte le sezioni di questa silloge sono dunque uno sguardo sul mondo con un logos poetante che richiama miti ancestrali (La sfinge, la Chimera, il Terrore di Atteone, Apollo, Dionisio, ); che riflette su malinconie e inquietudini interiori (“Restano solo / polverose /macerie /d’anima” ); che cerca il ritorno alla terra: “ogni tanto ritorno / a una terra di padri stanchi / a madri che lasciano i figli …”, in “Cronaca”; “…mi richiami all’isola / genitrice prima / con fiori di zagara / mi abbandono / a braccia materne”, in “Fiori zagara”.
I temi poetici della poesia di Floriana Ferro sono sempre rivestiti di una delicatezza comunicativa che pervade ogni lemma utilizzato nella articolazione delle diverse strofe; ad esempio, nella sezione “Nido disfatto” l’autrice prende ad emblema “gerani tra le briciole del mondo” simboleggiando in essi condizioni e stati d’animo, sentimenti, limiti e chiusure attraverso oggetti e figurazioni di rilevante polisenso: “aria”, “innocenza”, “madri”, “mura”, “solchi”, “foglie”, “tele”, “spazzatura”, “spartiti” (in “Gerani”); della stessa delicatezza sono i versi delle liriche “Virginia”, “Annalisa”, “Donna”, “Grazia” e tante altre poesie ove l’autrice intreccia forme e linguaggi che rivelano latenti significati radicati negli strati più profondi del suo io.
Tutta la poesia di Floriana Ferro si offre al lettore come un tentativo di cogliere un “quid” ineffabile e inafferrabile e che si nasconde nel suo magma linguistico, spaziale, ontoetico e filosofico:
…Mi pasco di stelle
inchiodata su Marte
appesa per il petto
con la schiena inarcata…
(Stupro celeste)
…prole nella via Lattea
mi dileguo in buchi neri
e li disvelo intatta
(Esplosa)
Sfoglio petali di carne
e indago sui tuoi tumulti
Vagheggio distratta l’incontro
tra coperte disfatte
e mobili vittoriani…
(Petali di carne)
In un’atmosfera ricca di passione, di sensibilità interiore, di affacci dentro la coscienza pensante è avvolta la seconda silloge poetica di Floriana Ferro, “Il Ventre della Terra”. Qui la voce interiore della poetessa evoca il richiamo alla terra come luogo d’origine e come madre che genera la vita; risplende della sua spiritualità incarnata in un corpo che non è solo materia, ma abitazione di un’anima dove l’amore si esprime nella sua pienezza.
L’ispirazione della Musa conduce, infatti, i versi di questa silloge dentro un circuito sentimentale e razionale ove la poetessa disegna con nitidezza frammenti d’esistenza che cercano di capire tutto quello che si agita nel “ventre della terra” , e che cercano di cogliere i segni di bellezza e di gioia anche dal dolore, così da ritrovare un equilibrio interiore tra opposti nel quotidiano di una terrestrità libera da orpelli e finzioni sociali.
Uno scavo interiore dal quale l’autrice trae fuori “piccoli specchi d’anima”, appare la poesia di Kiara Quaquero contenuta nella raccolta “Tra folla e follia…”, Itinerarium Editrice, ove trovano convergenza, nell’unità di versi intensi e ricchi di pathos umano, le sue “voragini affettive”, le sue “ferite d’animo”, i suoi sogni e le sue fantasie.
Kiara Quaquero, modicana che vive a Londra, è una personalità versatile; ha conseguito la Laurea in Scienze della Mediazione linguistico-culturale presso l’Università “La Sapienza” di Roma, ed ha altresì ottenuto la certificazione alle abilità di traduzione alla Westminster di Londra; è anche una musicista diplomata in batteria alla Drumtech di Londra, e lavora nel settore del turismo internazionale come Tour operator.
Per l’autrice modicana la poesia incanta, disvela, persuade, inganna, emoziona e diletta; è percepita come una madre che si fa compagna di viaggio sin dal suo primo impatto con la città londinese, come risulta evidente in sua poesia, ancora inedita, ove rievoca i suoi sentimenti appena entrata in contatto con la grande capitale:
Mi ritrovai in un paese straniero,
dove nessuno conosceva la mia storia
né tanto meno chi fossi…
…Quella madre dal freddo caino
mi benedii fin da subito
con una pioggia anch’essa estranea,
fu simile a un bacio invernale e indifferente.
Dal cielo londinese non filtrava nessuna stella,
solo le luci razionali e amare della città!
Una città che ingloba senza renderti partecipe!
Il grande orologio tiene il suo beat inerme e incontrollato.
Le strade a flusso si riempiono di cartelloni e carte di credito,
e qualcuno rimane a commuoversi oltre quella vetrata,
in quella caffetteria un uomo beve solo!…
… Questa è la notte di Londra,
quella che mi accolse la prima notte,
una notte diversa,
una notte in cui stavolta non mi fu possibile salutare la luna.
Quella notte non mi volli fermare,
la mia marcia sembrava semplice ed infinita,
mi intrattenevo per non impazzire ….
(da: Londra dagli occhi di un italiano)
Le poesie di Kiara Quaquero contenute nella silloge “Tra folla e follia…” – come scrive la stessa autrice – sono “come un ‘paradiso interiore’, a cui non a tutti è dato entrare” perché il poeta usa simboli, metafore, reiventa tutto: “Quella poesia crescente, / che tu leggi, / e dici mia, / …Io sento… /..Non mi appartiene.. / perché non sono io.. / a donarle aspetto!, in “L’inganno è al poeta”.
Già dall’incipit della silloge appare evidente come la parola poetica giuochi una funzione allusiva rilevante; le parole sono “battito” (“Sento il loro battito, / trasudano di respiri densi /di sangue appena concesso”); sono “Filo intercessore collegato al resto / che non comprende”; sono “ronzii troppo fragili, echi di vetro soffiato…” Quelle di Kiara Quaquero sono, ancora, parole poetiche che proiettano lo sguardo sui personaggi della modernità che ha costruito l’uomo macchina: “L’uomo che non è più il grande agricoltore, / il cowboy padrone, / ma semplicemente un individuo / sottomesso alla macchina../ fin dai tempi di Chaplin”); sono parole che s’involano tra la confusione di città avvolte nell’incomunicabilità strisciante e nella follia di gesti distratti e privi di senso:
Rumori egoisti
Vivono in folle gremite di cecità…
La sarta urbana è rapida e veloce:
Ne intreccia culture,
Comunicazione rossa di sguardi,
Forse mortuarie di parole,
Catene,
Amori venduti…
( Città)
Il registro stilistico e formale della silloge “Tra folla e follia” si muove con rapidità di immagini e costrutti ove anche gli spazi, i puntini di sospensione esprimono parole non dette; tutto, insomma, è orchestrato verso una costruzione di messaggi sociali ed esistenziali, come quelli, ad esempio, derivanti da figure di donne che vivono nell’indifferenza della folla: “Sotto le scale di una chiesa / Aleggiava appena la sua musica…”, in “Alla violinista di strada”; ed ancora di silenzi, soprusi, arroganze e accadimenti che disegnano il volto di una umanità che “freme e traballa / dal peso piangente di modernità” , ma che la poetessa auspica possa ritrovare il senso dell’altro, come scrive nel suo canto prosodico “Monologo”: “Un giorno torneremo a cantare, a superare l’incomunicabilità umana, / porteremo rispetto alle nostre idee, / troveremo nuove definizioni alla parola chiave-cuore, /il nichilismo verrà pressoché abbattuto, / il vedere diverrà un sentire profondo e sincero…”
Il tema dell’amore caratterizza la parte centrale del volume, ove la poetessa viaggia dentro le dimensioni più vere ed autentiche del sentimento più grande del vivere umano, non rinunciando anche ad affacci autobiografici (“…Non nascondere il tuo volto.. oh mio amato categorico! /Regalami ancora parole di carta / e rovi di spine..”, in “Vuoto d’aria”), e abbandonandosi, inoltre, a toni lirici tagliati con risentimento: “…Lasciami abortire il tuo amore, /cicatrizzami…”, in “Novermore”.
La poetessa ricuce nella sua versificazione filamenti di un amore perduto , nonché stati d’animo, sentimenti e risentimenti, passioni e delusioni che disegnano il percorso di un poetare dolorante che si fa ora accusa (“…Verme / Uccidesti il cor di me); ora profezia ( “Un giorno …/Guardando il tuo cuore, /scorgerai il mio, /dimorare ancora, dentro di te…”); ora svelamento d’inganno (“…Giocavi con le mie mani /conoscendo le mie certezze. /Mi condannavi al ridicolo /purché grande apparissi…”); ora rievocazione cardica di una condizione esistenziale segnata dalla sofferenza: “Insonne…/ Nell’etere dei miei sogni…/ Seggo sulla mia poesia, /guardando il mondo da una penombra, / appena dietro una finestra, / come separata dalla vita…/ proprio lì../ come se non avessi senso…”.
Kiara Quaquero è una poetessa che usa registri stilistici vari ma sempre in dinamico movimento, ed anche quando i suoi versi si allungano in circuiti prosodici non perdono mai la loro bellezza lirica, immaginifica ed interiore, essendo impregnati di un vitalismo realista che si fa parola allusiva ed incisiva , come , ad esempio, nel monologo “Tra palco e realtà”, ove la musica riesce a farla sognare con la consapevolezza della sua “sicilitudine”: “Innalzandomi a suonatore / Mi dono facce rare, oltre le mie capacità!!!…”
La silloge “Tra folla e follia”, che contiene anche un apparato iconografico caratterizzato da disegni che esplicitano il magma interiore della poetessa, si chiude con versi che hanno il sapore della malinconia , del ricordo, della riscoperta della fede religiosa, della riflessione che la induce a dire che “la vita non è così semplice”:
…Triste,
tristissima è questa vita…
ferisce come un pungiglione”
e non chiede scusa…
dissemina panico in pensieri confusi…
e ti lascia in silenzio in uno scompartimento di treno…
(Come un pungiglione)
A questa elegia malinconica, che potrebbe apparire cupo pessimismo, la poetessa contrappone tuttavia un orizzonte di senso e di matura esegesi delle complesse vicende della vita, atteso che nella poesia “Dialogo di due amici…SMS notturni” è consapevole che “la vita è un’espiazione senza fine” e che “il dolore ha un suo senso / bisogna imparare a viverlo e a sopportarlo, /ne fai maturità e saggezza.. capisci l’umiltà…”.
Da questi versi trasuda la bellezza di una spiritualità religiosa che fa dire alla poetessa “Senza fede nulla ha più senso!”, “pregherò ancora, /mi volgerò a Dio, sorriderò anch’io../…in fondo sto solo vivendo;” si eleva inoltre una spiritualità che sa specchiarsi nella luna , che riesce a farsi respiro lirico e a divenire quasi autoconfessione di sé e di “altro oltre il se”:
Vagabonda,
solitaria dalle forme provvisorie,
silenziosa in notti gaje e tristi,
candida bambina traditrice,
ora imponente,
ora timida,
a te si ricongiungono
gli animi allegri,
gli angosciosi pensieri,
gli sguardi sognanti:
simbolo incoronato delle tenebre
dall’antichità..all’eterno…
straziante e il tuo declinare:
Buona notte…Luna
(L’ultimo sguardo, prima del sonno)
Dal punto di vista formale la poesia di Kiara Quaquero si sviluppa con una strutturazione che viaggia, anche se in modo disomogeneo, sui binari di una creatività che cerca sempre le “corrispondenze” e i legami con ciò che va oltre le apparenze, e che , pertanto, non rinuncia, in alcuni casi, ad accostare il sublime e l’impoetico con soluzioni simboliche e metaforiche che mettono a nudo i conflitti interni di una società divenuta “folla anonima” di comune solitudini, dove il rapporto tra l’io e il tutto si trasforma spesso in follia.
Il linguaggio della poetessa e insieme razionale ed emotivo, dichiarativo e ineffabile, prosodico e realistico, suggestivo ed evocativo, ma sempre necessitato dal bisogno di dire parole di verità nell’ottica del superamento di una assuefazione sociale rassegnata.
Una vita, una storia, una spiritualità, un’avventura, una costruzione di sogni e di speranze vibra, per concludere, in tutto il poetare che Kiara Quaquero ha maturato nella sua città di Londra, ma che , tuttavia, non ha mai perduto il senso delle radici, i flussi memoriali e di legame con i suoi affetti più intimi, con la sua terra, la Sicilia, che viene cantata e trasfigurata con la bellezza di immagini rimaste indelebili nel suo cuore e nella sua mente, e che la poetessa rivive in una sua bella lirica ancora inedita:
La mia campagna non sa di confetto,
È amara, rocciosa, spinosa …
La mia campagna sa Di ulivo, Di arancia, Di limone
e pini per i defunti assieme a salici piangenti.
La mia campagna non è ordinata, omogenea, intelligente
ma le margherite gialle e quelle bianche accolgono in bontà
e schizza tutto come un quadro di Van Gogh.
La mia campagna brucia nella dormiveglia di un contadino,
il dialetto stretto della gente innanzi a portoni sempre aperti,
le case scheletriche di Gela, Monreale e Canicattì,
perimetri in muro a secco,
binari in ferro indebolito,
strade battute fin troppo stanche.
Le punte dei tetti piene di croci
in preghiera su di un’isola
posata, pare, su di una nuvola, e riposa…
e il mare si fonde al cielo … in un panorama che sa soltanto … di Sicilia …..
( Sicily)