Pur se non privo di ombre , il macerato ermetismo di Quasimodo non può, sicuramente, essere interpretato come una forma di chiusura alla vita, una sorta di autoconsolazione fondata sul giuoco della parola poetica né come un’ alienazione dai processi storici della vita; c’è, piuttosto, in questa prima esperienza poetica quasimodiana una riflessione sulla esistenza, condotta come un “monologo” in cui compaiono voci, figure, immagini, analogie, metafore che presentano una suggestione di effetti allusivi, sinestetici e di rigore stilistico.
E’ in questa visione dialogica con se stesso che Quasimodo fa la sua dichiarazione di poetica e che apre i suoi versi anche ad orizzonti di ricerca religiosa e di trascendenza che lo distinguono dall’amico Montale, la cui visione dell’esistenza, invece, risulta fondata su una sorta di teologia negativa.
Nelle prime raccolte quasimodiane c’è, infatti, un senso della fede in Dio che non può essere certamente sottovalutato. Ma quale Dio? Attorno a tale questione esistono vari interventi critici tra di loro divergenti.
1.Quale fede e in quale Dio?
Se, da una parte, Barberi Squarotti sembra orientato a sottovalutare la dimensione del “sacro” nella poesia quasimodiana nonché ad escludere forme di trascendenza nel suo itinerario lirico, dall’altra Carlo Bo e Sergio Solmi sono del parere che esiste nella poesia di Quasimodo una tendenza mistica, una ricerca religiosa, un bisogno di infinito e di eternità, mentre Oreste Macrì, pur considerando la fede religiosa una componente della poesia quasimodiana, ritiene che si tratti di una credenza in un Dio astratto e generico.
Queste tesi non sembrerebbero, comunque, reggersi adeguatamente, se è vero che da alcune testimonianze e documenti scritti emerge con chiarezza una fede non di tipo immanentistico, ma essenzialmente radicata nel cristianesimo. In tal senso ci viene incontro un’intervista di Ferdinando Camon, nella quale Quasimodo afferma: “Il mio problema religioso riguarda il Dio cristiano. Non si può pregare un Dio generico. Io non ho mai dato manifestazioni di ateismo: questa è la vera causa dei dissidi con i movimenti politici di sinistra”. E ancora: “Quando conobbi La Pira mi ero già accostato ai testi sacri, per conto mio. C’è stato fra me e La Pira uno scambio epistolare: La Pira prospettava spesso ai miei problemi aperti una soluzione nell’accostamento al modello dei Santi…( da: “Il mestiere di poeta. Autoritratti critici”, a cura di Ferdinando Camon, Lerici, Milano, 1965.
Anche da un’altra intervista rilasciata da Quasimodo a Claudio Casoli e pubblicata su “Ekklesia” del luglio-agosto del ‘68, traspare chiaramente come la fede del poeta fosse di formazione cristiana:
“La mia formazione – afferma infatti il Nobel – è stata quella di tutta la mia generazione: educazione formalmente cristiana e cultura umanistica. Mio compagno d’infanzia è stato Giorgio La Pira. Ho delle sue lettere; mi esorta ad una forma attiva di religione, mi dice: ’vai a confessarti!’. Io ho sempre provato difficoltà; per questo ho scritto anche una poesia che incomincia ‘Mi trovi deserto, Signore, nel tuo giorno’”( Cfr. G. Miligi, “La Pira-Quasimodo. Carteggio”, Artioli Editore, Modena, 1998).
Nella dichiarazione rilasciata a Casoli colpisce di sicuro quel “formalmente cristiana”. In fondo, Quasimodo è intellettualmente onesto, perché riconosce che la sua fede cristiana è un patrimonio ereditato ed accettato in maniera più formale che sostanziale, e difatti egli si pone di fronte al Dio cristiano più in termini intellettuali e filosofici che in termini pratici o, come lui stesso afferma, di forma attiva di religione.
Tutto questo spiega il perché del suo interesse per la lettura dei testi sacri, che lo spinge perfino a tradurre il vangelo di San Giovanni “perché – come lui stesso dice a Casoli – era il più difficile e mi prometteva di chiarire il rapporto di me, uomo, col termine ‘Dio’. La stessa ricerca l’avevo fatta prima sui testi di Sant’Agostino e su Spinoza. Però avevo sempre seguito Sant’Agostino, ma fino al momento in cui giunge alla fede. Lì Sant’Agostino non scrive più. S’inginocchia e prega. Il suo problema finisce lì, è risolto”.
Un altro documento a sostegno del “sensus fidei” cristiano di Quasimodo è certamente la testimonianza di Cinzia Ferrari:
“… Chiedendomi fino a che punto fu, nell’anima, cristiano, devo concludere che lo fu certamente in misura molto maggiore di quanti compiono puntualmente le devozioni prescritte dalla Chiesa. Malgrado i dissidi, l’attaccamento morboso a certe cose della terra, la gelosia per ciò che riteneva gli appartenesse di diritto, le superstizioni non so fino a che limite profane perché quando esigeva una certezza i giuramenti dovevano avvenire sul rosario, malgrado tutto questo la sua adesione intellettuale al Cristianesimo era profonda. Sentiva di essere chiamato alla cima e aveva la volontà di giungervi: mi pare sia moltissimo.
La sua costituzione intima si rifiutava invece alla pratica pubblica: ma quanti di quelli che si credono cristiani perché vanno in Chiesa, lo sono veramente? Io non ho mai visto Quasimodo sottrarsi alla richiesta di un bisognoso, di un istituto di beneficenza, di un ospedale. Ha sempre dato a tutti e in misura superiore a quanto gli consentissero le sue possibilità. Questo, lo so, non significa essere religioso; ma è certo che il dovere della carità costituisce la pietra basilare del Vangelo. Si dirà che il vangelo raccomanda anche d’essere umili, casti, benigni e dolci: e Quasimodo era ben lontano dal riunire in sé queste prerogative…. La poesia di Quasimodo crea in chi legge un’atmosfera di riverenza verso il mistero che ci sta di fronte. E, come abbiamo visto, si trattava dell’ansia del poeta di comprendere quelle trascendenze che hanno nome Dio, anima, aldilà…”(G. Miligi, op. cit., p. 172).
Le parole della Ferrari offrono un quadro della personalità religiosa del poeta siciliano, quadro nel quale si colgono le luci (“la dimensione della carità e della solidarietà”) e le ombre (“i dissidi”, “la gelosia”, “l’attaccamento morboso a certe cose della terra”, “le superstizioni”, etc) del “modus vivendi” la sua fede cristiana.
Certo, il poeta non brillò molto nella sua vita per una adesione coerente al credo cristiano, tuttavia sentì sempre nella sua anima una tensione verso le mete alte dello spirito e un’attenzione verso le situazioni di bisogno delle persone più deboli.
2. L’animus religioso di Quasimodo
“Acque e terre” (1930) è la prima raccolta quasimodiana. Si tratta di un’opera nella quale il poeta lascia intuire, tra le altre cose, un’inquietudine che si essenzializza, con un linguaggio espressivo ermetico, nella tematica della solitudine. La lirica che apre la silloge, “Ed è subito sera”, è emblematica di questa condizione esistenziale in cui l’uomo appare solo con se stesso; ma anche in altri testi della raccolta, che qui di seguito riportiamo, c’è una visione di dolore, di incomunicabilità, di fugacità della vita umana, la quale si esaurisce con la stessa rapidità con cui luce e buio, giorno e notte si succedono quotidianamente:
…
Aspro è l’esilio,
e la ricerca che chiudevo in te
d’armonia oggi si muta
in ansia precoce di morire; …
(Vento a Tindari)
…
riso di giovinezza, dolore,
dove occulto cercasti
il nascere del giorno e della notte.
(Angeli)
…
Dolore di cose che ignoro
mi nasce: non basta una morte
se ecco più volte mi pesa
con l’erba, sul cuore una zolla.
(Dolore di cose che ignoro)
…
Altra vita mi tenne: solitaria
fra gente ignota; poco pane in dono.
In me smarrita ogni forma,
bellezza, amore, da cui trae inganno
il fanciullo e la tristezza poi.
(In me smarrita ogni forma)
L’inquietudine di Quasimodo nasconde un’ansia di infinito, un bisogno di trascendenza, tant’è che addentrandosi in “Acqua e terre” è possibile cogliere subito l’angolazione religiosa del suo dettato poetico, come, ad esempio, nella lirica “Si china il giorno”. Si tratta di un testo colloquiale che si snoda quasi come una sorta di dialogo tra l’io poetante e Dio:
“Mi trovi deserto, Signore,
nel tuo giorno,
serrato ad ogni luce.
Di te privo spauro,
perduta strada d’amore,
e non m’è grazia
nemmeno trepido cantarmi
che fa secche mie voglie.
T’ho amato e battuto;
si china il giorno
e colgo ombre dai cieli:
che tristezza il mio cuore
di carne!”
L’animus religioso di Quasimodo si evidenzia in quel susseguirsi di stati interiori suoi propri, espressi con una corrispondente terminologia (“deserto”, “serrato”, “privo”, “tristezza”) che lascia trasparire il senso negativo di un’esistenzialità che sembra fare fatica a trovare uno sbocco nella fede.
La versificazione si caratterizza per il tono confidenziale (“Mi trovi”, “Di te”, “T’ho amato”); il poeta fa la propria confessione a Dio: “Mi trovi deserto, Signore, / nel tuo giorno, , / serrato ad ogni luce…”). È la confessione della propria aridità spirituale, simboleggiata dal “deserto”; è l’attestazione di chi si sente soffocare dalle tenebre, espresse con un giuoco di contrapposizioni (“serrato ad ogni luce”).
La lirica si sviluppa, poi, su due linee di movimento:
– la presa di coscienza dell’attenuarsi del vissuto religioso: “Di te privo”, afferma il poeta: è una privazione che gli ha tolto ogni forza, ogni desiderio e che ha indebolito il suo canto lirico (“…nemmeno trepido cantarmi / che fa secche mie voglie…”);
– il naufragio in una tristezza interiore: il poeta avverte che il suo cuore è in tempesta, che la tristezza del vivere ha preso il sopravvento, al punto da fargli vedere intorno solo buio e oscurità./Continua