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La “teologia della speranza” nel poeta Rebora…di Domenico Pisana

Tempo di lettura: 2 minuti

L’itinerario poetico di Rebora si connota, a partire dalle sue “Poesie religiose”, 1936-1947, come un viaggio interiore teso ad intraprendere un vero e proprio cammino dell’anima verso Dio. C’è una lirica, dal titolo “La speranza”, che è emblematica di questo percorso di fede e di espressione epifanica della sua vocazione religiosa; ricordiamo che il poeta prese gli ordini nel 1936. Ma andiamo al testo della lirica:

Speravo in me stesso: ma il nulla mi afferra.
Speravo nel tempo, ma passa, trapassa;
In cosa creata: non basta, e ci lascia.
Speravo nel ben che verrà, sulla terra:
Ma tutto finisce, travolto, in ambascia.

Ho peccato, ho sofferto, cercato, ascoltato
La Voce d’Amore che chiama e non langue:
Ed ecco la certa speranza: la Croce.
Ho trovato Chi prima mi ha amato
E mi ama e mi lava, nel Sangue che è fuoco,
Gesù, l’Ognibene, l’Amore infinito,
L’Amore che dona l’Amore,
L’Amore che vive ben dentro nel cuore.

Amore di Cristo che già qui nel mondo
Comincia ed insegna il viver più buono:
Felice amore di Spirito Santo
Che trasfigura in grazia e morte e pianto,
D’anima e corpo la miseria buia:
Eterna Trinità, dove alfin belli
– Finendo il mondo – saran corpi e cuori
In seno al Padre con la dolce Madre
Per sempre in Cristo amandosi fratelli,
Alleluia.
(Da: Poesie religiose, 1936 – 1947)

In questa poesia c’è un chiaro processo di movimento verso la dimensione teologale dell’esistenza. Il poeta nei primi tre versi supera il limite di una concezione immanentistica della vita, secondo cui l’uomo pensa di trovare soltanto in se stesso ogni risposta e speranza al senso della vita; Rebora, invece, prende alla fine atto che dietro tale visione di terrestrità non c’è altro che il nulla e lo svanire delle cose e del tempo: “Speravo in me stesso: ma il nulla mi afferra./ Speravo nel tempo, ma passa, trapassa”. Tale consapevolezza va oltre il dato personale del poeta per allargarsi anche al cammino dell’umanità, cammino che per Rebora spesso è destinato a consumarsi e risolversi in realtà angosciosa.
Nella prima strofa di cinque versi, il poeta rilegge dunque in modo retrospettivo il suo tormento esistenziale e relazionale fino a dichiarare, a partire della seconda strofa, quasi come in una autoconfessione, di aver peccato, di aver sofferto, di aver scavato dentro se stesso alla ricerca di un senso del proprio esistere. Il punto di arrivo e di partenza della vita di Rebora diventa la Croce, vera “spes contra spem”. E così, dentro la teologia della croce il poeta trova il luogo certo e solido su cui poggiare la speranza.
Se il primo Rebora vive atteggiamenti illuministici, tant’è che lo stesso Montale su “La Gazzetta di Parma” del 21 novembre 1957 parla “di un suo giovanile illuminismo di carattere tipicamente lombardo”, in sintonia con uno dei più autorevoli critici di Rebora, Gianfranco Contini, che “poté citare per lui persino il nome del Parini”, il Rebora degli anni 1936-1947 intuisce che la modernità ha creato una visione unidimensionale dell’uomo, cadendo in un grosso errore. Il poeta capisce, in buona sostanza, che l’esistenza umana non può guardare solo a ciò che è materiale, dimostrabile, scientificamente possibile, ma deve saper riscoprire la dimensione dello spirito che apre alla trascendenza, a tutti quei beni immateriali che rientrano nell’ambito di ciò che è bello, vero, buono e giusto.
Insomma, il secondo Rebora intuisce che togliere Dio dalla vita dell’uomo significa affermare una negazione radicale della dimensione del trascendente, proiettando le speranze della società in un assoluto antropocentrismo, ecco perché dice il poeta – “sulla terra… tutto finisce, travolto, in ambascia”.
Con la riscoperta della fede, Clemente Rebora guarda la storia con gli occhi della croce di Gesù Cristo: “…Ed ecco la certa speranza: la Croce.”. Si tratta della Croce simbolo “dell’Amore che si fa dono”, di quell’Amore che il poeta ha trovato nella rivelazione di Cristo, di quell’ “Amore che dona l’Amore”, che purifica l’anima, “che vive ben dentro nel cuore” e “che già qui nel mondo / Comincia ed insegna il viver più buono”. Da qui il sorgere della vera speranza, quella che opera nel poeta una trasformazione creativa mettendo in crisi le certezze assodate del passato e il quietismo accomodante del presente, in vista di un futuro che non è mera utopia e passiva attesa, ma avvio di un mondo nuovo ove la l’esperienza del bene si fa realtà presente.
La struttura della lirica poggia sulla dimensione dell’Amore trinitario, amore che, secondo il poeta, aiuta l’uomo a vivere nella bontà durante il suo cammino terreno. I versi di Rebora trasudano di una fede non intellettualistica o dogmatica, ma “esperienziale”, e rispondono, ancora oggi, alla domanda circa il valore che ha la Trinità nell’esperienza del credente; Rebora pone, in sostanza, un problema di “efficacia” della Trinità nella vita del cristiano, un problema di “pertinenza”, cioè di incidenza e di forza pratica della Trinità nell’esistenza del credente. Per il poeta credere nel Dio uno e trino non significa credere in una “cosa”, in una “entità filosofica e astratta”, in un “mero dogma”, ma in un Dio la cui essenza fondamentale è l’amore, un amore che si caratterizza come una “sinfonia” tra le tre persone divine: colui che ama (Il Padre), colui che è amato (Il Figlio), il loro amore(Lo Spirito Santo).
Questo spiega il senso dei versi “Amore di Cristo che già qui nel mondo/ Comincia ed insegna il viver più buono”: L’Amore di Dio, rivelatosi nella Croce, è un evento che si fa proposta, messaggio, azione, non solo per i credenti ma anche per i non credenti, le persone che sono in ricerca della fede; è un evento d’amore che provoca la vita di ogni uomo poiché lo pone nella condizione di conoscere ed apprezzare alcuni dei principali fondamenti valoriali della sua esistenza: il valore della diversità, dell’unità, della comunione, del dono. Se la diversità delle tre persone divine insegna all’uomo che essere diversi non è un fastidio ma una ricchezza, l’unità fa comprendere che non è la divisione a generare vita, gioia, felicità, ma, al contrario, l’unione intesa come capacità di accogliere l’altro e di accettarlo nella sua diversità.
Questi valori insiti nella vita trinitaria sono valori universali e ci dicono che ogni uomo vive di questo “riflesso trinitario” perché avverte dentro di sé quanto siano importanti per la sua esistenza; se, dunque, detti valori insiti nella Trinità vengono accolti nella fede, l’uomo può sperare secondo Rebora, grazie al dono dello Spirito Santo che rende l’amore sempre vivo e fecondo, che il male, il pianto, la morte, la miseria oscura della vita scompariranno e trionferà la Bellezza della vita; non solo, ma quando il mondo finirà, la felicità – afferma il poeta – per l’uomo sarà completa, in corpo e spirito, resi belli dalla luce della Trinità Eterna.
In un tempo come il nostro, nel quale tutte le speranze sembrano naufragare, questi versi di Clemente Rebora sono un invito a saper lottare per la conquista della “certa speranza” capace di placare la nostra inquietudine. “La certa speranza” reboriana è quella che ci pone nella condizione di vivere: per un amore, per una fede, per un ideale, per la realizzazione dei nostri sogni, per qualcosa che migliori la nostra condizione morale e materiale. “La certa speranza” è quella che ci aiuta a lottare contro quello che ci sembra il nemico più assurdo e imbattibile: l’idea della morte! La morte ci ricorda che non siamo infiniti ma che siamo destinati alla corruzione, a sparire da questa terra, ad essere dimenticati da tutto e da tutti: solo le nostre idee, le nostre azioni importanti, le nostre scoperte verranno ricordate e per esse noi diventiamo eterni.
La “certa speranza” di Rebora è l’ossigeno della nostra esistenza, e chi non spera non vive: vegeta. Ecco perché il poeta l’ha cercata e accolta nella Croce di Cristo: perché è l’elemento essenziale della vita, e perché dice ad ogni uomo che i suoi peccati sono perdonati, che Dio non si rimangerà quello che ha promesso e che, alla fine dei tempi, il male sparirà in modo definitivo dal mondo, così da far dire al poeta:

“In seno al Padre con la dolce Madre
Per sempre in Cristo amandosi fratelli,
Alleluia”.

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