
Un romanzo con un corpus narrativo incentrato su tre storie di donne dalle quali affiorano esperienze e sentimenti che esplorano temi legati alla femminilità, alla memoria, alla fragilità e al destino e che vede la città di Palermo, con la sua storia millenaria, i suoi segreti e i suoi luoghi di rara bellezza, fare da sfondo alle vicende, diventando quasi un personaggio a sé stante.
É questa la prima impressione che si ricava accostandosi al romanzo “Nella tana del riccio. Nulla terrorizza più dell’ignoto” della poetessa e scrittrice palermitana Sandra Guddo, un testo che apre un ventaglio di simbolismi legati all’idea di rifugio, protezione, introspezione e difesa. Se la tana è il luogo in cui il riccio si ritira per proteggersi dai pericoli esterni, dai predatori e dalle intemperie, questa immagine sembra simboleggiare il “luogo interiore” in cui le tre donne protagoniste del romanzo, Nilla, Maria Luisa e Rita la bastarda, vissute in epoche diverse, cercano sicurezza e riparo dalle difficoltà della vita, vivono un periodo di isolamento volontario o forzato, un momento di riflessione interiore, di analisi dei propri sentimenti e pensieri lontano dal mondo esterno, esplorando temi legati alla vulnerabilità e alla necessità di erigere difese emotive o fisiche contro le minacce.
Dal romanzo emerge, così, un viaggio interiore fra segreti e dinamiche intime delle protagoniste, le quali sognano un ritorno a uno stato primario dell’essere; e la tana, in tal senso, sembra rappresentare il luogo in cui avvengono cambiamenti, dove si elaborano esperienze e si emerge in modo diverso.
Anche il sottotitolo del libro, “Nulla terrorizza più dell’ignoto”, è coerente con la trama narrativa, perché lascia intendere che l’ignoto rappresenta quella dimensione ultraterrena che prende corpo nella misteriosa presenza della nobile donna Maria Luisa Arcuri, ma finisce per avere anche ripercussioni sulla vita di un’intera famiglia. E così, l’ignoto finisce per assumere una doppia valenza: da un lato fa paura all’uomo e dall’altro lo incuriosisce.
La prima parte dell’opera mette il lettore di fronte alle storie complesse di Nilla, Maria Luisa e Rita, dalle quali riverberano dolore e miseria, riflessioni e visioni esistenziali, accadimenti e soprusi, che si essenzializzano in una narrazione ricca di pathos e attese di speranze presenti nelle protagoniste.
Nilla
Nilla è una giovane donna insegnante di musica, radicata nelle dinamiche della contestazione giovanile del ‘68, portatrice di un atteggiamento disincantato di fronte ad “amori e passioni travolgenti di quelli che danno i brividi alla pelle e fanno mancare il respiro”. Lei, nel corso dei suoi trent’anni, – scrive l’autrice – non l’aveva ancora incontrato e dunque si era convinta che fosse tutta un’invenzione della letteratura sentimentale o frutto della vanità di certe donne e uomini che parlavano del grande amore soltanto per apparire speciali agli occhi di quei miseri mortali che, come lei, non erano stati toccati dalle frecce infuocate di Cupido”. Nilla è, altresì, una donna attratta dagli influssi filosofici di Epicuro, Aristotele e Platone; di quest’ultimo amava il settimo capitolo della “Repubblica”, perché “nell’esempio dell’uomo rinchiuso dentro una caverna, ignaro di ciò che realmente stesse succedendo fuori, ritrovava il suo sentire o meglio il suo sentirsi sempre così limitata di fronte alla realtà e mai paga delle verità a lei note”.
Nilla è anche una sognatrice, ama la musica e le sue “note scritte su un foglio di carta, incomprensibili a chi non ne conosce il linguaggio, prendevano vita non appena si sedeva al pianoforte per suonare e dare corpo e sostanza a quei segni apparentemente misteriosi che si tramutavano, come per magia, in musica e melodia ed erano capaci di raggiungere e di entrare in contatto con la parte più profonda di sé”. Nilla aveva ricevuto dal padre un insegnamento chiaro: non è possibile all’ uomo raggiungere la Verità e la Conoscenza assoluta durante la vita terrena, chiusi come siamo in questa specie di carcassa che noi chiamiamo “corpo”.
Maria Luisa
Maria Luisa è anch’essa donna al centro del romanzo. Ella “vede realizzato il suo romantico sogno d’amore con Arturo: il loro ménage, per i primi anni, sembrava perfetto, tutto funzionava armoniosamente ma, quando Maria Luisa restò incinta, dopo due anni di vita coniugale, qualcosa sembrò incrinarsi tra di loro. Una gravidanza difficile a rischio di aborto costringeva la poverina a restare a letto, immobile, per oltre cinque mesi, evitando drasticamente i rapporti sessuali con il focoso marito, mai sazio di sesso, che rimaneva forzatamente a bocca asciutta!” Con la nascita di una bambina, i rapporti tra Arturo e Maria Luisa peggiorano; quest’ultima viene colpita da una forma di depressione post – partum e si rifiuta di avere contatti carnali negandogli il suo corpo.
“Non voleva – narra Sandra Guddo – più essere trattata come un oggetto sul quale il marito sfogava i suoi istinti sessuali sottoponendola a performance carnali estenuanti. Così chiese ad Arturo di dormire in un’altra stanza abbandonando il letto coniugale dove si sentiva in continuo pericolo per la presenza del marito che, tutte le volte che appoggiava la testa sul cuscino, avanzava le solite pretese”. Maria Luisa si ribella così alla visione di un coniuge che la considera un oggetto per soddisfare i propri desideri e così il matrimonio va alla deriva. Non solo, la vicenda assume contorni terrificanti che distruggono il suo mondo interiore e la indurranno a vendicarsi per potersi riscattare.
Rita, la bastarda!
E poi Rita, la bastarda, figlia di una prostituta cresciuta tra i vicoli maleodoranti e scalcinati dell’antico quartiere della Kalsa, nel pieno centro storico di Palermo, tra case diroccate e muri pericolanti a causa dei ripetuti bombardamenti. Il racconto di Sandra Guddo disegna il quadro di una donna nata esattamente nel “Vicolo dei Dadi” talmente stretto che neanche la luce del sole riusciva a penetrare completamente, per cui “Rita sentiva tutta l’umidità penetrarle dentro le ossa mentre uno sgradevole odore di muffa la perseguitava come se le sue stesse narici fossero imbottite da quel fastidioso muschio verde”.
L’autrice descrive Rita sempre fuori casa per passare il tempo giocando nella vicina piazza del Garraffello, inondata di luce e di calore, e, altresì, mentre si reca, nei giorni festivi, davanti la chiesa di San Domenico per chiedere l’elemosina.
La narrazione di Sandra Guddo avanza in modo avvincente cogliendo alcuni momenti della protagonista: il suo amore per “quella piazza, sempre piena di gente elegante che pavoneggiando passeggiava per la moderna via Roma”; e ancora il momento in cui sostava davanti al monumento dedicato all’ Immacolata Concezione per poi entrare in chiesa “per partecipare alle funzioni religiose. Molti fedeli spesso riempivano la sua mano tesa a cucchiaio di centesimi di lire che costituivano per lei una vera ricchezza”. Rita, infatti, contribuiva a portare soldi a casa e, considerato che aveva rifiutato categoricamente di prostituirsi come la madre e come sua nonna Nanette, era divenuto per lei un obbligo chiedere l’elemosina per tirare su qualche soldo. Anche l’incontro con Vincenzo arricchisce di teneri contorni la storia di Rita: il ragazzo appena apprende della gravidanza della sua giovane compagna, le chiede emozionato e felice, se acconsentisse di sposarlo: “Il bambino che sta per venire al mondo deve avere un padre ed una madre, uniti dal sacro vincolo del matrimonio. Rita vuoi sposarmi? Io ti voglio bene più della mia vita e con il figlio che nascerà, formeremo la nostra famiglia”.
L’incontro tra Rita e Vincenzo, che era rimasto orfano dei suoi genitori, morti durante un bombardamento, e che era riuscito a trovare lavoro in una imbarcazione, fa sorgere dunque un amore a prima vista: egli cerca di conquistare Rita con dolcezza, senza forzature: “non voleva mai più che la violenza caratterizzasse i suoi rapporti interpersonali. Mantenne fede a tale principio quando portò Rita a casa sua, un’umile baracca che aveva costruito abusivamente sulle rive del fiume Oreto, con le sue mani, come avevano fatto gli altri vicini che si erano impossessati anche di una piccola striscia di terra per coltivare qualche ortaggio per la propria mensa. La baracca era costituita da un’unica stanza dal pavimento di legno, costruito con assi talvolta sconnesse che lasciavano filtrare il terriccio dove erano state appoggiate che si trasformava in fango, durante le giornate di pioggia”.
L’amore di Rita e Vincenzo diventa così il simbolo di una storia contrassegnata da una vita vissuta in una piccola casa con ai piedi del letto una cassapanca, e al lato opposto della stanza, un tavolino malfermo, un piccolo fornellino a gas e qualche stoviglia appesa alla parete, e al centro, sopra un largo tappeto, un tavolo su cui, come su una mensa regale, scintillava un vaso di vetro colorato che conteneva fiori freschi, raccolti nella campagna circostante. “Quella casa piena di luce e di sole – si legge nel volume – a Rita apparve meravigliosa e, prima di mettervi piede, sentì il bisogno di togliersi le scarpe per non sporcare il pavimento che appariva sorprendentemente pulito”.
In questo romanzo Sandra Guddo offre sicuramente al lettore il respiro della sua umanità di donna, di scrittrice e di docente, con una narrazione che si snoda a “nuclei essenziali” per lasciare un messaggio che diventa ermeneutica, nel senso che legge e interpreta le storie delle protagoniste collocandole nell’habitat della realtà palermitana incastonata dentro riferimenti storico-sociali , come quello, ad esempio, legato alla presenza degli Ebrei in Sicilia che emerge dalla vicenda familiare di Nanette, Sara e Rita, rispettivamente nonna, madre e nipote, tutte e tre di lontana origine ebraica.
L’autrice dimostra una grande sensibilità verso gli umili, i diseredati e gli oppressi con attenzione alle donne, come si evince dal racconto che si sofferma sul Cimitero di Santo Spirito nel cui sagrato, nel 1282, iniziò la rivolta popolare contro il dominio dei francesi. Nella seconda parte del romanzo la trama si infittisce e i destini delle tre protagoniste, Nilla, Maria Luisa e Rita, si intrecciano in modo inaspettato e fatale.
Con una forza narrativa coinvolgente, l’autrice sviluppa il legame misterioso che unisce le tre donne, esplorando concetti come il destino, la causalità o la volontà divina, il confine tra vita e morte attraverso il ritorno dall’aldilà di Maria Luisa, il rapporto tra eros e thanatos analizzato attraverso le dinamiche tra l’amore e la morte all’interno delle vicende dei personaggi.
Anche la musica che si diffonde da un pianoforte assume un ruolo, diventando il leitmotiv che unisce le tre protagoniste al di là delle loro diversità, come pure si mostra affascinante lo sviluppo della narrazione che si muove sul confine tra il normale e il paranormale, creando un’atmosfera di suspense e inquietudine. Rilevante è, a riguardo, il dialogo tra Nilla e Rodolfo:
“… Se dovessi paragonarti ad uno di queste meravigliose creature, direi che tu saresti più simile ad un animale mitologico che ad uno reale e terreno perché c’è in te qualcosa di misterioso che non riesco a descrivere ma che mi affascina. Per questo credo che tu sia simile a Pegaso: sei libera di volare leggera e di innalzarti verso una dimensione extraterrestre e spirituale!” “ Sì, io mi sento abbastanza diversa perché sono attratta da fenomeni metafisici che non sempre riesco a decodificare ma che mi procurano uno strano stato di agitazione e inquietudine. A tal proposito, vorrei raccontarti quello che ho provato, quando mia madre è stata travolta da un’automobile lanciata a tutta velocità, se mi prometti di non prenderti gioco di me!”
Sintomatica di questo fascino soprasensibile del romanzo anche il passaggio della narrazione in cui Nilla – narra l’autrice – si trova “in presenza di una figura i cui contorni erano sfumati come se si trattasse di una vecchia fotografia sfuocata! ‘Che mi succede? Non è possibile, forse sto sognando!’ Sgranò gli occhi, si pizzicò il braccio ma quella visione non svaniva era reale e le stava davanti. Due dimensioni erano entrate in collisione e Nilli tremò all’idea di trovarsi a contatto con qualcosa che non riusciva a definire, di affascinante e di terribile nello stesso tempo! Di una cosa fu immediatamente certa “questa donna non appartiene al nostro mondo!”
Il valore letterario di questo romanzo non sta solo nelle descrizioni degli avvenimenti che racconta, nei personaggi che inventa, quanto piuttosto nella sua capacità di offrirsi come significativo “spazio ermeneutico” dell’esistenza umana, dove gli accadimenti sono portatori di messaggi, indicatori di esigenze umane, di intrecci psicologici e filosofici, di visioni e aspettative, di sapienza narrante e del bisogno di aprirsi all’alterità e all’utopia; e tutto ciò avviene con una narrazione scorrevole, coinvolgente e di forte impatto emotivo.
La scrittura di Sandra Guddo, concludendo, scorre su un pentagramma che annoda storie di vita, d’amore e di affetti, accadimenti di fantasia, follia, gelosia, passione e spinte emozionali, con un estro vivace e ricco di forza comunicativa; le sequenze descrittive e dialogiche si alternano, in modo variegato, in tutta la tessitura della narrazione, dando risalto a interrogativi di natura spirituale, a luoghi, analisi socio-antropologiche e filosofiche che via via si vanno imponendo lungo il romanzo, dal quale si diparte una riflessione sulle dinamiche dell’inconscio e dell’autoanalisi che richiamano alcuni tratti della letteratura e della psicoanalisi freudiana: in particolare la “doppiezza psicologica”, la compresenza di spinte contrastanti e contraddittorie presenti nel “sottosuolo” dell’anima.
In questa direzione, anche il linguaggio e la visione del romanzo riescono a fare emergere tante dimensioni metanarrative come la sofferenza, il dramma, il sogno, l’attesa, il bisogno, la rassegnazione, la delusione e la speranza. E tutto questo fa del libro “Nella tana del riccio” un “bel romanzo”, proprio perché narra vicende di vita e di donne ove affiora la profondità dell’anima umana” tra “resa” e “sfida”, “sconfitta” e “vittoria”, e perché, come diceva anche Milan Kundera, il romanzo è “La grande forma della prosa in cui l’autore, attraverso degli io sperimentali (i personaggi), esamina fino in fondo alcuni grandi temi dell’esistenza”.