Medvedev: “Il nostro piano..”…l’opinione di Rita Faletti

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Le differenze e divergenze tra democrazie e autocrazie sono un argomento buono per trattati di filosofia, politica e storia, al massimo per gli studi di etimologia. E’ stato così fino al 24 febbraio del 2022, quando la realtà ci ha sbattuto in faccia le prime immagini di un’invasione: i carri armati di uno stato indipendente che entravano in un altro stato, anch’esso indipendente e sovrano. Superato lo choc iniziale, è stato immediato chiedersi perché. Le democrazie riescono sempre ad essere colte di sorpresa di fronte alle ambizioni espansive delle dittature. Il motivo è semplice: nessuna democrazia ha mai attaccato un’altra democrazia e aggiungiamo pure che la memoria storica spesso latita.  Nessuna necessità, quindi, di scomodare trattati di filosofia, politica e storia o testi di semiologia, le differenze tra democrazie e autocrazie sono apparse di un’evidenza palmare. Ciononostante, il mondo libero è rimasto appeso a lungo a una domanda: cosa vuole Putin? Una volta ammessa, con qualche sforzo, la differenza, sostanziale, tra aggressore e aggredito, una parte si è data un gran daffare a ricercare le cause dell’“operazione militare speciale”, la copertura linguistica furba, o balla colossale, imposta ai russi dal loro despota. E’ tutta colpa della Nato. Una palese negazione della verità. Dal 1991, la Nato non ha mai assunto una forma aggressiva, non ha piani per invadere la Russia, né mai ne ha avuti. Anzi, ad un certo punto, gli Stati Uniti guerrafondai hanno ritirato i loro carri armati dall’Europa e hanno iniziato a chiudere le basi militari, e fino alla prima invasione russa dell’Ucraina, nel 2014, non ci sono state esercitazioni della Nato in Polonia. Putin naturalmente queste cose le sa, ma ha trovato utile, ai fini della propria politica interna e della propaganda, trasformare la Nato in un nemico. Basta fare il salto temporale di un secolo e tutto diventa chiaro. Siamo agli anni ’20, cicatrizzate le ferite della Prima guerra mondiale e ridotti in macerie due dei tre grandi imperi, ottomano e asburgico, l’impero russo ortodosso degli zar è rimasto in piedi nella forma dell’Unione sovietica con la Rivoluzione bolscevica di Ottobre. Una mappa dispiega un territorio immenso che va dalla frontiera polacca a occidente fino a quella giapponese a oriente, un unico paese multietnico, tenuto assieme, nonostante le tensioni interne, dal sistema comunista. Un paese immenso ma drammaticamente povero e arretrato – perfino di più che durante il precedente periodo zarista – impegnato a costruire una società diversa e in contrapposizione a quella capitalista. Un balzo in avanti di 25 anni e siamo nel 1945. Quel paese si estende all’intera penisola balcanica ad eccezione della Grecia e di quella parte della Turchia che resta sul continente europeo, e dal fiume Elba al mare Adriatico. Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria, Jugoslavia, Romania, Bulgaria, Albania e Germania est. Un mondo distinto e autonomo, sia politicamente che economicamente, da quello dominato dal capitalismo dei paesi sviluppati, il sistema nemico che l’Urss spera di rovesciare con una rivoluzione planetaria. Un’utopia destinata a rimanere tale. L’occidente rigetta un regime autoritario basato su un partito unico che si sostituisce allo stato e impone ai propri cittadini un’ideologia obbligatoria. E’ diffidente nei confronti di una Russia che comprende poco perché non lascia filtrare all’esterno informazioni sulla realtà interna né all’interno le notizie sulle altre parti del mondo. La prova di quanto le autocrazie temano il contagio democratico e le rivolte dei popoli sottomessi che sognano una libertà di cui sentono il profumo senza averne assaggiato il sapore. L’autoisolamento russo comincia a sfaldarsi negli anni ’70 e ’80, con le relazioni economiche tra est e ovest, utili alla Russia per integrarsi nell’economia mondiale ma pericolose perché segnano l’inizio della fine per il “socialismo reale”. Tra i due blocchi, separati dal Muro, dietro le roboanti minacce reciproche e le sfide vertiginose, la comunicazione corre lungo la linea telefonica “calda” che dal ’63 collega la Casa Bianca e il Cremlino. Chruscev svuota i campi di concentramento creati da Stalin per gli oppositori politici, avvia una serie di riforme e inizia a parlare di coesistenza pacifica. I due vertici di Reykjavik, 1986, e di Washington, 1987, tra Gorbacev e Reagan, anticipano la fine della Guerra fredda. I due capi di stato credono in una coesistenza tra Usa e Urss che non si fondi sul ripugnante equilibrio del terrore nucleare. Reagan sogna un mondo del tutto privo di armi nucleari e il suo sogno è condiviso dal segretario generale del Partito comunista sovietico. E’ Michail Gorbacev a convincere il governo americano che fa sul serio. Nel 1989 il Muro cade e le ex repubbliche sovietiche dichiarano l’indipendenza. Il 24 febbraio 2023, a un anno dalla guerra di invasione russa, Medvedev dichiara, per la prima volta fuori dai denti: “Il nostro piano è riconquistare i territori di nostra proprietà ancestrale”.

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