
L’istituzione familiare non ha avuto certamente, nel tempo e nello spazio, il carattere dell’immutabilità. Ogni epoca, in fondo, ha fatto registrare variazioni, cambiamenti e trasformazioni in ordine alla struttura della famiglia e alle sue funzioni sociali e culturali. Pertanto, “non esiste la famiglia, ma differenti tipi di famiglia che cambiano in funzione dell’epoca, della geografia, dello sviluppo economico, tecnico e sociale, della classe sociale e dello sviluppo ideologico” (1)
In Sicilia la famiglia ha assunto una sua tipologia culturale, etica, sociale, economica e religiosa, che ha creato e trasmesso, di generazione in generazione, modelli comportamentali a diversi livelli.
Prima di addentrarci nell’analisi di questa tipologia, è necessario tener conto ed esaminare il retroterra socio-antropologico dell’isola, così da capire il ciclo vitale entro cui si è poi sviluppato l’ethos della famiglia siciliana.
A livello sociale, la popolazione siciliana era composta da quattro ceti, all’interno dei quali il vissuto familiare si configurava con proprie connotazioni. Questi ceti venivano indicati con nomenclature di tipo anche locale:
– i civili: costituivano la classe più evoluta, la quale risultava composta da famiglie possidenti e con legami di parentela con professionisti e commercianti;
– i burgisi: raggruppavano le famiglie contadine più agiate. Questi contadini, chiamati in dialetto burgisi, erano proprietari di terre e di bestiame ed assorbivano manodopera, oltre a quella familiare, per la coltivazione dei campi e l’allevamento del bestiame;
– gli artigiani: raggruppavano famiglie che possedevano botteghe artigiane ove si svolgevano lavori specializzati. Fra le botteghe più note vi erano quelle del calzolaio (“Scarparu”), del mielaio (“Milaru”), del fabbro ferraio e maniscalco (“Firraru e Ferrascecchi”), del costruttore di carretti (“Mastru ri carretta”), del lattoniere e stagnino (“Lantirnaru”), dell’artigiano della canna (“Cannizzaru”), del dolciere (“Durcieri”), del sellaio (“Siddunaru”), del falegname ebanista (“Falignami”), dello scalpellino (“Scarpillinu”), del cordaio (“Curdaru”)(2) ;
– i braccianti: costituivano il ceto più numeroso, che raggruppa va le famiglie più povere, molte volte costrette, data l’esiguità della terra in loro possesso, a prestare lavoro come salariati o mezzadri nelle proprietà dei civili e dei burgisi (3)
All’interno di questi gruppi sociali quale concezione vi era dell’uomo e della donna? L’uomo e la donna come arrivavano al matrimonio? Con quale mentalità, cultura e formazione?
È importante dare una risposta a questi interrogativi per capire la tipificazione della famiglia siciliana nella sua dinamica evolutiva tra passato e presente.
1. La concezione dell’uomo e della donna
Le concezioni dell’uomo e della donna che si sono create e sviluppate all’interno della cultura siciliana hanno caratterizzato certamente il vissuto esistenziale della famiglia.
La mentalità che si è andata affermando nell’isola ha posto la donna in una prospettiva funzionale e di codiuvantato, nonché in una situazione di subalternità rispetto all’uomo, principale artefice del destino della famiglia” (4)
Di converso, la concezione dell’uomo siciliano è stata collocata in un quadro comportamentale dal quale è emersa la visione dell’uomo forte, che tiene all’onore, che comanda e fa da padrone, che non sfugge al sacrificio e che costituisce l’asse portante di tutta la struttura familiare.
Alla base di questa differenziazione vi è stato anche un processo ideologico e culturale, sviluppato da una letteratura che ha legittimato un modello familiare secondo il quale l’uomo è, per legge naturale, il capo carismatico teso all’esterno, mentre la donna la persona relegata in casa per compiti domestici e per essere interamente a disposizione del marito (5)
La concezione della donna siciliana era altresì condizionata da aspetti legati a fattori biofisici; una donna, infatti priva di queste caratteristiche non avrebbe potuto assolvere al suo compito di lavorare i campi, produrre e allevare i figli e supplire all’uomo in caso di guerra o di emigrazione. Il corpo delle donne valeva non solo come forza lavoro e macchina di riproduzione, ma poteva produrre valore esso stesso; in tutte le regioni della Penisola, l’allattamento costituiva una delle funzioni economiche più importanti della donna, sia direttamente, come possibilità di far gravare il meno possibile i nuovi nati sul bilancio alimentare della famiglia, sia indirettamente, come fonte di entrate in denaro per i bambini presi a balia. Proprio per questo, la produzione di latte era importantissima, e intorno al fatto di averlo o di perderlo si intrecciavano leggende di streghe e rimedi magici (6).
Particolare rilevanza aveva nella visione della donna siciliana la categoria dell’onore, il quale spesso coincideva con quello della famiglia di origine. La verginità era il simbolo dell’onore familiare e, a volte, di un intero paese, tant’è che se una donna rimaneva incinta bisognava subito ricorrere ad un matrimonio riparatore; doveva addirittura allontanarsi dal suo paese e dalla casa paterna, recandosi verso il centro-nord, per evitare il disonore qualora non si fosse riabilitata col matrimonio con colui che l’aveva resa madre. Questo tipo di “codice d’onore” si è conservato maggiormente, secondo alcuni studi antropologici, nella regione siciliana(7) , dove il suo permanere viene spiegato attraverso collegamenti alla struttura sociale dell’isola e a quella familiare.
2. I codici culturali dell’onore, della vergogna e della vendetta
Onore, vergogna e vendetta erano codici culturali che sostenevano l’identità dei gruppi sociali in cui era organizzata la società tradizionale siciliana.
Il codice dell’onore aveva in pratica una triplice funzione:(8)
– una funzione di delimitazione: cioè definiva i confini sociali di un gruppo e contribuiva a proteggerlo contro le rivendicazioni di gruppi equivalenti antagonisti;
– una funzione di difesa: l’onore sostituiva la violenza fisica nella difesa degli interessi economici. Il capofamiglia, forte dell’onore del proprio gruppo, assumeva un atteggiamento che incuteva timore e induceva gli altri alla prudenza, non tanto per evitare ritorsioni fisiche, quanto per scongiurare gli effetti di un rancore continuato;
– una funzione di legittimazione: il concetto di onore serviva, paradossalmente, anche “a dare legittimità a piccole aggressioni, atti di imposizione, danneggiamento e usurpazione che appaiono, in virtù di tale codice, moralmente validi agli occhi di tutti, meno, ovviamente, che a quelli della vittima. È l’onore a regolare le questioni tra gli uomini” (9)
Il fulcro dell’onore, la depositaria dell’onore della famiglia era la donna, la cui posizione determinava quella di tutti gli uomini a lei legati. Il codice dell’onore investiva la donna del compito di tenere alta la reputazione della famiglia e, quindi, dell’uomo d’onore.
La vergogna era un altro codice culturale dell’isola che serviva, secondo Schneider, “a difendere e ad accrescere il patrimonio della famiglia e a definire questa come gruppo coeso” (10)
“Se l’onore coinvolge(va) le donne, investendole del compito di tenere alta la reputazione della famiglia e quindi dell’uomo d’onore, la vergogna, subdolamente, incatena(va) le donne e le rende(va) intimamente complici della perpetrazione di rapporti di sopraffazione e di dominio”. (11)
E, infine, la vendetta. Nella cultura siciliana questa era concepita come un vero e proprio istituto di difesa e chiamava in causa particolarmente le donne. (12)
Il concetto di vendetta veniva altresì inculcato attraverso i detti proverbiali che circolavano tra il popolo siciliano(13)
3. La concezione della proprietà
Uno degli atteggiamenti tipici della famiglia siciliana era “l’attaccamento all’ambiente e alla “roba””. Tale atteggiamento non era un fatto di romantica nostalgia, né l’espressione di un puro legame di natura economica; esso, piuttosto, affondava le radici nell’intimità della persona nella sua coscienza di identità personale, e culturale(14) .
La famiglia, pertanto, raggiungeva la sua identità a partire da vari fattori, fra i quali rilevante risultava la componente tipica della “roba”, in virtù della quale veniva a configurarsi un sistema concettuale di proprietà che faceva scattare una serie di comportamenti.
4. La ricerca del possesso della terra
Nella cultura siciliana la stabilità della struttura familiare era data dal possesso della terra. Questo spiega il perché della ricerca assillante di possedere una casa e un po’ di terra coltivabile. Questa aspirazione al possesso era, altresì, determinata, sul piano psicologico, dal bisogno di uscire da una condizione di precarietà, per lungo tempo vissuta fuori dalla propria terra. I siciliani emigrati all’estero con le loro famiglie, al rientro nella propria terra avevano come primo ed unico pensiero l’investimento dei risparmi nell’acquisto di una casa e di qualche ettaro di terreno, onde sentirsi padroni e, in tal modo, uscire da quella condizione di povertà che si erano portata appresso prima della partenza. La “roba”, quindi, aveva la funzione di riempire quel vuoto del cuore che aveva costretto la famiglia all’emigrazione, e di far raggiungere un livello di serenità e di stabilità ai componenti della famiglia.
5. La lotta per la “roba”
La concezione della proprietà nel popolo siciliano, in termini di “attaccamento”, di “ricerca affannosa”, di “riscatto” dalla povertà, trova una sua esplicitazione sia nella sapienza proverbiale, sia nell’opera letteraria di Giovanni Verga. Nei proverbi siciliani che circolavano all’interno delle famiglie, la concezione della “roba” si muoveva all’interno di una prospettiva caratterizzata dai seguenti aspetti:
– la libertà dai condizionamenti parentali: “Ccu lu vinniri e cumprari / nun c’è amicu e cumpari” (nel vendere e nel comprare non c’è né amico, né compare);
– la forza del potere economico: “l’omu senza dinari / è comu la statìa senza rumanu” (l’uomo senza denaro / è come la stadera senza il romano, – il contrappeso – );
– l’accortezza negli affari: “si duni la to robba senza pigni / mostri d’aviri pocu ‘ngegnu” (se dai le tue ricchezze senza pegno, mostri di avere poca accortezza). “Ogni lassata è pirduta” (ogni cosa a cui rinunci, è perduta – per sempre -);
– l’attaccamento morboso: “la petra ca nun fa lippu, / lu sciumi si la tira” (la pietra senza muschio / il fiume la porta via);
– la conservazione accurata: “cu picca havi / caru teni (chi possiede poco, lo conserva con cura).
Nell’opera letteraria del Verga questa concezione della “roba” viene descritta con il concetto “dell’“ideale dell’ostrica”, “ideale in cui la vita è possibile a condizione che l’ostrica rimanga attaccata e faccia tutt’uno con lo scoglio dov’è nata e dove condivide l’esistenza con i suoi simili” (15).
Già nella stessa novella “La roba” (1880) lo scrittore catanese delinea la figura di un uomo, Mazzarò, che lottando riesce a costruirsi una immensa ricchezza agricola, così da vivere soltanto in funzione della sua “roba” fino al punto di desiderare, di fronte alla morte, di portarla via con sé. Su questo concetto di attaccamento Verga si sofferma nella novella “Fantasticheria”, ove descrive proprio l’ideale dell’ostrica:
“Noi non abbiamo altro motivo di trovarlo ridicolo che quello di non esser nati ostriche anche noi. Per altro il tenace attaccamento di quella povera gente allo scoglio sul quale la fortuna li ha lasciati cadere mentre semina principi di qua e duchesse di là, questa rassegnazione coraggiosa ad una vita di stenti, questa religione della famiglia, che si riverbera sul mestiere, sulla casa, e sui sassi che la circondano, mi sembrano, forse pel quarto d’ora, cose serissime e rispettabilissime anch’esse. Parmi che le irrequietudini del pensiero vagabondo s’addormenterebbero dolcemente nella pace serena di quei sentimenti miti, semplici, che si succedono calmi e inalterati di generazione in generazione” (16)
Certamente lì dove l’aspirazione dell’uomo siciliano al possesso della terra e dove la lotta per la proprietà appare chiara ed evidente, è nel romanzo “Mastro-don Gesualdo”. Per il Verga, Gesualdo, un muratore di una cittadina nei pressi di Catania, divenuto, con la sua abilità e il suo lavoro, padrone di una grande ricchezza economica, “è un vero eroe della “roba”, è l’immagine suprema della forza umana che accumula e domina la realtà fisica. Ma la sua forza viene contaminata e piegata dalla sottile vanità che lo induce a voler cambiare classe, ad abbandonare le sue origini contadine per entrare nel ceto più elevato, tra coloro che sempre hanno detenuto il potere. (17)
La vicenda di Gesualdo Motta è rivelatrice di alcune idee fondamentali che, in sintesi, caratterizzavano la mentalità della famiglia siciliana relativamente alla concezione della proprietà:
– l’idea della crescita sociale: in Gesualdo c’è una sorta di “febbre del fare” – direbbe Greco Lanza – tipica di chi vuol farsi da sé, vuol progredire per uscire da una situazione di negatività esistenziale;
– l’idea della difesa: “cu havi terra, havi guerra” (chi ha terra, ha guerra). “Contro i magazzini pieni di roba di Gesualdo prorompe, infatti, la furia popolare, che non gli perdona di essere nato “povero e nudo”. Tutti lo accusano, gli viene imputata perfino la morte di Nanni l’Orbo misteriosamente ucciso per motivi politici. Gesualdo, ammalato e stanco, difende come può, anche a suon di schioppettate, la roba accumulata in quarant’anni “un tarì dopo l’altro”, ma è costretto addirittura a nascondersi in casa del vecchio marchese Limòli e presso don Ferdinando Trao” (18)
– l’idea che né la ricchezza né il lustro del nome sono la chiave della felicità: Gesualdo muore solo, la sua “roba”, conquistata con tanta lotta, viene dilapidata dal genero, mentre la figlia duchessa si vergogna di lui e del suo mondo(19). / Continua
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(1) A. MICHEL, La famiglia istituzione storica e culturale, in Famiglia dialogo recuperabile, Cittadella Editrice, Assisi, 1979, p. 15.
(2) Cfr. F.A. BELGIORNO, Modica, Edizioni Radio Emmeuno, 1990, pp. 61-70.
(3) Cfr. J.SCHNEIDER, La vigilanza delle vergini, La Tuna, 1987, p. 67.
(4) D. PISANA, L’etica della famiglia siciliana tra passato e presente. Lineamenti di cultura, fede e spiritualità, Libroitaliano, Ragusa, 1990, p. 20.
(5) Cfr. anche W. SOMBART, Le burgeois, Payot, Paris, 1966.
(6) P. MELOGRANI (a cura di), La famiglia italiana dall’Ottocento ad oggi, Editori Laterza, Bari, 1988, p. 204.
(7) Cfr. J. GIOVANNINI, Woman: a dominant symbol within che cultural system of a Sicilian town, in “Man”, n. 3, 1981. Cfr. J.SCHNEIDER, La vigilanza delle vergini, La luna, Palermo, 1987.
(8) Cfr. J. SCHNEIDER, op. cit., pp. 49-50.
(9) Ibid., p. 50.
(10)Ibid. p. 57.
(11) R.SIEBERT, Le donne, la mafia, Il Saggiatore, Milano, 1994, p. 62.
(12)Cfr. Ibid., p. 66.
(13)Cfr. S.ATTANASIO, Parole di Sicilia, Mursia, Milano, 1977, pp. 414-417.
(14) R. FRATTALLONE, Proverbi siciliani . Una visione sapienziale della vita, Ed. Oftes, Messina, 1991, p.128.
(15) Ibid. p.53
(16) G. VERGA, Fantasticheria, in Vita dei Campi, 1880, p. 214.
(17) G. FERRONI, Storia della Letteratura Italiana, Vol. III, Einaudi, Milano, p.429.
(18 ) Cfr. G.VERGA, I Malavoglia, Mastro-don Gesualdo, a cura di Concetto Greco Lanza, Newton, Roma, 1990, p. 227.
(19) Ibid. pp 223- 226.
1 commento su “La famiglia patriarcale siciliana/1… di Domenico Pisana”
Il mio modo di intendere la famiglia patriarcale risale a quand’ero piccolo: Sentivo dire sempre dagli anziani un verso che non potrei mai dimenticare perché da come lo dicevano era come se fosse l’undicesimo comandamento:
“L’uommunu ha fari l’uommunu, e a fimmina ha fari a fimmina”!