
Il giorno dopo il voto si tirano le somme. Primo dato: bassa affluenza alle urne per le amministrative che registrano la conferma del centro destra a Genova con la rielezione di Bucci, del quale non serve tessere le lodi, la città conosce la competenza e la serietà dell’ex manager; a Palermo Leoluca Orlando lascia la sua poltrona a Lagalla sostenuto dal centro destra, negli altri comuni, 971 sono andati al voto, la situazione vede il ballottaggio tra centro destra e centro sinistra. Alla consueta domanda, chi ha vinto e chi ha perso, la risposta non lascia dubbi: il Pd è il partito più votato e il M5S è definitivamente diventato un partito fantasma, mettendo a rischio il futuro del famigerato campo largo. Conte si concede alla stampa e tenta di ammortizzare il colpo: è la sofferenza degli italiani per la nostra presenza nel governo Draghi. Il solito lamento che dovrebbe servire a cancellare il fatto che i grillini sono al governo dal 2018, da quado lui era premier. Mai una volta che si dica come stanno le cose: nessuno vuole più saperne di noi. Ma le amministrative non sono le politiche: il Movimento rifiorirà, vedrete! Più o meno quello che ha detto Mr.Travaglio, che ci ha tenuto a spiegare che il Movimento non esisterebbe se i partiti non avessero fallito. Sempre colpa degli altri. La scomparsa dei grillini nel Paese (il grillismo è finito, sintesi renziana) contrapposta alla massa di parlamentari, pone un problema che Giorgia Meloni ha presentato agli alleati: non è forse il momento di dare una spallata al governo e andare al voto? Gli “alleati” non ci pensano neanche, tanto meno Salvini lo svalvolato, che dal Papeete non ne fa più una giusta. A partire dal referendum sui cinque quesiti sui temi della giustizia, il poveretto ha dato prova di aver esaurito le cartucce. Gli rimane il fiato per correre di qua e di là e riesumare disperatamente i vecchi temi di un repertorio abusato. Le bollette, le tasse, i consumi degli italiani, che si intercalano, a seconda dei momenti, con la pace, il viaggio a Mosca, la cancellazione del viaggio a Mosca perché, “se devo essere divisivo preferisco stare a casa con i miei figli”, e ridaje co ‘sti figli. Ultimamente ha ripreso a strillare contro l’Europa e Lagarde per l’aumento dei tassi invece di preoccuparsi di spiegare agli italiani i cinque quesiti sulla giustizia che lui stesso aveva promosso con i Radicali. Quando ha avuto sentore che la cosa poco interessasse, invece di insistere, mettere manifesti in giro, promuovere iniziative per rendere note le ragioni del referendum, si è defilato. Da leader a follower, si aggrappa a quello che annusa in giro e se ne appropria. Non ha nemmeno depositato le firme raccolte, perdendo così il diritto alle tribune referendarie e ha mandato avanti Calderoli. Poi, di fronte al flop, ha parlato di complotti. Da garantista che voleva essere, è riuscito a resuscitare il giustizialismo e l’Anm, facendo la gioia di Giuseppe Santalucia, presidente dell’Associazione nazionale magistrati: “Il voto popolare è una sonora bocciatura di un disegno di riforma della magistratura che non è gradito, si tratta di prenderne atto”. Colta al volo l’occasione di usare strumentalmente una sconfitta. Persa l’occasione di riformare una magistratura in rovine, che si è imposta all’attenzione del Paese per le sue disastrose inchieste, le risse tra correnti, il feroce tentativo di far prevalere il proprio potere su quello della politica e perfino dell’economia. Rialzano la testa i magistrati, convinti della loro superiorità morale, del loro governo degli “incorruttibili”. La partecipazione più bassa che mai si sia registrata, 20,9%, a un voto dalle conseguenze politiche gravissime che rischiamo di pagare molto caro. Una disfatta di cui Salvini è il principale colpevole. I suoi lo guardano e si guardano, tacciono, lo sopportano, non intervengono, Giorgetti sbuffa o alza le spalle, tutti aspettano la stessa cosa: che la macchietta si tolga di mezzo. E Meloni gongola.