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La “poesia biologica” di Antonio Catalfamo … di Domenico Pisana

“La rivolta dei demoni ballerini”, Edizioni Pendagron, 2021
Tempo di lettura: 2 minuti

Una poesia dal “timbro civile e politico” chiaro, forte e con un impianto strutturale di coerente efficacia semantica, è quella che Antonio Catalfamo offre ai suoi lettori con la raccolta “La rivolta dei demoni ballerini”, Edizioni Pendragon, 2021.
La sua è una poesia che ha a che vedere con il reale, non concepito nell’atto del suo rispecchiamento, ma – direbbe Valerio Magrelli – nella sua invenzione, nella sua negazione, che riguarda e può riguardare tutto l’ambito del reale. E allora la domanda spontanea che nasce nel lettore è capire chi è l’autore, quale visione del mondo mostra, e quale profitto etico si può trarre dal colloquio con lui.
Catalfamo ha un solido bagaglio culturale; docente universitario, ha operato presso le cattedre di Letteratura italiana dell’ Università di Cassino e presso la cattedra di Storia della filosofia contemporanea dell’Università di Messina; è autore di vari volumi di critica letteraria sul Duecento e sul Trecento, tra cui vanno menzionati quelli dedicati a Dante Alighieri e a Boccaccio, oltre a diversi volumi sulla letteratura popolare e dialettale del Seicento e del Settecento (Giulio Cesare Croce e Domenico Tempio), mentre sul Novecento si son fatti apprezzare i suoi volumi su Cesare Pavese (Cesare Pavese. Mito, ragione e realtà, 2012) e su numerosi autori, come Carlo Levi, Dario Fo, Pier Paolo Pasolini, Rocco Scotellaro.
La rivolta dei demoni ballerini, che presenta una acuta e puntuale prefazione critica di Wafaa Raouf El Beih, Direttrice del Dipartimento d’Italianistica presso la Facoltà di Lettere dell’Università di Helwan al Cairo, è la sua nona raccolta poetica, e già una delle prime poesie del volume, La malora, è emblematica di una visione sociale del poeta, che porta in versi l’essenza di una storia di vita che gli appartiene, di un mondo siciliano umile e rivisitato per illuminare il presente specie in ordine agli effetti rovinosi che hanno provocato alcune realtà in particolare: “il padrone”, “lo Stato borghese”:

“…Se la grandine improvvisa
distrugge il raccolto,
è il padrone la malora,
che scarica il danno
sulle spalle del colono. (…)

Se il vecchio compagno,
a quasi ottant’anni,
ancora lavora,
pota, innesta, rimonda,
raccoglie le arance,
bionde, sanguigne,
a strapiombo sul baratro,
è lo Stato borghese la malora,
che dà pensioni di fame…”

Il background della silloge di Antonio Catalfamo è costellato di una prosodia poetica e di frammenti che rievocano ideologie politiche, (comunismo, fascismo), il rapporto tra padroni e servitù, il rapporto bene individuale – bene sociale, snodandosi sia come “canto di disagio” di una società che non c’è più ma i cui riflessi sono ancora ben oggi presenti, sia come analisi di una frantumazione ontologica, di uno smarrimento e della perdita di identità personale e collettiva.
Il pensiero marxiano trasuda particolarmente dai versi del poeta come lama a doppio taglio e fa di lui una “poeta fuori dal coro”, un autore la cui parola poetica non rimane la distrazione di un momento né un tranquillante di rassegnazione, né una illusione intellettuale e sentimentale, ma la “voce necessaria di un dissidente” della società contemporanea già falsata dall’alienazione economica e da altre alienazioni. La poesia di Catalfamo esce dai canoni usuali, potrà forse essere più o meno bella, ma sicuramente ha a che fare con la realtà storica delle persone sia nella loro singolarità che socialità, sia nella loro spiritualità che relazionalità, non presentandosi, pertanto, come diletto per un atto di autoconsolazione.
In questo senso si legga il testo “La mia poesia”, ove il poeta critica e fa ironia, in una sorta di circolarità ermeneutica tra passato e presente, sui versi dei poeti salottieri e chiusi nell’intimismo esasperato: “…i versi barocchi / del poeta-puttaniere, /che ruba amore mercenario / nella città dello Stretto…”; i versi del “ poeta-renitente”, che “manda al fronte /i contadini, e lui, agrario parassita, /consacrato all’arte,/ ingravida le mogli./ ; “il poeta esoterico”, che “…compra pasta di seconda per i gatti,/ difende il suo feudo/ contro gli scioperi a rovescio”.
Il tono sprezzante e polemico di questi versi si incurva particolarmente nel tempo storico della contrapposizione tra, da un lato, la classe dei “compagni” comunisti (la poesia afferma Catalfamo serve “a raccontare / la vita degli umili”) e, dall’altro, la classe borghese:

“…Una borghesia che veste
i panni dell’aristocrazia,
per nascondere le proprie radici,
che affondano nelle bancarelle
di ceci abbrustoliti
e nel commercio
di scarpe false Varese,
vendute nelle fiere…”
(Ferravecchio)

La struttura poematica della raccolta si muove nel complesso dentro un triplice orizzonte:
a. Il primo orizzonte è quello della memoria, e risulta costruito sull’evocazione di una consapevolezza che coglie nella figura della madre il valore della bellezza affettiva ed educativa, valore che si sostanzia nel ricordo di un rapporto genitoriale caratterizzato dal ricordo di questa donna che gli faceva imparare a memoria poesie, e su un presente nel quale il poeta esperimenta che la poesia è divenuta proprio la compagna di viaggio per dialogare con la madre:

“…Dopo la tua morte
ho instaurato con te
un dialogo sereno
nei miei sogni / e nei miei versi”.
(Dialogo)

Anche il padre del poeta campeggia in questo orizzonte memoriale, ove emergono diversi aspetti rivelatori di una storiografia dal basso che Catalfamo situa dentro la storia sociale dell’ambiente siciliano in cui è vissuto: “Mio padre / appollaiato su un albero / studiava i classici, / penetrava il mito greco […]. / Sognava una nuova grecità: / i pastori con i greggi / e i campanacci invadevano / le stanze del potere, / imponevano il comunismo, / che ci rende tutti uguali. / Fondò l’Alleanza contadini / in una vecchia stalla, / il fieno ammucchiato alle pareti, / ritirò concimi a prezzi modici, / istruì pratiche per i trattori Brumi”, in Simbologia della vigna.
I filmati della sua memoria appaiono ancora nitidi ed evocatori di un periodo storico segnato da “campieri mafiosi” e “padroni”:

…Mio padre parlava
dal balcone
a una piazza vuota.
I braccianti ascoltavano
rinchiusi nelle loro tane,
animali braccati
dai campieri mafiosi
e dai loro padroni,
che non sapevano
quanta terra avessero.
Intere contrade prendevano
il loro nome
e il popolo ripeteva,
per secoli, i toponimi,
sperdendosi nei meandri della storia…”
(Il comunismo di mio padre)

b. Nel secondo orizzonte si staglia una denuncia sociale e politica di un sistema esistenziale : il poeta porta sulla pagina una versificazione tra l’ironico e il satirico, che si oggettiva in una appassionata e sentita rappresentazione delle precarie condizioni storiche, sociali, economiche ed antropologiche di una classe contadina che, certo, non c’è più, ma che il poeta intende riabilitarne e rivalutarne la funzione, spesso minimizzata o del tutto trascurata nella storia delle lotte sociali e del progresso. E qui hanno senso I “demoni ballerini “ di Catalfamo, che sono, infatti , proprio i pastori contadini siciliani che vivevano una forte schiavitù nei feudi dei “padroni forestieri”, e di cui il poeta fa nomi e cognomi: Peppe Trelire, “il più feroce”; Don Mariano e Peppe Lasagna che, una volta divenuti satiri, andarono all’assalto delle “centrali del potere”:

“…Ma il sangue di Euno
ribolliva nelle loro vene,
provocando la rivolta degli schiavi:
come demoni ballerini,
leggeri nella danza,
vennero in paese,
viaggiando di notte.
Aprirono la Camera del Lavoro.
Peppe Trelire, il più feroce,
gestiva con sapienza
il vecchio frigorifero scassato,
stappava bottiglie di birra,
gassose mescolate col vino.
Don Mariano e Peppe Lasagna,
vecchi Sileni,
guardavano la televisione,
dormicchiando.
I pastori-contadini
divennero satiri,
nell’ebbrezza del corteo dionisiaco
si trasformarono nel dio,
punirono con durezza
i loro nemici…”
(La rivolta dei demoni ballerini)

La narrazione in chiave poetica di questi fatti risente dell’energia intellettuale di Catalfamo e del suo “pathos” interiore, e ci fa venire in mente lo scrittore ragusano Serafino Amabile Guastella che raccontava le storie morali dei villani ne “Le Parità”, nonché di altri studi come quelli di Francesco Renda e Vito Cusumano, che offrono un ventaglio di accadimenti che fanno luce sul “come” e sul “perché” nasce la questione contadina nello Stato unitario, sul rapporto tra questione contadina e questione meridionale; certo è che Antonio Catalfamo non si ferma solo al passato in questa sua poesia civile, ma guarda al presente, a uomini, donne, ragazze, al sentire comune della gente in questo tempo di pandemia, e lo fa con la consapevolezza di dare voce agli autentici valori umani di libertà e di giustizia per la costruzione di un neo-umanesimo ideologico.
La poesia di Antonio Catalfamo raccoglie e custodisce i battiti del tempo storico in cui egli si è formato da giovane, “la calda fuggitiva onda del cuore”, direbbe Reiner Maria Rilke nelle Elegie Duinesi; è una poesia che esce dal solipsismo letterario e accademico per agganciarsi all’anima della società e alla vita nelle sue articolazioni storiche, politiche, sociali, filosofiche, religiose, di idealità, passioni, difficoltà e speranze; è una sorta di poesia di frontiera dove passato e presente si incontrano e si scontrano; dove –direbbe il Novalis – “dichten ist ubersetzen”, cioè poetare è tradurre vivendo al confine, che è quel luogo interiore, quello spazio dell’anima dove il poeta parla il linguaggio dell’essere, della spiritualità, dei modelli, dei principi, dei valori non per fissare canoni estetici ma per fornire un importante contributo alla società in cui vive, e caricando, così, il suo operato di responsabilità.
Questa raccolta poetica trasuda molto di atmosfere, toni, ritmi che ci fanno sentire rintocchi di grandi poeti come Pablo Neruda e Federico García Lorca; sembra quasi sentire Lorca quando nello spiegare il suo concetto di poesia richiamava l’immagine del fuoco: “Yo tengo el fuego en mis manos” – diceva – per definire l’origine della sua poesia, intervistato da Gerardo Diego(1); nei versi di Catalfamo c’è un “fuoco che brucia”, c’è un intreccio e una fusione di mito e realtà ove si snoda la sua storia personale e quella delle figure più profonde della sua vita e della vita dell’Italia del dopoguerra: genitori, nonni, pastori analfabeti del suo paese che hanno lottato contro padroni e fascisti, imparando sulla propria pelle il senso del comunismo.
Leggendo questa silloge si ha insomma l’impressione che la poesia di Catalfamo – e prendo a prestito Garcia Lorca – sia “ qualcosa che va per le strade. Che si muove, che passa al nostro fianco(…). Tutte le cose hanno il loro mistero, e la poesia è il mistero che contiene tutte le cose…Per questo non concepisco la poesia – concludeva Lorca – come astrazione, ma come cosa realmente esistente, che mi passa accanto” (2).
Questi richiami di Catalfamo alle radici della sua famiglia, ai compagni comunisti, ai contadini , alle loro lotte per la sopravvivenza ce lo restituiscono quasi con il volto di Garcia Lorca, che scriveva: “A questo mondo io sono e sarò sempre dalla parte dei poveri. Sarò sempre dalla parte di coloro che non hanno nulla e ai quali si nega perfino la tranquillità del nulla (…) Nel mondo non lottano più forze umane, ma telluriche. Se mi pongono su una bilancia il risultato di questa lotta; in un piatto il tuo dolore e il tuo sacrificio, e in un altro la giustizia per tutti, pur con l’angoscia di un futuro che non si pronostica, ma non si conosce, io su quest’ultimo piatto batto il pugno con tutta la mia forza”.(3)
Anche l’influsso di Cesare Pavese, di cui il poeta è un acuto studioso, aleggia nei versi della raccolta, ove si coglie la polarità “passato-presente”, nonché quella spontaneità di “un altro tempo nel tempo della storia presente”.
Come in Pavese, le poesie di Catalfamo , sono piene di persone che vivono di rapporti con la terra: il padre, la madre, il nonno, i contadini siciliani, i pastori, i campieri, i padroni, i compagni comunisti, nonché di richiami a figure(Stalin, Majakovskij, Mallarmé, Quasimodo, Nâzim Hikmet, Peppe Trelire, la Carabiniera che rattoppava le camicie e i pantaloni, il calzolaio di Nàsari, la madre di Gramsci, Peppina Marcias, Togliatti, Tito, Giacomo Scotti, etc..) che si muovono lungo la versificazione nel “segno di una polarità” che raramente si risolve in sintesi dialettica.

c. Il terzo orizzonte è quello della speranza. Catalfamo rimane, nonostante tutto e con la forza della sua critica sociale, è un sognatore che affida la sua speranza a quella che egli chiama “la poesia biologica”, che “affonda le radici nella terra”. Di cosa si tratta! E’ una visione che rimanda al pensiero greco, dove βίος (bíos) indica le condizioni, i modi in cui si svolge la vita dell’uomo, chiamato a recupere la terrestrità con i valori originari iscritti nella legge naturale, quali l’onestà e la verità.
La natura biologica della poesia deve accrescere per Antonio Catalfamo la speranza di aiutare l’uomo a liberarsi dai nemici, cioè da coloro che non riescono a comprendere la bellezza dell’esistenza come capacità di relazione, di rispetto, e che pertanto si lasciano ancora trascinare dal male che è in loro:

I nostri nemici non hanno
sogni, speranze,
non conoscono la libertà,
non hanno parole,
conoscono solo
la voce del padrone,
che ordina di attaccare,
di mordere e uccidere…”
(Nemici)

Ma in che senso la “poesia biologica” di Catalfamo affonda le sue belle radici nella terra?

…la poesia biologica
che affonda le radici
nel profondo della terra,
fino agli Inferi.
Riattiveremo
onde gravitazionali
che consacrano i templi,
tramandano le civiltà,
fino a quando ci saranno
cuori puri ed onesti
e non prevarranno
per sempre
lo spirito belluino
e il fascismo.

Questa immagine della poesia che si radica nella terra è finalizzata ad indicare la vera natura e funzione del poetare, ossia la direzione di una poesia che sappia connotarsi con una visione “soteriologica e ri-costruttrice” dell’esistenza e come “atto profetico” in grado di aiutare l’uomo a leggere dal di dentro se stesso, i suoi rapporti con l’altro, con la società e con il mondo: quasi un ritorno al giardino edenico.
E’ un’espressione che fa pensare all’immagine della poesia “Il pioppo” di Clemente Rebora, allorquando , malato, vedeva dal letto della sua finestra rami protesi verso cielo e un bel tronco solido e fermo, e faceva notare che il pioppo non crollava perché le sue radici erano profonde e inabissate nella terra. Lo stesso Papa Francesco per parlare a Strasburgo dell’Europa ha pensato proprio a questa immagine di Rebora sostenendo che “le radici si alimentano della verità, che costituisce il nutrimento, la linfa vitale di qualunque società che voglia essere davvero libera, umana e solidale” .
Dalla “poesia biologica” di Antonio Catalfamo trasuda la necessità di recuperare dalle radici culturali del passato quei valori di libertà e giustizia acquisiti a caro prezzo attraverso lotte sociali che il poeta idealizza nell’ethos dell’ideologia comunista, e ancora oggi capaci, a suo dire, di far rinascere “cuori puri ed onesti”.
I versi di questa silloge sollecitano, insomma, un inabbissamento nelle radici della storia perché è inconcepibile per il poeta vivere la contemporaneità come un tronco senza radici, atteso che un tronco senza radici finisce progressivamente per svuotarsi al proprio interno e morire. Certo, le radici non possono essere – a nostro avviso- gli aspetti di tutti i regimi totalitaristici, ma i valori umani della libertà, della sussidiarietà e della solidarietà sociale, della giustizia, del dialogo, dell’amicizia e della cooperazione la cui conquista ha visto lotte sociali e politiche.
Le radici più vere che richiama la poesia di Antonio Catalfamo sono quelle che rispettano l’alterità e che coniugano verità e giustizia, che permettono di eternare affetti e sentimenti: “Solo la poesia può lenire / i dolori della vita, / rendere eterna, madre mia, / la tua memoria / per chi ti conobbe / negli anni migliori, / quando, regina della parola, / dispensavi a tutti / conforto e speranza / nel mondo vile e infernale”, in Petrarchesca.
Per concludere, l ‘autore narra in versi il suo passato, per operare, in buona sostanza, un’acuta analisi del presente e una denuncia sociale netta e senza riserve; da uomo di lettere, scrittore impegnato ci fa sentire, dal suo punto di vista, la sua civile amarezza; il suo messaggio è affidato alle nuove generazioni, che possono trarre tesoro degli ammonimenti per sfuggire ad alcune tentazioni come il fenomeno dell’auto-isolamento, la rinuncia e l’ esclusione dai processi più rilevanti della vita economica, sociale e politica del proprio paese; la chiusura in se stessi con il rischio di costruirsi un mondo interiore senza valori etici , incapace di indignarsi, ma soprattutto privo del senso dell’utopia e del sogno che aiutano a resistere e a perseverare nella ricerca della verità e nella costruzione di una società di persone libere e uguali.

___

(1) Lorca- Libro de Poemas, a cura di Claudio Rendina, Grandi tascabili economici Newton, 1991
(2) F. Garcia Lorca, Parole sul teatro, in, Impressioni e paesaggi, a cura di Carlo Bo, Passigli Editori 1993.
(3) Alardo Prats su “El Sol” del 15 dicembre 1934, in Lorca– Libro de Poemas, a cura di Claudio Rendina, Grandi tascabili economici Newton, 1991, p.11.

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