
E’ più importante il lavoro o il posto di lavoro? La domanda andrebbe rivolta alle organizzazioni sindacali che proverebbero a eluderla per non dover spiegare la differenza che passa tra le due cose, importante per comprendere fino a che punto e a chi soprattutto sia utile l’attività sindacale. Dunque, il lavoro è l’insieme di beni e servizi prodotti dalle imprese, il posto di lavoro coincide, invece, con la specifica prestazione del singolo lavoratore in un contesto aziendale. Ne consegue che la salvaguardia del lavoro è la principale garanzia della difesa dei posti di lavoro. Con la globalizzazione, la concorrenza e la possibilità di spostare la sede di un’azienda dove minore è il costo del lavoro, meno pesante la fiscalità, più rapidi i tempi del processo civile, meno vessatoria la burocrazia, migliori le infrastrutture, la delocalizzazione assume carattere di ordinarietà e, se non si è ipocriti, stigmatizzare il profitto, che è obiettivo dell’impresa, diventa un puro esercizio di ipocrisia e in alcuni casi perfino un alibi per il rimpallo di responsabilità. Non sono in grado di trovare soluzioni alla crisi occupazionale derivante dalla chiusura di siti produttivi, quindi, colpevolizzo l’impresa e la sanziono. Se in Italia giovani preparati e ambiziosi decidono di andare dove il riconoscimento delle loro capacità si accompagna a una maggiore gratificazione economica, significa che nulla è stato fatto per trattenerli e valorizzarli. Così, un’azienda che si sposti dove le condizioni sono migliori, rappresenta un fallimento delle istituzioni, delle organizzazioni sindacali e di una classe politica priva di idee, nonché una perdita per il paese. Colpevole della grave emergenza economica non è stata solo la pandemia, scoppiata quando la crisi di produttività durava ormai da decenni, ma la pervicacia con la quale, per tutelare i posti di lavoro, governi di diversa colorazione politica e sindacati, hanno tenuto in vita aziende moribonde con iniezioni massicce di denaro pubblico, vedi Alitalia che in 45 anni è costata al paese 12,6 miliardi. Sembra che la specialità italiana sia quella di dare ossigeno ad aziende che non sono in grado di stare sul mercato e per questo andrebbero abbandonate al loro destino. Manca, inoltre, la cognizione del rapporto costo-opportunità: il denaro che usi per salvare un’impresa dalla morte certa li togli a un’altra che ha maggiori probabilità di successo. E’ sciocco spendere tempo e soldi in missioni impossibili. Sul versante posti di lavoro, è indubbiamente prioritario proteggere il lavoratore e il suo reddito. Ma come? Intanto superando la visione novecentesca del rapporto tra capitale, lavoro e politica e il vecchio dogma caro alle sinistre e all’alleato pentastellato, secondo cui la politica deve intervenire nella dialettica tra capitale e lavoro con finalità redistributive. Le diseguaglianze non si combattono con il Superbonus e il Cashback, di cui beneficiano le fasce di reddito medio-alto, non certo l’operaio o il disoccupato. Infatti, Draghi e il suo ministro dell’Economia, che non sono due pivelli e a differenza dei politici non hanno la necessità di lisciare il pelo alle lobby e alle incrostazioni di potere che dettano legge in questo paese, avevano espresso riserve su entrambe le misure. Che è la dimostrazione dell’esatto contrario di ciò che pensano coloro che identificano l’ex banchiere con il nume tutelare delle élite economiche. Quello che servirebbe mettere in piedi è un progetto di politiche attive, efficace e funzionante, che operasse nei territori dove la deindustrializzazione sembra essere un processo irreversibile, e realizzare un ambiente economico favorevole alla realizzazione di nuove iniziative imprenditoriali, non dimenticando che la scuola e l’istruzione hanno una valenza fondamentale. Il futuro è davanti ai nostri occhi, non alle nostre spalle. Le misure adottate finora si sono rivelate regressive, sia rispetto all’azienda, ingabbiata in un quadro normativo che ne ha frenato gli investimenti e le assunzioni, sia rispetto al territorio e al paese che ha disperatamente bisogno di crescere. Ricordo che senza crescita economica, la sostenibilità del debito pubblico non è garantita. Ora, mi pare che i sindacati si siano occupati prevalentemente di difendere i posti di lavoro in un’ottica autoreferenziale e tesa al mantenimento delle tessere più che dei posti di lavoro. E per concludere, che senso ha ripetere quello che è stato fatto finora se non ha funzionato?