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“Nniminàgghi di Gino Armenia”, recensione di Piergiorgio Barone

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Gino Armenia, da semplice operaio dell’edilizia, ha coltivato e continua ancora a coltivare da anni una passione unica per le nostre generazioni, almeno quelle che si sono succedute dagli Anni Sessanta del secolo scorso e fino ad oggi. La sua passione è di carattere culturale, meglio dire di carattere antropologico, perché ha tenuto in grande, enorme considerazione la cultura delle radici del Popolo Siciliano ed in particolare del Popolo Modicano, con la sua sapienzialità, il suo modo di vivere, di essere un popolo che la nomea popolare ha definito “babbu”, la cui migliore traduzione però non è quella di stupido o scemo, ma di popolo semplice, buono, profondamente accogliente e solidale. Perché queste sono state da sempre le caratteristiche di coloro i quali hanno abitato questa plaga della Sicilia Sud-Orientale.

E Gino Armenia, facendo tesoro dei ricordi provenienti dalle due generazioni precedenti alla sua, quella dei padrie dei nonni, ha cercato di ripescare nella memoria tutta quella sapienzialità che veniva espressa soprattutto negli indovinelli, nei motti, modi di dire, proverbi. In particolare gli ‘indovinelli’, semplici analogie, spesso in rima, per descrivere oggetti d’uso quotidiano e per indicarne la loro funzione, ma anche parti del corpo, fenomeni atmosferici, malattie, mestieri, occupazioni, animali, erbe, piante, feste… Ma il tutto condito di ironia, umorismo, e – perché no? –sarcasmo. Per non parlare anche, spesso e volentieri, anche diindovinelli a sfondo sessuale ed erotici. Tanto è vero che questi indovinelli venivano definiti dal nostro Serafino Amabile Guastella ma anche dallo studioso più importante della cultura popolare siciliana Giuseppe Pitrè, “carnascialeschi”. Un termine ed un’usanza di origine fiorentina, che in Italia si tramandava dal Quattrocento in poi. Il termine stava ad indicare il ‘Carnevale’ ed erano, appunto, le 《`nniminagghie》 come le trascrive Armenia, ma anche più in generale “miniminàgghie” nel dialetto siciliano e nella ‘parlata’ modicana.

Venivano raccontate davanti al focolare a figli e nipoti, specie la sera, dopo un giorno di duro lavoro e prima di andare a letto: un piccolo sollazzo nel grigiore della giornata soprattutto nei mesi dell’inverno e prima di carnevale. Un detto antico, infatti, diceva che “Dduoppu ‘a strina re tri Re, si pò fari a cu-è-ggherè” cioè lo scherzo o l’indovinello dopo la Strenna dei Tre Re Magi, a inizio gennaio, si poteva fare e porre a chiunque.Si iniziava dunque deopo l’Epifania e ci si fermava dopo carnevale, il cosiddetto ‘martedì grasso’, perché l’indomani è il ‘mercoledì delle ceneri’ che rappresenta la preparazione alla Quaresima, lungo periodo di quaranta giorni di riflessione che porterà alla Pasqua. In osservanza al periodo doloroso di Gesù, non era lecito per i cattolici, sollazzarsi con indovinelli, battute ed altro.

In alcune occasioni, come accennavo sopra,si trattava di indovinelli che facevano riferimento alla sessualità (la prima parte della parola ‘carnascialesca’ è ‘carna’ cioè ‘carne’ (lat. “caro, carnis” etc., parte muscolare del corpo dell’uomo e degli animali) e venivano raccontate soprattutto per goliardia da giovinastri in vena di salacia, di battute argute e piccanti e doppi sensi.

Questi oltre duemila indovinelli (2.117 per la precisione) di Armenia sono stati pubblicati nell’arco di 3 anni ed in singoli volumetti di 64 pagine ciascuno nel formato 15 x 21 cm a partire dal 2016 fino al 2018 i primi tre, poi nel luglio 2019 gli altri cinque volumetti dal IV all’VIII, per i tipi di Santocono Editore – Rosolini.

Probabilmente questa successione temporale nella raccolta e trascrizione, non ha permesso all’autore di presentarli per tema, per argomento come invece è avvenuto nella tradizione editoriale degli autori di cui si parlava prima, Guastella e Pitrè ed altri. Però non credo che il nostro Gino Armenia ne avesse l’intenzione. La rapsodicità nella raccolta è molto evidente. A lui interessava solo raccogliere, trascrivere, non ‘sistemare’.

Gino Armenia è stato, si è ‘sentito’ come un ‘alunno’ del maggiore studioso di tradizioni popolari della nostra Città, il Maestro Nannino (Giovanni) Ragusa. Di lui – ma non solo di lui – il nostro Autore ha seguito le indicazioni sintattico-grammaticali, fonetiche oltre che formali nella trascrizione delle parole, dei vocaboli in dialetto. Quindi gli accenti tonici di parole piane, sdrucciole, bisdrucciole (uòcci, suòru, Cartaçirùni, picùni, gnutticùna…), ma anche la ‘c’ con la cediglia, il segno grafico della lingua francese e portoghese che, posto sotto alla lettera c (ç), seguita dalla lettera ‘i’, in dialetto la rende ‘sci’ (amiçi, filiçi, straluçi..). E poi l’uso della ‘d’ cacuminale col puntino sotto; per non parlare delle vocali con accento circonflesso e così via. E ciò al fine di facilitare la lettura, specie alle nuove generazioni che hanno perso l’uso dell’ascolto ed anche della pronuncia del dialetto, perché eccessivamente ed erroneamente negato per decenni nelle scuole di ogni ordine e grado. Un dialetto per tanti anni inteso pregiudizialmente come simbolo comunicativo dello svantaggio sociale e culturale familiare ed ambientale, quasi simbolo di arretratezza.

La rapsodicità, quindi la mancanza di un ‘disegno’ iniziale e complessivo, certo ha creato un limite a questo lavoro. Avevo avuto modo di consultare alcuni dei volumetti pubblicati qualche anno fa e pensavo – almeno io lo speravo – che avrebbe potuto, nell’ultimo, segnalare per tema il numero dell’indovinello: una sorta di indice analitico di consultazione. Se così fosse stato l’Autore avrebbe fornito ai lettori curiosi ed agli studiosi di tradizionipopolari uno strumento di analisi antropologica del vissuto dei nostri avi davvero importante. Vale a dire la percezione che essi avevano della religione, della famiglia, della donna, del lavoro, del tempo e così via.

Editorialmente parlando, sarebbe stato meglio non frammentare l’opera in volumetti, perché la separazione ha senso solo in un lavoro per temi ed argomenti, non per l’indifferenziazione. Anche la presenza dei loghi degli sponsor e altro lungo il corso di quasi tutte le pagine costituisce un ‘appesantimento’.

Quella di Armenia, quindi, si presenta oggi come una raccolta ‘artigianale’ -queste le dichiarate intenzioni dell’Autore – e invita gli studiosi di tradizioni locali e di antropologia culturale a misurarsi con questo materiale prezioso.

Preziosità che negli anni gli è stata riconosciuta da attenti e appassionati studiosi e conoscitori di tradizioni locali: da Michele Armenia, Orazio Di Giacomo, Emanuele Terranova, a Saro Cannizzaro, Ettore Rizzone, Franca Cavallo: ben 480 pagine, contenenti tra l’altro alcune foto storiche della città provenienti dalle raccolte private di Arturo Amore e Giancarlo Campailla.

Piergiorgio Barone

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