Nel suo nuovo romanzo I gradi della rabbia, pubblicato dalla casa editrice Edizioni libano-egiziane, l’autrice Safa’ al-Najjar [1973- ] ci rivela un universo nuovo, diverso per struttura e per ambientazioni da ciò che avevamo conosciuto nei suoi precedenti romanzi: Le dimissioni dell’angelo della morte, Il lieto fine e nelle tre raccolte di racconti: La ragazza che aveva rubato l’altezza a suo fratello, La huri del paradiso che sguscia piselli, e La derviscia. In quest’ultimo, per esempio, ci trovavamo davanti ad un personaggio che nonostante la sua ansia riusciva ad avere la meglio sul mondo circostante, che si rifugiava nella propria interiorità per poter poi affrontare una realtà crudele. Il sufismo diventava allora la strada della meditazione attraverso cui scrollarsi di dosso le ceneri del mondo.
Safa’ al-Najjar decostruisce ciò che è tema centrale del suo romanzo, la rabbia. La centralità della rabbia ci è indicata anche dal titolo scelto per il romanzo. Ci addentriamo allora in un mondo in apparenza molto vasto, ma opprimente nella sua essenza. Questo si riflette nei vari personaggi tratteggiati, tra i quali la narrazione si sposta agilmente e con grande abilità autoriale.
L’autrice ha ideato questo titolo su una tipica costruzione linguistica dell’arabo, quella dell’attributo o complemento di specificazione. Qui “la rabbia” è complemento di specificazione della parola “gradi”. Questo rende la connotazione della parola “gradi” aperta all’interpretazione e non immediatamente comprensibile. L’uso della parola maqamat, infatti, presume che si possa intendere il significato dell’espressione con essa costruita in diversi modi. Questo termine ha infatti diversi significati in base al contesto in cui esso viene utilizzato, comprendendo sia la connotazione di “luogo, posizione di qualcosa”, così come di grado della scala musicale, dove ci si sposta da una tonalità all’altra. La parola maqamat è utilizzata inoltre nell’ambiente sufi, con l’accogliente semplicità che lo contraddistingue, dove le maqamat sono i diversi gradi o stazioni nel percorso del credente di avvicinamento ad Allah.
Con questa deviazione linguistica dal significato principale della parola, si crea una nuova espressione, che tratteggia un mondo costruito su strati di rabbia. Ci troviamo davanti ad un motivo suonato dai personaggi, chi perennemente in stato di incertezza, chi in attesa, chi in cerca di avventura, chi voglioso di andarsene. Ognuno con il suo diverso livello, o, appunto, “grado”. Per questo motivo il romanzo si divide in sezioni: “Grado dell’avventura”, “Grado dell’incertezza”, “Grado dell’attesa”, “Grado della dipartita”. Così viene anche palesata la relazione tra forma e significati narrativi, e la consapevolezza autoriale della propria strategia narrativa.
Il concetto di rabbia è particolarmente presente nella filosofia stoica così come in quella buddista. Seneca, uno dei più influenti filosofi stoici, sosteneva che la rabbia è una delle emozioni più dannose e irrazionali che possiamo provare. Per lui, la rabbia può portare a comportamenti impulsivi e distruttivi, causando danni sia a noi stessi che agli altri. Egli invitava a riflettere sulla natura transitoria delle passioni, compresa la rabbia, e sull’importanza di dominare le proprie emozioni anziché essere dominati da esse.
Questo riconoscimento dell’inutilità della rabbia è legato al concetto stoico di coltivare l’apatia, ovvero un atteggiamento di calma e tranquillità interiore di fronte agli eventi esterni. Così anche la pensarono i buddisti; lo studioso dell’ottavo secolo Shantideva descrisse la rabbia come la più estrema forza negativa, una con la capacità di distruggere ogni bene e ogni serenità dell’anima. Se ne occupò anche Peter Strawson nella sua importante tesi La libertà ed il risentimento. Egli riteneva il risentimento, un atteggiamento reattivo, secondo lui, come un vero e proprio “modo di interazione morale” che viene adottato in risposta al modo in cui ci relazioniamo vicendevolmente. Il risentimento, in questa prospettiva reattiva, rappresenta una modalità di interazione indirizzata ad agenti che stabiliscono relazioni significative con gli altri e in quanto tali, sono oggetto di appropriate aspettative morali e richieste di compensazione e riparazione quando queste aspettative sono disattese.
Grande era il risentimento dei personaggi di al-Najjar prima della rivoluzione, e grande è rimasto in seguito alla delusione che hanno affrontato le loro aspettative. Per quanto riguarda le proporzioni quantitative delle sezioni del romanzo, si osserva che Incertezza e Attesa, nodo della vicenda romanzesca, e sede principale del sentimento di rabbia, rappresentano la parte più corposa dell’opera, rispetto alle più brevi sezioni iniziale e conclusiva Avventura e Dipartita.
Il Grado dell’Avventura costituisce l’introduzione drammatica del romanzo, e presenta i personaggi più importanti nello sviluppo dell’atto narrativo, Arwa, Salwa, Yusri Saleh, personaggi problematici, complessi, uniti dal loro vivere nel momento fatale e critico per la Nazione egiziana (Gennaio 2011, 30 Giugno 2013) ed è il periodo di poco precedente a questa fase.
Diverse voci narranti si fondono, quelle dei vari personaggi del romanzo ‘polifonico’ (Arwa, Salwa, Yusri Saleh, Fady, Ali Qindil), per dar vita ad una narrazione che attraverso la molteplicità dei punti di vista utilizzati realizzi una logica democratica della narrazione. Entro questo quadro, le sezioni dialogiche si considerano uno strumento fondamentale, anche dal punto di vista dell’estetica, per la costruzione romanzesca: attraverso di queste si svelano le personalità dei personaggi, ed il loro carattere. Prendiamo come esempio i dialoghi tra Arwa e suo nonno, il Generale Yusri Saleh: non sono solo dibattiti tra due personaggi principali della storia, ma rappresentano lo scontro tra due generazioni diverse e due particolari visioni del mondo.
L’autrice sembra consapevole della forza espressiva della caratterizzazione dei suoi personaggi, e ci riferiamo qua al modo di trattare la dimensione interiore. Ci immergiamo nella psicologia del personaggio, così per esempio con il Generale Yusri Saleh. Lo sentiamo affermare: “essere guardiano a protezione di parte della tua patria significa offrire protezione e aiuto ad ogni straniero, aprire a chiunque chieda di entrare e si presenti alla tua porta. Significa pagare un alto prezzo, ed un prezzo doppio in termini di tempo e di sforzo, di sacrificio della relazione con i nostri cari. E al momento in cui ci troviamo davanti a un bivio, al momento in cui ci viene richiesto di scegliere tra accettazione e rifiuto, quegli stessi stranieri ti volteranno le spalle, li sentirai accusarti ingiustamente, e non solo, ma si spiegheranno ciò che avrai fatto per loro per amore e affetto non solo in modo sbagliato, ma come vere e proprie cospirazioni” (p. 44).
Nel secondo capitolo, L’incertezza, viene utilizzata una metafora, che supera quelle narrazioni costituenti la base della leggendaria neutralità dei media, della quale Herbert Schiller ci rivela l’inconsistenza nella sua famosa opera I manipolatori di menti: “Con l’invenzione della telecamera, la realtà non ha più un solo volto, ma mille. Con l’invenzione degli smartphone, si resta sempre al centro dell’azione, senza che esistano più limiti di tempo o di spazio. E’ un fenomeno distruttivo, trovarsi perennemente all’interno del cerchio, lo scorrere del tempo è incantato ed infinito, ci si ritrova invischiati in dettagli inutili e relazioni intrecciate, e ci si sposta, sempre dentro il cerchio, da un gruppo ad un altro, ora nella stanza di regia, ora in studio, ora al montaggio, in un circolo vizioso senza fine, con ore di diretta, un vociare ininterrotto, un circolo di cui non si trova la fine” (p. 57).
Il romanzo esplora ed interroga la rigida coscienza e la mentalità omicida dei gruppi estremisti, e punta il dito inequivocabilmente verso ciò che questi gruppi hanno fatto della rivoluzione: “Abbiamo realizzato la rivoluzione, ma le nostre teorie non si sono realizzate, ed è apparso chiaro e lampante che i Fratelli e le altre organizzazioni islamiste dominano il mondo. Ci siamo messi nell’angolo di una tenda vicino all’ingresso di Mohammad Mahmoud, le candele non sono luminose quanto torce elettriche, ed il suono di una chitarra è flebile rispetto a quello di cembali e tamburi. Gli altoparlanti risuonano di esaltazioni di Allah, di prediche e sermoni religiosi. In piazza mi sono sentito estraneo, festeggiavano la vittoria della Rivoluzione, mentre noi affondavamo nell’insoddisfazione, circondati dai residui delle luci che si erano spente e dalle decine di fiori caduti o recisi al momento sbagliato” (p. 76).
Un romanzo, questo, che rifugge la sfera pubblica e predilige il privato, per arrivare a crearsi una propria logica estetica dell’interiorità. Quest’ultima si relaziona con le varie situazioni attraverso la tecnica dell’obiettivo fotografico, onnipresente nella narrazione e nel dialogo, finanche nell’ ultima lettera che Arwa lascia all’amato Fady. La narrazione è coesa e troviamo in essa il gioco dell’intersezione tra passato e presente. Si vuole allora cogliere l’attimo, una contemporaneità fluida ed infinita, figlia del “qui e ora”, sfuggente ad ogni interpretazione ed accattivante. Ci viene offerta così la possibilità di riflettere, di scoprire, di immergerci nel mondo ricreato dal flusso narrativo, caratteristica più preziosa di un romanzo che va ad aggiungere ricchezza e particolarità alla produzione creativa dell’autrice.
Wafaa Raouf El Beih