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Cuba. La poesia di Yuray Tolentino Hevia…di Domenico Pisana

Realismo e visione dell’esistenza nel libro “Puertas, Boleros,Y Cenizas - Porte, Boleri e Cenere, Edizioni Il Cuscino di stelle,2023, traduzione di Claudia Piccinno
Tempo di lettura: 2 minuti

I tratti esistenziali che attraversano la versificazione della raccolta poetica bilingue (spagnolo- italiano), edita da Il Cuscino di stelle, 2023, con traduzione della poetessa pugliese Claudia Piccinno e dal titolo “Puertas, Boleros,Y Cenizas – Porte, Boleri e Cenere”, hanno il respiro di un’ esperienza di vita, di un sofferto realismo, e, altresì, di una dialettica interiore che si essenzializza in sentimenti ambivalenti rispetto ai vissuti legati alla terra d’origine della poetessa.
L’autrice del volume è Yuray Tolentino Hevia, poetessa, sceneggiatrice, critico d’arte e regista, che vive a Guira de Melena, Cuba, e che ha un solido e rilevante percorso culturale; scrive, infatti, in molte riviste e periodici di poesia e narrativa, ha pubblicato tre libri di poesie, curato 40 mostre personali e collettive, ha partecipato alla Biennale Internazionale dell’Avana del 2009, 2015 e 2019, ed ottenuto riconoscimenti e premi di poesia, tra i quali il Primo Premio internazionale “Renato Filippelli” nel 2020 in Italia, e il Premio internazionale “Le piume del quetzal delle mille menti” di Mexico International 2023.
Nella trasfigurazione creativa delle modulazioni coscienziali della poetessa, ci sono anzitutto le “porte”, che risultano la categoria direzionale delle prime due sezioni della silloge; si tratta di porte interiori e di porte di uscita , ove si trovano raccolte relazioni semiologiche, dinamiche affettive, raggruppamenti fonici, convergenze di pensiero e criteri analitici della percezione del tempo.
Le porte interiori sono lo specchio dell’anima della poetessa ove si riflettono tormenti, suggestioni, malinconie, ansie e sfuggenti abbandoni, che godono di una cadenza creativa sostanziata di elementi ideologicamente trattenuti e fantasticamente provocatori in sede elaborativa:

“Io sono la scrivania che scruta la pelle
la parola addormentata…
Cerco una finestra per appendere il mio autoritratto
con tutte le possibili definizioni dell’amore…

Non sono un libro raro e usato.
Sto morendo serenamente ieri…

e mi chiedo, e mi chiedo:
mi sono davvero persa?” p. 9.

Dietro le puertas interiores di Yuray Tolentino Hevia c’è l’ inveramento d’una circolarità esistenziale proiettata nell’atto di comunicazione sia con la madre, descritta nelle sue fattezze e dimensioni di affabilità, sia con il fratello Ichi, che “viaggiò senza dire addio”; i versi riprendono un tempo di vita nella sua antologia di bontà e gioia, amore e pensosa solidarietà, e scrutano gli attimi d’ immagini e pensieri rievocati dalla memoria e con un linguaggio che si propone come tramite gnoseologico ma soprattutto come confessione d’identità:

“Mia madre andava dal poliziotto
tra le mani di Dio…
E’ diventata donna tra stufati e dolci…
Aveva un giardino
ora un ciottolo dove
non possono muoversi
quattro figli.
Mia madre parla della morte
io imploro Dio per la sua vita.” p.11;

“Mio fratello viaggiò senza valigie
senza dire addio
con la foto di sua figlia sul petto
e molti fiumi che non portavano al mare…” p.13.

Un rapporto in chiaroscuro emerge nella seconda parte della raccolta, dal titolo Puertas de salida (Porte di uscita). Qui trovano corpo versi tagliati con risentimento e inquietudine, atteso che la poetessa vive atteggiamenti ora sintonici ora distonici con l’ambiente esistenziale della sua “Isola”, cioè Cuba: “qui siamo tutti vecchi prima di nascere / puzzle acquistati a prezzi bassi / con le farfalle negli occhi…” scrive la poetessa a p. 17; ma è un Isola che, tuttavia, Tolentino Hevia si “porta dentro”: “Anche se altri scappano / tu ed io abbiamo l’Isola / e la memoria, nella cassaforte”, p. 17.
La relazione della poetessa con la sua Cuba è oscillante, ambivalente, e la induce a calare nei suoi versi la battaglia delle idee, a trasfigurare dolenti diagnosi incastonate negli spazi, nei profili di immagini in movimento e nei mutamenti delle voci delle stagioni, nonché a muovere la “coscienza collettiva”:

“A volte vorrei scappare
e vivere nella giungla di Lam
non in questo posto, dove conta solo
se indossi le Nike o la terra di qualche città
nascosta nelle unghie.

A volte lo sguardo è confuso
come al cinematografo
e nessun risponde…

A volte accendi un fiammifero e scappi.
è la tua Isola
anche se respiri attraverso un monitor
anche se la ruggine dell’apriscatole
con cui registri le strade ti ha fatto star male
continui a urlare:
CUBA.” p. 23.

L’accoglienza e l’insistente bisogno di fuga di Yuray Tolentino Hevia dall’ “Isola”, diventano interscambiabili, tumultuano nella sua coscienza che ricerca la dimensione veritativa dell’esistenza, il nucleo più segreto dell’anima, le ragioni etiche che si annodano sugli interrogativi interiori legati ora all’infanzia ora alla memoria della madre, ora al persistente sentimento e spirito etico – riflessivo che trasuda dalla partecipazione vitale della poetessa ai problemi della sua terra, ai mali del contesto sociale, ai residui ideologici che l’hanno segnata per anni:

“In mille modi amo quest’Isola
di mille giravolte e fotografie.
Lascio cadere la cometa dove mia madre
viaggiava sulla luna e tornava
con l’odore del caffè nelle tasche…

Un giorno, fui la ragazza
che ha ripetuto per anni
noi saremo i pionieri del comunismo
…lo saremo?” p.25.

Nelle Puertas de salida di Yuray Tolentino Hevia c’è anche tutto un messaggio di libertà come ideale di vita umano-sociale, fermo antidoto contro l’ideologia dei regimi, l’ingiustizia, l’indifferenza opaca, la sopraffazione, l’egoismo; nelle sua parole scorre la linfa della sua interiorità, il dolore malinconico alieno da escandescenze e da polemiche di ribellione e che si tempera in lunghe pause verbali; si cela, insomma, il sogno d’una pedagogia di libertà e di giustizia:

“La gente della mia Isola
si riunisce la domenica
e cucina, forse
l’unica carne
della settimana.
Tom è un ubriacone.
Maria è una puttana
marciamo insieme in piazza…

Noi abbiamo ancora
l’umile sogno di prenderci il
tempo in bocca
come fossimo
cavie da laboratorio.” p. 27.

Una poesia, come può notarsi, aperta all’immediatezza del reale, tradotto in un linguaggio trasfigurato con diverse immagini: il “pugile”, “le scarpe”, “il cerchio senza finestre”, “il muro”, “il titolo universitario”; in un linguaggio meditato e a volte desolato, dove la vita appare sequela di illusioni, strada di maturazione lenta, albero spoglio di frutti.
Quella della poetessa cubana è voce di pianto che parla alla gente; è bisogno che si cala nelle asimmetrie umane e provoca al bisogno di cambiamento; è protesta e irrequietezza che pesa le cadenze del vivere, entra nell’intimo degli impatti e interpreta i momenti impronunciati del dubbio e del dolore:

“Ci sono giorni in cui l’Isola
ti colpisce
con la forza di un pugile
professionista.

Le scarpe sono nuove
il percorso è lo stesso
un cerchio
senza finestre
dove un piccolo uomo
ti chiede l’identificazione
prima dell’apertura.

Inventi storie:
i quattro gatti
senza cibo
l’amante e le catene
il titolo universitario
sul muro
pieno di polvere
e senza valore d’uso.
Ci sono giorni…” p. 29.

La terza parte della raccolta, che porta il titolo Tiempo di boleros (Tempo di boleri), è quella più consistente e si connota come grido e tomento di vita adombrato nei lemmi dei titoli delle singole poesie: “oscurità”, “lacrime”, “gardenie”, “nave”, “scadenze”, “conversazioni”, “cuore”, ritorno”, “amore”. La poetessa fa approdare sulla pagina versi attraversati da una sofferta meditazione sulla condizione umana che si fa rappresentazione e lezione etica.
Il giudizio mentale di Tolentino Hevia squarcia il paesaggio reale e quello della memoria liberando lo stato interiore, mentre la parola, alleggerendosi, si allarga alla comprensione del divino: “Con te /non si può parlare /devi fare harakiri alle tue idee /asciugarle al sole / nei giorni festivi /insieme alla pace di Cristo / bere tè caldo /alla destra della censura / e lontano dal gregge”, p. 49.
Con il suo richiamo al modulo prosastico, la poetessa ritesse tensioni, doppiezze, sentimenti contrastanti, utilizza stilemi speculari alla forte indignazione e lacerazione dell’anima che assiste, impotente, al degrado della dignità umana:

“… le donne che mi accompagnano
soffrono già della paura degli anni…” , p.51;

“E cosa ne hai fatto dell’amore che mi hai giurato
se hai ucciso la speranza che era in me…, p.53;

“…Amami molto, Isola mia
anche se alla colomba della pace
gli tagliarono la testa
per nutrire i santi di mia madre…

E’ impossibile, Isola mia
viverti distante, e viverti”, p. 59.

Nella quarta parte della raccolta, dal titolo Croce di cenere, la poetessa , infine, allunga il verso costruendo una poetica speculativa con la quale offre al lettore la meditazione sul mondo e sulla società che vive dentro di sé, e una disamina acre e sconsolata che rifulge in immagini e metafore di icasticità espressiva: “…Con una croce di cenere / segnalo le squallide brughiere / dove i morti festeggiano / con rum, sigari, poesie / le reincarnazioni dell’Io / in una terra abitata da silenzi… Non intendo salvarmi /crocifissa col cordone / né dell’elegguà dietro la porta…”, p. 71; anche l’energia emozionale e la vis concettuale di Tolentino Hevia entrano nei versi per disegnare situazioni di vita e contesti (“… Sono un uccello solitario / la cui identità vive in una stanza verde /dove solo lei mi raggiunge e rimbomba / e mi rende libera…”, p. 75.) e per stigmatizzare la dinamica interiore e il dolore di “quelli che se ne sono andati” da Cuba e che “portano le lame della rabbia”, e “quelli che sono rimasti”, che “hanno dovuto pagare / per un amore ribelle e incondizionato / per i loro fratelli, quelli che non lo sono” :

“…quelli che sono rimasti
hanno disegnato un cerchio con la buccia
intorno alla casa
dell’Isola
e le pene che non potevano nuotare.
Quelli che sono rimasti
sono andati in piazza con la voce
imbastita di slogan, alla ricerca
delle verità promesse
dopo che suona la campana
e le foglie rivestite di ulivo
come unico almanacco
da gennaio a dicembre” p. 77.

Concludendo, riteniamo di poter dire che la poesia di Yuray Tolentino Hevia è essenzialmente “epistemologica”, nel senso che indaga i processi affettivi, sociali, esistenziali che ella vive nella sua “Isola”, riuscendo a fare entrare il lettore nella sua anima fortemente impregnata di determinazione morale e dei valori della bellezza, spesso deturpata. La poetessa reinventa il reale, e con coraggio e nobiltà d’animo consuma il pane della pazienza e del sudore, trasformando l’istante della precarietà nell’eterna immagine della vita che cambia.
Un plauso va anche alla traduttrice Claudia Piccinno, atteso che, a causa delle diversità tra le lingue, è spesso difficile conservare sia il senso esatto che lo stile e la metrica della scrittura; avendo letto diversi poeti da ella tradotti, a me pare, per intuizione, ma è una mia opinione, che la traduzione, in Claudia Piccinno, non sia tanto un mero esercizio tecnico –linguistico e formale per far combaciare le parole, ma “un’esperienza esistenziale”: ella sa infatti entrare nei versi con l’animo poetico, riuscendo a tradurre e mantenere il senso dell’ opera originale.
Se è vero che per alcuni (Herry Miller ad esempio) lo stile è intraducibile, e, come per Benedetto Croce, la poesia è “intraducibile”, è altresì vero che l’attività di traduzione non può ridursi ad una mera conversione di parole come hanno insegnato grandi traduttori del Novecento italiano, quali Ungaretti, Quasimodo, Montale, Vittorio Sereni, ma deve sforzarsi di portare nell’essenza e nello stile di un’ altra lingua la forza e il senso di una parola poetica, con la consapevolezza che la traduzione irreprensibile non esiste; diceva San Girolamo a coloro che gli rimproveravano la scarsa aderenza della versione latina della Bibbia al testo greco, “Non verbum e verbo, sed sensum de sensu”, cioè bisogna tradurre seguendo il significato complessivo del testo – ad sensum – e non alla lettera – verbum ex verbo exprimere –. A me piacciono i traduttori poeti che non si limitano a rendere la parola con la parola, ma il senso con il senso, cogliendo quella “esprit de finesse” di pascaliana memoria che consente di raggiungere il “cuore” di noi stessi, delle cose e degli altri. E Claudia Piccinno, a me pare una di questi.

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