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Non così potente come sembra…l’opinione di Rita Faletti

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Le elezioni presidenziali in Russia sono andate come dovevano andare. Putin ha vinto con un consenso vicino al 90 per cento e ha ricevuto i complimenti da Xi Jinping e Khamenei. E’ una notizia che non fa notizia perché il Cremlino si era messo al riparo dall’unico rischio possibile: la partecipazione di un candidato di opposizione. Nessun regime totalitario è immune dalla paura di essere ribaltato, ma nessun regime totalitario, nel XXI secolo, può permettersi il lusso di non mandare alle urne i suoi cittadini. Gli serve una parvenza di democrazia, risibile perché fasulla, che dia una sorta di legittimità a un sistema palesemente illiberale che si avvale di metodi repressivi al minimo segnale di dissenso. Nel 2020, Lukashenka commise l’errore di ammettere al voto la rappresentante dell’opposizione, che stravinse. Il pasticcio fu risolto dal sottopancia di Putin con l’annullamento del voto per frode. Un precedente che Putin si è segnato in agenda, prima di fare abbondante scorta di novichok da alternare ad altre  forme di punizione. Al capo del Cremlino bisogna riconoscere fantasia e coerenza dei fini. Di questi, il più importante era mostrare al mondo l’immagine di un leader amato dal suo popolo dopo 25 anni di potere assoluto, confermato anche dai voti strappati agli ucraini da militari armati, entrati casa per casa, nei territori occupati illegalmente e perfino nelle trincee tra i soldati. “Insieme siamo più forti” è la scritta sui volantini distribuiti agli abitanti rimasti a Donetsk, Luhansk, Kherson, Zaporizhzhia e nei villaggi dove quasi nulla è rimasto in piedi. Nella Federazione russa il voto non è un atto di libertà ma uno strumento di sopraffazione e l’alta affluenza sulla quale Putin contava è stata controbilanciata dalle migliaia di cittadini che il primo marzo hanno portato l’estremo saluto a Navalny. In quel saluto c’era tutto il risentimento contro il despota, la rabbia più forte della paura di essere presi e gettati in prigione. Putin sperava nella passività della popolazione di fronte all’omicidio di Alexei Navalny, né prevedeva che il richiamo della sua vedova a presentarsi ai seggi al “mezzogiorno contro Putin” avesse tanto seguito. Lo striminzito territorio rubato all’Ucraina all’inizio del terzo anno di conflitto, l’aumento record delle spese militari, un terzo del bilancio, le nuove mobilitazioni necessarie per alimentare la macchina da guerra e rimandate al dopo elezioni, hanno spinto Putin sull’orlo di una crisi di nervi. Il martellamento della propaganda russa sulla debolezza dell’Europa, i toni sempre più aggressivi, la rinnovata minaccia del nucleare con allusioni alla “distruzione della civiltà”, come se lui stesso e la sua Russia potessero salvarsi, la tracotanza dell’aggressore che sfida le democrazie che teme, sono segnali di insicurezza che il bluff della forza non riesce a nascondere. “Non è il momento di negoziare ora che l’Ucraina è debole”, Putin pensa a Macron, senza nominarlo, e alla sua minaccia degli “scarponi sul terreno”, sospesa nell’aria come eventualità da non escludere. Scholz e Tajani la respingono. Ma se fermare Putin è fondamentale, se sostenere l’Ucraina è condizione indispensabile per la libertà di Kyiv e la sicurezza dell’Europa, l’ambiguità di Macron è intelligenza e strategia. Non ci sono strumenti più efficaci per confondere il nemico e affrontarlo sul suo stesso terreno. Una combinazione di rassicurazione e minaccia per disorientare, sangue freddo e nervi saldi, e una quantità di sistemi di difesa e munizioni di tutti i tipi per Kyiv. L’alternativa è la resa.

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