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Si è parlato del giudice Livatino in una conferenza a Ragusa

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La camicia azzurra sporca di sangue, bucata dai proiettili dei sicari mafiosi è in una teca della cattedrale di Agrigento, un reliquiario in argento che ricorda il suo martirio. Dallo scorso 9 maggio Rosario Livatino, giudice ragazzino assassinato mentre, solo, senza scorta, la mattina del 21 settembre del 1990 andava in tribunale, è beato. Martire trucidato da killer stiddari che lo rincorsero mentre tentava di fuggire lungo una scarpata e non ebbero pietà di lui. “Picciotti, che vi ho fatto?”, avrebbe detto ai suoi assassini prima di cadere a terra. Una sorte che aveva accettato da tempo come prezzo da pagare per la vita che aveva scelto. Un uomo “credibile”, lo ha definito il cardinale Marcello Semeraro, prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi venuto ad Agrigento da Roma per officiare la cerimonia di beatificazione. Ieri sera, le tappe dell’articolato processo per la beatificazione sono state illustrate a Ragusa, nella chiesa del Sacro Cuore di Gesù, da don Giuseppe Cumbo, postulatore di giustizia nella fase suppletiva del processo e vicario episcopale del settore ovest dell’Arcidiocesi di Agrigento. L’evento, fortemente voluto dal parroco del Sacro Cuore, il sacerdote Marco Diara, e rientrante nel calendario delle iniziative programmate per i festeggiamenti parrocchiali tuttora in corso, ha visto la partecipazione di un consistente numero di fedeli, nel limite della capienza massima prevista dalle restrizioni anticovid. “Uno dei killer che lo uccise, Gaetano Puzzangaro – ha ricordato don Cumbo – esplose un colpo a distanza ravvicinata. “Che cosa vi ho fatto?” aveva chiesto qualche istante prima Livatino. Citiamo questo episodio perché, ventotto anni dopo, le parole di Puzzangaro sono state inserite all’interno dell’ampio faldone con gli atti del “processo diocesano” poi inviati a Roma. Documenti e testimonianze (quasi 4000 pagine) sono stati esaminati dalla Congregazione delle Cause dei Santi”. Il processo di beatificazione era stato aperto dall’arcivescovo di Agrigento, il cardinale Francesco Montenegro, il 19 luglio 2011. I primi passi, però, erano stati avviati nel 1993, quando l’allora arcivescovo di Agrigento, monsignor Carmelo Ferraro, incaricò Ida Abate, che era stata insegnante del giudice Livatino, di raccogliere alcuni documenti su di lui. In quegli anni, c’erano anche i genitori di Rosario Livatino che collaborarono nella prima fase. Il percorso che portò all’avvio della causa di canonizzazione iniziò così. Puzzangaro, condannato all’ergastolo, oggi sconta la sua pena nel carcere di Opera.

“Ho testimoniato per la causa di beatificazione di Livatino perché era doveroso – ha raccontato in una intervista −. Oggi mi farei ammazzare piuttosto che rifare ciò che gli ho fatto. E lo prego ogni domenica a messa. Il mio più grande rimorso? Non aver avuto il coraggio di chiedere scusa ai suoi genitori”. Aveva 22 anni, quando impugnò la pistola che freddò il giudice. Anche gli altri killer erano ventenni. Un altro killer, Domenico Pace (anch’esso ergastolano), ha chiesto anch’egli perdono qualche anno fa. Puzzangaro oggi vive nel ricordo, ma è anche un uomo che fa i conti con il proprio passato e che indica ad altri giovani una via diversa da seguire: “Ho il dovere morale di espormi – ha scritto tra l’altro in una lettera pubblica – come esempio fallimentare per tutti quei giovani che pensano di trovare nella criminalità organizzata eroismo, successo, soldi facili, rispetto. Vi prego: dite no ad ogni forma di organizzazione criminale”. “La testimonianza di Puzzangaro – è stato spiegato – è stata importante per il processo diocesano. E’ stato disponibile a farsi ascoltare. Ovviamente, le sue parole si affiancano a quelle di tutti gli altri “testimoni”. Ma lo si potrebbe definire una “pietra miliare” di questo processo di canonizzazione”. Il parroco, don Diara, soddisfatto per l’esito dell’appuntamento di ieri sera, chiarisce: “Livatino ci può insegnare che per diventare santi non dobbiamo estraniarci dai nostri impegni, come spiegato dal cardinale Montenegro, ma, piuttosto, dobbiamo sporcarci le mani nelle fatiche quotidiane. Livatino per noi è espressione di un cristianesimo a tutto tondo fatto di unione con Dio e di servizio all’uomo, di preghiera e di azione, di silenzio contemplativo e di coraggio eroico”.

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