
Corrado Calabrò è tra i maggiori poeti italiani del secondo Novecento. Nato a Reggio Calabria, le sue numerose raccolte poetiche sono state pubblicate da importanti gruppi editoriali (Guanda, Vanni Scheiwiller, Mondadori, Crocetti, Newton Compton e tante case editrici straniere; è anche autore di un romanzo, Ricorda di dimenticarla (Newton Compton, 1999), finalista al premio Strega del 1999, tradotto in rumeno e in spagnolo.
Accostarsi al suo libro di poesie Quinta dimensione, Mondadori, giunto alla seconda edizione, è come entrare in un mondo magmatico dove la capacità del poeta di integrare concetti scientifici, in particolare dell’astrofisica, con la dimensione onirica e spirituale, appare in tutta la sua evidenza. Il lettore si trova di fronte ad una fusione che riesce a creare un ponte tra il rigore della scienza e l’incanto della poesia, inducendo a riflettere sui grandi interrogativi dell’universo e dell’esistenza umana. E’, in fondo, lo stesso poemetto “Roaming”, posto in apertura del libro, a rivelarlo, tant’è che le parole dell’autore riprendono l’idea di una poetica che si confronta con il “De rerum natura” di Lucrezio, ma in chiave moderna. A riguardo così scrive lo stesso Corrado Calabrò:
“… Erano duemila anni, da Lucrezio, che la fisica non costituiva materia di poesia. Sono appassionato di astrofisica fin dall’adolescenza, ma non avevo mai pensato che potesse formare argomento di poesia, come non ho mai pensato che ne potesse formare oggetto il diritto, del quale, pure, mi sono occupato dieci ore al giorno per cinquantasei anni. Avevo scritto – avevo “dovuto” scrivere – un poema di 602 versi sull’astrofisica in uno stato di semincoscienza, quasi di sonnambulismo. Il filo conduttore della mia ispirazione – afferma l’autore – è stata una frase di Senofonte (che viene citato in greco): ‘Ora siamo trasportati come i naviganti che, per quanto solchino il mare, non possiedono il tratto che lasciano dietro di sé più di quanto non possiedono il tratto che devono ancora solcare’ ”, pp.24-25.
Il corpus poetico del volume Quinta dimensione poggia su un’articolazione di sei parti creative (Autoritratto? Certo, ma è il mio?; Scuote l’anima mia, eros; Mi manca il mare; Dimmelo per Sms; Presente anteriore; Ancora telestupefatti ) che si integrano nell’unità di un percorso che mette il lettore, attraverso poesie scritte dal 1958 al 2021, di fronte alla piena maturità espressiva raggiunta da Calabrò , nonché alla sua capacità di unire logos pensante e spiritualità, e, altresì, di far approdare sulla pagina la testimonianza completa della sua ricerca poetica ininterrotta e della sua profonda riflessione sulla condizione umana e sul mistero che ci circonda.
La poetica dell’identità e dell’amore
Nella prima parte, dal titolo Autoritratto? Certo, ma è il mio? , la voce del poeta tende a trascendere il piano personale per farsi “parola di un Io collettivo, di un Io-Noi”, e, altresì, voce universale del canto di ogni uomo che si interroga sul mistero e sul senso della propria identità. Calabrò, insomma, attraverso la poesia rivela la verità più profonda di sé, opera un’esplorazione del proprio essere, delle proprie ansie e aspirazioni:
“…Voglio salpare, solo, in piena notte
sentendo lo sciacquio della risacca
e galleggiare in mare con la luna.
Non voglio stare con me stesso a terra.
No, non ancora… altrimenti mi sveglio”…
(Antigravità, 2019), p. 71;
Non m’angoscia la morte, l’ho già vista.
È il non senso della nostra esistenza
nell’universo senza scopo immenso
che smisuratamente mi sgomenta.
(Non senso, 2020), p. 77.
Molto accattivante nella seconda parte del volume la trasfigurazione poetica dell’amore interpretato come convergenza di emozioni, riflessioni e intuizioni che spaziano dalla fisicità alla metafisica, dal personale all’universale; un amore che interroga, che cerca risposte nel mistero dell’esistenza e che non si essenzializza solo nel rapporto tra due persone, ma diventa un principio che connette gli esseri umani all’universo, un’energia che permea ogni cosa.
Corrado Calabrò dipinge un amore che non è solo passione, ma anche riflessione sulla distanza, sul tempo, sull’identità e sul mistero dell’altro, il tutto filtrato attraverso una lente scientifica e un’intensa sensibilità emotiva. Il poeta si domanda “Quanto ti amo?” , domanda delle più antiche e universali in poesia; la sua risposta è sorprendentemente innovativa: “Quanto ti discosti.” Non si tratta di una misura di vicinanza, intensità o durata, ma di distanza, di separazione. E questo distacco non è percepito dal poeta come una mancanza assoluta, ma come un “differenziale di energia”.
L’amore diventa così una sorta di unità di misura quantistica, un “quanto d’amore” che emerge proprio dalla differenza, da un movimento imprevedibile e inspiegabile (“senza un perché”). Il “trasalimento” del poeta si sdoppia in questo paradosso, in un “nuovo sbalzo” emotivo che nasce dalla percezione dell’irraggiungibilità, mentre la descrizione dello sguardo dell’amata, “Verde – opaco, come un mare d’alghe, / il tuo sguardo allungato,” è altamente evocativa: il verde simboleggia speranza e natura, ma l’aggettivo “opaco” e il paragone con un “mare d’alghe” suggeriscono mistero, profondità velata, qualcosa di non completamente trasparente o decifrabile:
“…Quanto ti amo?
Quanto ti discosti.
Questo differenziale di energia
che senza un perché ti fa scartare
è il quanto d’amore in cui si sdoppia
il mio trasalimento, a un nuovo sbalzo.
Verde – opaco, come un mare d’alghe,
il tuo sguardo allungato.
Quanto ti amo?
Quanto sei più giovane.
Sto confinato, stretto di bolina,
nel divieto inespresso di seguirti
come un beccaccino, abilitato
a navigare fino alle tre miglia,
guarda all’alcione nato per sfiorare
l’ignoto scollinare degli oceani…”
(Se non sei tu l’amore, 1984), pp.82-84.
La polisemia poetica del mare
Anche il mare, in Quinta dimensione di Corrado Calabrò, ha una valenza di forte intensità poetica. Il mare è molto più di un elemento naturale, non è un semplice sfondo paesaggistico ma un elemento archetipico e polisemantico , che assume significati profondi e stratificati, spesso legati alla sua biografia e alla sua visione del mondo; è insomma una fonte inesauribile di ispirazione, un luogo di riflessione esistenziale, una metafora dell’inconscio e dell’amore, un simbolo di libertà, di mistero e dell’eterno scorrere del tempo. Il poeta, nato a Reggio Calabria, una città che si affaccia sullo Stretto di Messina, ha vissuto fin dall’infanzia un rapporto viscerale con il mare, ecco perché egli traduce questa origine geografica in un “paesaggio interiore”, e di conseguenza il mare diventa una parte intrinseca della sua anima, un serbatoio di memorie, sensazioni ed emozioni che vibra nella sua versificazione.
Nella poesia di Corrado Calabrò, il mare diventa così la metafora stessa della vita, con la sua immensità, la sua profondità e i suoi misteri; rappresenta la libertà sconfinata, tant’è che la verificazione ( “spegnere nel mare il desiderio / di raggiungere a nuoto la soglia / che segna il limitare a un nuovo giorno”) , suggerisce la tensione del poeta verso l’infinito e la consapevolezza dei limiti umani. Egli paragona il mare a un “sasso nell’acqua”, facendolo assurgere a simbolo dell’inconscio, di quella dimensione sommersa dove risiedono verità e sentimenti profondi; il mare si incunea nei versi come un’ “assenza – presenza”, un richiamo costante, una necessità ( “sorta d’attrazione a finire la mia vita in mare”) a dimostrazione di un legame quasi predestinato e ineludibile.
Il viaggio nell’inconscio
Un vero e proprio viaggio nell’inconscio si presenta la quinta parte volume, “Presente anteriore”, ove è posta la poesia che dà il titolo alla raccolta. Si tratta della poesia Quinta Dimensione, che è avvolta in un’atmosfera onirica e malinconica, quasi surreale, e ruota dentro un paesaggio notturno familiare, ma al contempo trasfigurato; il poeta, infatti, curva i suoi versi sui monti Peloritani con un’immagine suggestiva: “Stelle grosse come tordi, / appollaiate sui Peloritani, / da prendere nel cavo della mano” , descrivendo poi la notte come “nera e trasparente / quasi quanto le notti del Sahara” ed evocando un senso di vastità e profondità.
La poesia viaggia dentro una circolarità di immagini forti ed espressive (“la calce”, “la brace”, “le cellule nervose”, “il fuoco” , “lo specchio”, “la candela”, “la lastra riflettente di cristallo”, “il vuoto di memoria”) che trasfigurano il senso di un amore inseguito ma mai realmente afferrato, l’ingenuità di una ricerca di qualcosa di perduto o irraggiungibile, il ricordo della persona amata percepito come un marchio indelebile che corrode la psiche, il divario tra realtà e percezione, il tempo che scorre e la vita che si affievolisce.
La poesia Quinta dimensione è dunque un viaggio introspettivo, un’esplorazione del dolore e della ricerca amorosa, che si spinge oltre i limiti della realtà percepibile per trovare risposte in una dimensione più profonda e, forse, più vera dell’esistenza; il poeta è consapevole che per accedere a questa “quinta dimensione” è necessario un atto di trascendenza, un varco non convenzionale che superi le barriere della realtà ordinaria, come lascia intendere il finale del testo poetico: “Forse da dentro mi aspetti a quel varco: / recessivi sugli estremi planari dell’inconscio, / come la sorte s’aprono i tuoi occhi.” L’apertura degli occhi, legata al destino, suggerisce una rivelazione profonda e ineluttabile, un incontro non più superficiale ma che tocca le radici dell’essere, dove il confine tra il sé e l’altro si dissolve in una fusione quasi predestinata.
Nell’ultima parte del libro, Ancora telestupefatti, lo sguardo di Corrado Calabrò si posa su Dio “Padre nostro”, al quale chiede “la mela della conoscenza” , su “I lumi del secolo”, il “Canto senegalese a Lampedusa”, i “caduti a Nassirya” , “Il tempo delle rose”, “Il ponte sullo stretto”, “Il filo di Arianna” e altro, portando all’esistenza una versificazione che pone la vita di fronte alla complessità del reale e a domande alle quali la poesia si offre come unica, o forse la più significativa, risposta possibile, aiutando a cogliere l’essenza delle cose, le “massime emozioni umane” e i misteri irrisolti, e creando uno spazio di senso e di consapevolezza per affrontare il viaggio dell’esistenza tra realtà e trascendenza.
C’è ancora spazio, c’è ancora senso per la poesia, oggi?
Molto interessante, infine, la riflessione che chiude il libro. Il poeta si racconta, chiedendosi: “Ma c’è ancora spazio, c’è ancora senso per la poesia, oggi? Viviamo – afferma Calabrò – in un tempo in cui si parla tanto: al telefono, via sms, whatsapp, e-mail. Telefonini, radio, televisione, computer hanno determinato un nuovo rapporto tra noi e il ‘mondo’ (…) Il bisogno della poesia nasce dalla scontentezza della banalità dell’espressione, dell’inadeguatezza della comunicazione. In un’epoca contrassegnata dalla sovrabbondanza di parole, constatiamo l’insufficienza del linguaggio”.
La poesia – scrive Calabrò – “ è un interruttore, un commutatore di banda, che rende visibile sul nostro schermo interiore qualcosa che avevamo sotto gli occhi e che guardavamo senza vedere. Come quando sul teleschermo grigio ballonzola un pullulare di puntini; premendo il tasto giusto, il televisore si sintonizza e un’immagine appare. Un trasalimento dell’anima che sposta un po’ più in là il nostro orizzonte mentale, o così ci piace credere; quand’anche piccolo come quello della formica che s’inerpica su una zolla per ampliare il suo campo visivo”.
Attraverso un colto aggancio a grandi autori come Rainer Maria Rilke, Emily Dickinson, Omero, Dante e Shakespeare, Platone e autori greci e tanti altri, Corrado Calabrò delinea la figura del poeta come colui che “scrive perché non può tacere quello che non sa di dover dire”; come un’anima guidata “dall’istinto nel suo instancabile tentativo di reinvenzione, di rigenerazione della parola”; come una persona dotata di un talento innato, di un’attitudine che, per dare frutti, ha “bisogno di sapiente coltivazione”, e che “deve chiudere gli occhi per ‘vedersi’ dentro senza guardarsi”.
Il poeta Calabrò offre anche riflessioni che si affacciano su aspetti stilistici e linguistici; egli è convinto che in poesia che la metrica è importante, ma non deve scadere in esercizi di versificazione; che occorre una tecnica raffinata ove forma e contenuto devono essere un tutt’uno. “Non si può cogliere – scrive l’autore – il senso di una visione poetica separato dal suo modo d’esprimersi, di significarsi, come non si può cogliere una palla al volo se non al momento dell’impatto e con il movimento dinamico di tutto il corpo, con la giusta torsione del piede (quella e quella sola) che indirizzi la palla in modo appropriato, tale da cambiare la situazione”.
La comunicazione poetica è per Corrado Calabrò intuitiva, non discorsiva, non concettuale, e non può, altresì, essere estranea alla realtà socio-politica del suo tempo, ma deve farsi linguaggio capace di influenzare percezioni, pensieri, comportamenti diventando canale di nuovo umanesimo, di trasformazione e cambiamento.
“La passione civile – scrive Calabrò – può essere una delle motivazioni a poetare; senza una forte motivazione la poesia è esangue, inerte, cerebraloide. Ma nessuna passione – civile, religiosa, amorosa, scientifica – può costituire oggetto di enunciazione diretta in poesia”. La poesia – prosegue l’autore – “non espone, non argomenta, come la prosa. Con una combinazione ‘magica’ di parole la poesia allude, evoca, trasmuta, accosta termini distanti per dare un palpito nuovo, per far cadere la cateratta mentale che ci impedisce di vedere oltre il consueto, oltre il quotidiano”.
Davvero un bel discorso sulla poesia quello di Calabrò, il quale evidenzia come la poesia nasce, come si rivela, come viene a visitarci, nonché la sua funzione di “iniziazione” del lettore al mondo misterioso dell’esistenza e, altresì, la sua funzione salvifica consistente nel “rivelare l’etre”, cioè l’essere e la condizione dell’interiorità umana, sia a livello universale che sul piano personale.
Concludendo, Corrado Calabrò in questa sua solida opera riesce, con i suoi aneliti, con i suoi sospiri, con le sue emozioni ed intuizioni, filtrati con compostezza , a far scorrere nei versi la linfa della sua interiorità, grazie anche al linguaggio di cui fa uso, che si compie gradatamente, a stadi, cambiando d’espressività nella sua evoluzione, e mostrandosi, di volta in volta, ora ampio e infittito, ora discorsivo ora breve e misurato, ora lirico ora controllato e armonico per schiettezza di immagini.
L’orchestrazione metrica e lessicografica dell’opera, nutrita di consistenti profili e di concreta creatività originata dalla vita e dagli impulsi del sentimento, offrono al lettore un lavoro d’arte non indifferente, che trasuda cultura, fine giudizio, intuito capace di afferrare e sceverare la notizia, partirla a strumentazione e renderla urgente nel dinamismo trasfigurativo. L’autore intesse, così, un rapporto definitivo con l’ambiente esistenziale che egli vive in un movimento estetico continuo di segni e di colori e nel quale ogni suo dato di lettura poetica si orbita in posizione illuminante.
Quinta dimensione è, insomma, una silloge che rappresenta sicuramente uno stadio importante e significativo nell’itinerario di sperimentazione e di ricerca di un affermato poeta italiano in cammino sulla strada della maturità poetica. Leggerla, arricchisce umanamente e spiritualmente!