
di Giannino Ruzza
Negli ultimi due anni il Cartello di Sinaloa è entrato nella fase più instabile della sua storia criminale recente, un cambiamento che comincia nel luglio 2024 con l’arresto negli Stati Uniti di Ismael “El Mayo” Zambada, il patriarca invisibile che per decenni aveva garantito equilibrio interno e continuità operativa. La sua caduta apre una frattura profonda tra la vecchia guardia e la generazione dei Los Chapitos, la fazione dei figli di “El Chapo” Guzmán Loera, che nei mesi successivi diventa il motore principale della violenza in Sinaloa e negli stati limitrofi. Il 2025 si apre con un’ondata di sangue: a Culiacán vengono ritrovati venti cadaveri, quattro dei quali decapitati e appesi a un ponte, un messaggio brutale attribuito alle faide interne che ormai si combattono a colpi di esecuzioni pubbliche. A questo scenario già teso si aggiungono le nuove azioni del governo statunitense: il 9 giugno 2025 il Dipartimento del Tesoro sanziona direttamente Iván Archivaldo e Jesús Alfredo Guzmán Salazar per traffico di fentanyl, indicando ufficialmente i Chapitos come uno dei principali motori dell’epidemia di oppioidi negli Stati Uniti. A livello internazionale cresce la pressione legale: il 24 settembre 2025 un atto d’accusa federale definisce per la prima volta il cartello come un gruppo che fornisce “material support” a un’organizzazione terroristica straniera, un salto di definizione che prepara il terreno per operazioni giudiziarie più aggressive contro reti logistiche, fornitori di precursori e intermediari finanziari.
Nel frattempo il territorio si infiamma. L’8 aprile 2025 un centro di riabilitazione per tossicodipendenti a Culiacán viene assaltato: nove morti, cinque feriti, un’azione attribuita dalle autorità ai Chapitos, che avrebbero colpito una cellula vicina alla fazione di El Mayo in una delle tante vendette mirate esplose dopo il suo arresto. A novembre dello stesso anno, sempre nello stato di Sinaloa, un intenso scontro a fuoco porta alla morte di tredici membri del cartello, segno che lo Stato messicano — pur con evidenti limiti — ha ripreso iniziative militari più dirette nei territori tradizionalmente controllati dall’organizzazione. In mezzo a questo caos, Ovidio Guzmán López, estradato negli Stati Uniti nel settembre 2023, rimane una figura simbolica più che un leader operativo, ma la sua immagine continua ad alimentare la propaganda interna della fazione. L’unica voce rimasta della vecchia linea di sangue è Aureliano “El Guano” Guzmán, che dal suo rifugio nella Sierra Madre tenta di mantenere influenza nelle zone rurali, ma il suo peso appare sempre più marginale rispetto alla potenza militare e finanziaria dei fratelli più giovani.
Il risultato è un cartello senza un capo indiscusso, ma non per questo indebolito. La guida reale nelle operazioni più sensibili — traffico di fentanyl, metanfetamine e cocaina — sembra ormai concentrarsi nelle mani di Iván Archivaldo Guzmán, con Jesús Alfredo a gestire alleanze e logistica. La guerra interna, però, non è un dettaglio: modifica le rotte, accende nuove violenze e attrae sulla regione un’attenzione internazionale senza precedenti. E mentre le autorità statunitensi colpiscono con sanzioni, maxi-processi e sequestri, e quelle messicane tentano faticosamente di contenere la spirale armata, Sinaloa mostra ancora una volta la sua caratteristica storica: sopravvivere ai suoi leader, mutare forma, rigenerarsi, e continuare a dominare il narcotraffico nonostante — o forse proprio grazie a — il caos che produce.













