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Libro. Silvio Cucinotta e Alessio Di Giovanni…di Domenico Pisana

Due intellettuali del Primo Novecento, protagonisti del libro “Corrispondenza”, 1903 – 1928, a cura di Rosalba Anzalone e Franco Biviano
Tempo di lettura: 2 minuti

L’epistolario è sempre un genere letterario che rivela sorprese e che mette a contatto con la personalità di intellettuali liberi da condizionamenti e filtri mentali. La prima impressione che si ricava dal libro “Corrispondenza”, 1903 – 1928, (carteggio tra Silvio Cucinotta e Alessio Di Giovanni, pubblicato dalla Provincia Regionale di Agrigento e curato da Rosalba Anzalone e Franco Biviano), potrebbe indurre a considerare la corrispondenza tra Cucinotta e Di Giovanni un semplice vettore privato di due intellettuali che hanno trovato nella corrispondenza lo sfogo silenzioso di affetti e sentimenti e la terapia per una sofferenza interiore macerata dal tempo. Ma così non è, come ora vedremo.
Silvio Cucinotta e Alessio Di Giovanni sono due personalità importanti della cultura siciliana del Primo Novecento. Cucinotta nasce il 13 marzo 1873 a Pace del Mela (ME), viene ordinato sacerdote nel 1895 , si laurea in Lettere , in Sacra Teologia e viene chiamato a insegnare nel Seminario Arcivescovile di Messina e a dirigere il settimanale “Il Faro”, organo della Curia Messinese. Fonda anche la Rivista letteraria “L’Agave”, sulla quale scrivono molte firme gloriose di quel periodo. Pubblica anche alcune raccolte di poesie e alcuni scritti che caratterizzano ulteriormente la sua personalità e che lo fanno risultare un “innovatore troppo ardito” proteso a condurre “battaglie per l’elevazione morale ed economica delle classi umili” , a stare vicino ai zolfatari, ai “paria” della terra, al punto da provocargli dolorosi momenti di sconforto e ad essere costretto, dopo un periodo molto travagliato e di scontri, a peregrinare di paese in paese, di convento in convento, di chiesa in chiesa. Alla fine si rifugia nella casa del suo paese di origine dove muore nel 1928.
Alessio Di Giovanni, nato a Cianciana, in provincia di Agrigento, l’11 ottobre 1872, è un poeta e narratore dialettale, ma anche critico e drammaturgo, storico e demologo collaboratore del Pitré, con un percorso ricco di pubblicazioni: 14 racconti, 3 poemi, 3 libri di poesie, 3 romanzi, 13 opere di saggistica e 4 opere teatrali. Muore a Palermo il 6 dicembre 1946.
Ad un approccio attento del volume Corrispondenza 1903-1928, emerge che il carteggio portato alla luce da Rosalba Anzalone e Franco Biviano è sicuramente un documento che offre alla letteratura, quella siciliana in particolare, le coordinate di un momento storico, politico, culturale e religioso nel quale si avvertiva il bisogno di ricerca di una identità.
I soggetti al centro di questa “corrispondenza” sono, senza dubbio, due personaggi che hanno dalla loro parte la consapevolezza di essere uomini pensanti, liberi, non asserviti a giuochi ideologici, mossi dalla necessità di far riflettere la “cultura del loro tempo”. E in questa prospettiva il lavoro dei due curatori ha il merito di offrire un percorso nel quale si trovano disegnate le connotazioni di due anime accomunate dagli stessi sentimenti e dalle medesime tensioni ideali.
La prima domanda che sorge spontanea, leggendo la corrispondenza, è la seguente: che cosa hanno in comune Cucinotta e Di Giovanni?
Dai testi delle lettere emerge con chiarezza che i due hanno in comune l’amore per la cultura, la giustizia e la verità; la passione per l’innovazione, il cambiamento, il riscatto della loro terra; la persecuzione e il bisogno di difendere “il loro bastone di dignità”; la fede in Dio, testimone silenzioso delle loro sofferenze, dei dolori e delle macerazioni interiori.
Il corpus del carteggio si snoda su quattro orizzonti fondamentali: psico-affettivo, socio-culturale, teologico e letterario.

L’orizzonte psico-affettivo

Sfogliando il volume, colpisce, ad esempio, la sensibilità d’animo sia di Cucinotta che di Di Giovanni, che traluce come costante da alcuni passaggi di lettere scritte tra il 1904 e il 1910.

a.Lettere di Silvio Cucinotta ad Alessio Di Giovanni

Ecco, qui di seguito, alcune citazioni delle lettere presenti in Corrispondenza, che rivelano lo stato d’animo di Silvio Cucinotta nel mentre scrive ad Alessio Di Giovanni:

“…Le barriere che mi dividono dalla vita…” “…Povero amico mio che soffri l’ingiustizia degli uomini…” (22 agosto 1904);

“…Mi pare che ambedue siamo nati per soffrire…nelle nostre lettere non riusciamo ad altro che a manifestare le nostre pene (…) …una congiura sempre più fosca mi circonda, una congiura settaria che mi preclude l’adito ad altre diocesi” (4 settembre 1904);

“…La congiura fosca ha disteso bene, da per tutto, i suoi tentacoli…” (12 settembre 2004);

”… Ho molti nemici… (21 ottobre 1904);

“…La malvagità degli uomini ci rende, malgrado noi, scettici…” (22 ottobre 1904);

“… Ho avuto, poi, tanta noia addosso, che mi è mancata ogni volontà di scrivere. Che vuoi! Qui mi sento ‘luntanu’, assai luntanu di stu munnu. Mi chiudo sempre in una sterile rievocazione del passato, in una contemplazione egoistica della natura…” (31 maggio 1905);

“…Che avrai potuto pensare, tu, soave fratello, del mio lungo silenzio? Non ho mai animo di scrivere tra l’inerzia angosciosa che mi opprime…” (29 novembre 1905).

b. Lettere di Alessio Di Giovanni a Silvio Cucinotta

Anche dalle citazioni di lettere riportate dai curatori del volume, emergono particolari situazioni interiori e confessioni di Alessio Di Giovanni verso l’amico sacerdote:

Accoglimi fra le tue braccia e lascia che io sfoghi fraternamente teco il dolore del mio animo, così dolorosamente triste, questa sera!” (4 maggio 1905);

“…M’è toccato aver da fare, per tre mesi continui, con gente vile, interessata, crudele. M’è toccato vederne di tutti i colori. Pazienza…” (20 ottobre 1905);

“…No, non sono sdegnato con te: sono soltanto addoloratissimo da questo stato d’invincibile inerzia in cui ti sei buttato a capo fitto, con grave danno del tuo bell’ingegno e del tuo animo buono. Comprendo, anzi nessuno meglio di me può comprendere quello che hai sofferto e che soffri, ma, Dio buono, chi non ha sofferto a questo mondo, chi non ha avuto delle traversie? Ora se tutti facessero come te, se ognuno stesse in perpetua adorazione del passato, cosa ne sarebbe della vita? Coraggio e avanti! Scuotiti, muoviti, fatti vivo! Verrà un po’ di sole anche per te. Uscirai da cotesta solitudine che ti opprime…” (8 dicembre 1907);

“…Quanto ho pianto in queste sere, solo, nella mia cameretta (da un pezzo non piangevo, così!…)pensando a te e al Chinigo, principalmente , e poi a tanti buoni, cari indimenticabili amici di Messina…” ( 4 gennaio 1909);

“… A vivere in mezzo a gente infida, gretta, invidiosa, in mezzo a continue lotte sleali, l’animo s’inasprisce e non ci si riconosce più. Qui faccio una vita da romito, in contatto immediato con la natura buona, grande ed infinita, che mi parla di Dio e dà ali al mio spirito…” (23 0ttobre 1910).

Queste citazioni, che naturalmente potrebbero continuare, sono sufficienti a delineare il primo orizzonte di questa corrispondenza: quello psico-affettivo.
I due amici, legati anche da vincoli di comparatico, risentono di una componente affettiva travagliata, sofferta, logorata da eventi che insistono sul cammino esistenziale di ognuno. Se Cucinotta trova nell’affetto dell’amico il conforto per superare la congiura di quanti si sono adoperati per farlo espellere dal Seminario della diocesi di Messina a causa delle idee di modernismo professate, nonché di ostacolare la sua attività di insegnamento e di conferenziere, Alessio Di Giovanni trova in Cucinotta il suo rifugio, anche per le sue difficoltà economiche:

“…. Per questo ricorro a te come ad un fratello, anzi meglio che ad un fratello, perché mi voglia fare l’eccezionale favore di prestarmi fino al quindici dicembre, e con gentile sollecitudine, Lire 30. Caro Silvio, tu che mi conosci, sai bene che io non ti seccherei se non si trattasse di cosa che molto mi preme…” (13 novembre 1904).

Le parole contenute in questi stralci di lettere esprimono amarezza, delusione, rammarico, uno stato psicologico lacerato al vedere attorno a sé “nemici”, “la malvagità e ingiustizia degli uomini”, “gente vile, interessata, crudele”, “gente infida, gretta, invidiosa”, “lotte sleali”.
C’è qui tutta l’ humanitas di Cucinotta e Di Giovanni, la cui sensibilità umana è tale che li prostra, li fa soffrire; non si tratta di una forma di vittimismo, ma di una espressione di dolore che non appare segnato, tuttavia, né da astio, livore e veleni verso gli altri. La viltà, la malvagità, l’invidia, la grettezza posti in essere nell’ethos della gente non appaiono come “sentenze di condanna” o come “giudizi moralistici” del prossimo, ma come la constatazione di quanto sia difficile la vita di relazione, il rapporto con gli altri, specie quando entrano in campo qualità intellettuali che non sono possesso di tutti. Di Giovanni e Cucinotta vivono il dramma di coloro che sanno di essere ostacolati quando la propria arte, cultura, passione, capacità di leggere la propria storia e il proprio tempo suscitano in alcuni ammirazione, ma in altri persecuzione.
In questa contesto psico-affettivo del carteggio, entrambi vivono un rapporto leale e vero: si elogiano e si contestano, si approvano e si disapprovano, restano in silenzio e poi si riavvicinano, si sdegnano e si riappacificano; il rapporto rivela insomma il vero senso dell’amicizia che sa dire quello che si pensa senza infingimenti e inganni.

L’orizzonte socio-culturale della corrispondenza

Il carteggio ci offre ancora uno spaccato delle problematiche socio-culturali di fine ‘800 e inizi del ‘900. Dalle lettere emergono tematiche al centro dell’interesse del tempo: la questione sociale; il disagio dei contadini e degli zolfatari; i fasci dei lavoratori; le affittanze collettive; il murrismo; il modernismo cattolico in Italia; il liberalismo marxista; il cooperativismo cattolico.
E’ certo che la mano dei curatori di questo volume risulta molto preziosa per capire l’intersecarsi di queste tematiche nel succedersi della corrispondenza. Le note esplicative sono infatti un vettore di indirizzo fondamentale per la comprensione di ciò che stava accadendo nella vita dei due scrittori e nel periodo storico, politico, culturale e religioso in cui operano; senza questi approfondimenti critici della Anzalone e di Biviano, l’epistolario avrebbe potuto rischiare di ridursi ad una cronaca di sapore diaristico, ad un circuito comunicazionale privato tra due figure che si scambiano informazioni, sentimenti, affetti, umori e tremori che attraversano la loro esistenza con periodicità e continuità.
Chiaramente questo spaccato storico e socio-culturale risulta appena evidenziato, ma è significativo ai fini di una comprensione dei due personaggi della corrispondenza. L’adesione di Cucinotta al modernismo italiano non sembra apparire dettata dal bisogno di ricerca del nuovo, né da smanie di protagonismo nella Chiesa o di dissenso verso il Magistero ecclesiastico. Le parole sofferte che egli scrive all’amico Di Giovanni, i suoi toni riflessivi e pacati evidenziano come ci fosse in lui una “passione civile ed etica”, la necessità di testimoniare un cristianesimo che non fosse solo insieme di principi e norme religiose, ma che si caratterizzasse per la sua forza pratica nella storia e per la coerenza intima con i principi e i valori professati e annunciati. In fondo quel che caratterizzava il Programma modernista italiano, rispetto ad altre forme di modernismo europeo, e che Silvio Cucinotta condivideva, era la assillante ed apertamente confessata preoccupazione di innestare i nuovi indirizzi della religiosità sul tronco delle aspettative e delle esperienze sociali. (1)
L’adesione di Cucinotta al modernismo ebbe la sua stroncatura in occasione di una conferenza da lui tenuta, alla presenza di Mons. Mario Sturzo, sullo scrittore Antonio Fogazzaro (1842-1911) che con i suoi molti romanzi, in particolare Il santo del 1905, aveva suscitato una vasta attenzione per la visione critica della liturgia che esprimeva. Non a caso il romanzo venne posto all’Indice. L’anno successivo Cucinotta tiene una erudita presentazione sulla “Psicologia del Santo di Antonio Fogazzaro” evidenziando l’esercizio eroico delle virtù di Benedetto, il santo protagonista del romanzo, e concludendo con l’episodio della morte di Benedetto che bacia il Crocifisso e della conversione di Geanne che pronunzia il suo “Credo”.
Se per Cucinotta il protagonista Benedetto appare come il santo del XX secolo, per il settimanale palermitano “Letture domenicali”, già organo ufficiale dell’Opera dei Congressi in Sicilia, “Benedetto”, al contrario, viene definito un eretico o per lo meno un impostore o l’uno o l’altro insieme.
Il settimanale, in pratica, sferza un forte attacco a Silvio Cucinotta, che viene annoverato, insieme a Romolo Murri che si trovava alla testa dei fogazzariani, tra coloro che fanno “l’occhio di triglia al mistico romanzo”. Cucinotta percepisce tale attacco come un colpo di grazia che lo induce a rinunciare alla conferenza che doveva tenere a Palermo sullo stesso argomento e a lasciare il seminario di Piazza Armerina per ritirarsi in solitudine nel “romitorio” di Pace del Mela abbandonando il suo anelito per le battaglie sociali.
Una domanda appare d’obbligo a questo punto: la visione modernista di Silvio Cucinotta era dello stesso tenore di Murri? Certo, dalla “corrispondenza” non si può evincere una risposta, tuttavia la sofferenza, il rammarico, il dolore, la macerazione interiore e silenziosa che traspaiono dalle parole che Cucinotta confida a Di Giovanni nonché l’ubbidienza alla gerarchia, lasciano pensare che il modernismo di Cucinotta si muovesse su binari composti e pacati, su un dinamica di sensibilità sociale autentica e non politicamente ideologizzata. L’apertura alla cultura moderna e alle istanze della società nasceva in lui da una condivisione della sofferenza dei più poveri e dalla necessità di dare al cristianesimo il suo vero respiro sociale.
Sarebbero necessarie ulteriori ricerche per capire se Cucinotta fosse sulle stesse posizioni radicali avanzate di Romolo Murri, il quale riteneva che i cattolici dovessero scendere in campo, confrontarsi con le altre correnti politiche ed ideali, vivere la democrazia e mettersi in concorrenza con le forze socialiste. Sarebbe interessante altresì scoprire se Cucinotta fosse in quel momento veramente un simpatizzante della tesi di Murri, definita “guelfismo sociale”, che non si sottraeva facilmente al sospetto di integralismo. (2)
Romolo Murri, in sostanza, pensava che la Chiesa dovesse assumere un ruolo di guida delle masse contro le conseguenze del liberismo esasperato e contro la concezione laica e liberale dello Stato risorgimentale. Ciò all’interno di una cornice futura in cui Stato e Chiesa non fossero contrapposti, ma “conciliati” in via istituzionale. Il motto murriano, “libertà noi chiediamo anche nel cristianesimo: e il cristianesimo cerchiamo nella libertà”, era certo presente nelle riflessioni di Cucinotta; più avanti le idee sociali e politiche di Murri furono riprese da un altro sacerdote, don Luigi Sturzo, il fondatore del partito popolare nel 1919, che aprì la strada verso l’ingresso dei cattolici in politica, determinando le condizioni della dottrina sociale della Chiesa presente nell’’enciclica Rerum Novarum del 1891, fortemente voluta dal Pontefice Leone XIII.
In questo quadro identitario nel quale vive Cucinotta, le sue lettere a Di Giovanni hanno quasi un “sapore distraente”, nel senso che costringono il sacerdote ad allontanare la mente dalle sue vicende personali ecclesiastiche e a leggere le opere dell’amico, a farne recensioni e commenti sui giornali. Spesso Cucinotta chiede scusa a Di Giovanni per il ritardo con cui risponde, ma la tenacia del poeta di Cianciana che lo incalza in modo ossessivo, lo costringe a prendere la penna e a scrivere.
Anche le lettere di Alessio Di Giovanni a Cucinotta consentono di capire come al centro della sua opera letteraria vi fossero delle tematiche sociali. La lettera a Silvio Cucinotta del 22 ottobre 1904 evidenzia, ad esempio, come la rivista di letteratura dialettale di Milano definisca Di Giovanni, in un articolo di Boffi, “poeta della zolfatara”. Dietro questa definizione c’è in fondo la rappresentazione realistica e dolorosa delle miniere di zolfo agrigentine e delle condizioni di vita delle persone; c’è lo spaccato di una realtà sociale attraversata dalla miseria e dal dolore, ove i versi del poeta di Cianciana risuonano come “vox clamantis in deserto”. La voce poetica di Alessio Di Giovanni, come si evince dalla corrispondenza con il sacerdote Cucinotta, ben illustrata da Rosalba Anzalone e Franco Biviano e documentata con riferimenti a riviste, giornali, periodici, quindicinali e mensili, viaggia per tutta l’Italia cantando amori e passioni, sofferenze e dolori, miserie e povertà di contadini, zolfatari, uomini e donne.
Quello del poeta di Cianciana appare il canto della socialità, della testimonianza, dell’amore per la propria terra, il canto che varca i confini paesistici per diventare dichiarazione di poetica e rappresentazione di un processo culturale che riscuote l’interesse anche del Verga, con il quale Di Giovanni entra pure in polemica a proposito dell’uso del dialetto. Nel volume Corrispondenza 1903 – 1928 c’è una gamma di riferimenti che portano alla luce la vasta produzione letteraria ed artistica di Alessio Di Giovanni, che appare una figura versatile, eclettica, capace di scrivere di poesia, di critica letteraria, di teatro; un poeta della natura, del feudo, del popolo, degli uomini, del Cristo, del povero, della madre, così come si evince dalla lettera del 13 aprile 1909, ove Cucinotta riferisce della conferenza tenuta a Ribera sulla poesia di Di Giovanni: “La conferenza è piaciuta: applauditi tutti i brani delle tue poesie. Ho dovuto sintetizzare per non abusare della pazienza degli uditori non abituati a sentir conferenze. È durata un’ora e mezza: ascoltata con piacere, trattata sotto tutti i punti:
poeta della natura, del feudo, del popolo, degli umili, del Cristo, del Puvireddu, della madre.”
Dal volume si apprende che Di Giovanni allargava anche i confini della sua attività letteraria in Francia, ove era in contatto con Frédéric Mistral, 1830-1914, premio Nobel 1904, fondatore, insieme a Roumanille e altri, del Felibrismo, movimento impegnato ad impedire l’estinzione del provenzale e delle parlate occitane e a far sorgere, sulle ceneri della cultura della Provenza, una nuova letteratura, ispirata alla poesia popolare e alla lirica trovadorica. Di questo movimento si occupa il “Corriere della Sicilia” di Palermo, che pubblica diversi articoli dei padri fondatori del felibrismo e che annuncia come Di Giovanni, su proposta del Mistral nella seduta concistoriale tenutasi a Montpellier il 4 giugno 1911, fosse stato “eletto, all’unanimità, e tra grande entusiasmo, socio del Felibrige”.

L’orizzonte teologico della corrispondenza

Dal volume si evince come Cucinotta e Di Giovanni fossero uomini di fede e come la fede fosse per loro un riferimento ideale e valoriale che accompagnava il loro cammino. Ma quale fede risulta presente nel carteggio dei due scrittori? Riteniamo che nell’epistolario sia presente la testimonianza di un vissuto nel quale la fede non appare una verniciatura, una devozione, un rifugio, un atteggiamento sentimentalistico, ma il fondamento di una esistenza che trova in essa la risposta a tante domande di senso. Il carteggio ci offre un vissuto di fede caratterizzato da due atteggiamenti fondamentali:
un atteggiamento orante: più volte nelle sue lettere Cucinotta afferma di chiedere nella preghiera forza al Signore: “prego per te il Signore e per la tua famigliola affinché, povero naufrago, tocchi la sponda… (22 agosto 1904); …. Che fare? Prego e spero…O Gesù, aiutatemi! (4 settembre 1904); “…E prego il Cielo ogni giorno che allontani la catastrofe, e che ti dia forza, mio buono Alessio. Preghiamo insieme: l’è una grande consolazione la preghiera: e ci resta questa solo consolazione. Io divido tutte le tue ansie, tutto il tuo dolore. Coraggio, amico… (31 maggio 1905);
un atteggiamento di fede aperta alla storia e ai segni dei tempi: Cucinotta e Di Giovanni riportano nei loro scritti le ansie dei poveri e degli umili, avvertono che la fede non può essere una alienazione dalla vita, ma l’annuncio di una liberazione, e nelle lettere del libro di Anzalone e Biviano questo atteggiamento si percepisce con estrema chiarezza.
Se Cucinotta proietta la sua fede nel sociale con le sue battaglie nel quadro dell’affermarsi della modernità, Di Giovanni, per esempio, con la sua Ode Cristu attira l’attenzione di critici, studiosi e docenti universitari, i quali tessono lodi dell’opera che ha una visione teologica nella quale Cristo viene proposto come colui che deve essere incarnato nella storia, non deve rimanere chiuso nelle chiese o appeso alla croce ma deve camminare nel mondo accanto alla dolente voce dei contadini, ai reietti della zolfara, in cui personaggi di un nuovo inferno dantesco sono dannati da vivi e attendono di essere liberati: una “carnaia, no di morti ma di vivi, un “caracaruni” che di notte, “fuma scunsulatu”, mentre “supra la montagna”/s’allarga scuru lu celu stiddatu, /si fa cchiù visitusa la campagna”.
La fede è l’orizzonte entro il quale i due “amici” trovano la forza per andare avanti, per superare le angosce e le sofferenze e per incoraggiarsi; è il filo che unisce entrambi i letterati a personaggi vari: sacerdoti, vescovi, frati francescani, laici del Terzo ordine, con i quali intessono rapporti e ai quali fanno conoscere le loro pubblicazioni.

L’orizzonte letterario della corrispondenza

Il carteggio ha infine una connotazione letteraria: in vari passaggi si nota chiaramente che nella corrispondenza si incontrano le note di due poeti di grande sensibilità umana e con grandi capacità trasfigurative. Nella lettera di Cucinotta a Di Giovanni del 2 novembre 1904, ad esempio, c’è una partitura ricca di soavità lirica e di capacità diegetica ed estetica che trasforma il testo della lettera in un bozzetto lirico di grande efficacia:

“Qui si sente la montagna coi freddi intensi. Colline silenziosissime: viali splendidi, fronteggiati di pini, pioppi, querce …Da la mia finestra vedo uno sfondo poetico di colline e gruppi di cipressi e…una noce…”

Questa capacità lirico-trasfigurativa non passa inosservata a Di Giovanni, che, nella sua missiva del 13 novembre del 1904, risponde: “Ho visto nelle tue pittrici parole il paesaggio montano di Piazza Armerina e la poetica quiete della tua stanza con quello sfondo incantevole della finestra, di colline, gruppi di cipressi…una noce…”
Cucinotta e Di Giovanni non scrivono solo per vivere, ma perché credono nell’arte, nella poesia come strumenti per “animare” la storia del loro tempo; è condivisibile quanto affermano i curatori dell’opera, e cioè che “L’arte diviene strumento salvifico, sia in senso materiale che in senso spirituale”.
Corrispondenza 1903-1928, curato da Anzalone e Biviano, costituisce dunque un “patrimonio valoriale” per la cultura del nostro tempo. Riportando alla luce questo carteggio, i due curatori hanno consentito di accostarci ad una scrittura epistolare dallo stile originale e necessitata da una forte esigenza di comunicazione: ai due letterati non interessa tanto la teoresi, il pensiero astratto ed asettico, quanto invece la sua applicazione nell’esperienza quotidiana. Per Cucinotta e Di Giovanni la cronaca, la memoria, la storia, la letteratura, la poesia , la politica, la fede si fanno vita, ed è per questo che fanno ricorso a strumenti linguistici idonei a comunicare con immediatezza ed efficacia, e ad un linguaggio non cavilloso ma semplice, convincente, lineare ed aperto poiché finalizzato non alla periodizzazione estetica ma a parlare all’anima e al cuore.
Anche la sintassi delle lettere ha un andamento rapido, vivace, vario, mai monotono ed uniforme; il tono è quasi sempre “esistenziale” e relazionato al valore dell’interiorità; lo stile colloquiale e caratterizzato da espressioni che danno l’idea di una conversazione pacata, bonaria ed amichevole.
Corrispondenza 1903 – 1928 è un volume che “sa di uomo”, di storia, di memoria, di affetti, di sofferenze, di gioie e di dolori vissuti in prima persona dai due protagonisti; l’epistolario ci offre la rappresentazione realistica del vivere quotidiano di due amici a livello territoriale, nazionale ed europeo , osservato con uno sguardo vigile, schietto e disincantato e, nel contempo, partecipe.
Nelle lettere, nonostante i problemi che Cucinotta e Di Giovanni evidenziano, non c’è livore, disprezzo, ma serenità e pacatezza interiore. I due intellettuali protagonisti del carteggio offrono la preziosa testimonianza del loro cuore, che a distanza di anni è venuta alla luce grazie a questo bel lavoro di Rosalba Anzalone e Franco Biviano, la cui pazienza e ricerca certosina meritano tutto l’apprezzamento possibile e il riconoscimento della cultura regionale siciliana.

_________________
(1) Cfr. Ernesto Buonaiuti – Storia del cristianesimo – Newton & Compton 2002.
(2) Cfr. Ibid.

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