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IN PUNTA DI LIBRO……di Domenico Pisana. La “poesia visiva e degli istanti” di Cecilia Minisci nell’ultima raccolta “Dalla tempesta al cielo”

Una poesia meditata e dai toni interiori misurati e ricchi di introspezione appare la raccolta di Cecilia Minisci, “Dalla tempesta al cielo”, Gnasso Editore 2018.
E’ una silloge che, con Oscar Wilde, sembra dirci: “ Ogni istante della nostra vita siamo ciò che saremo, non meno di ciò che siamo stati” e che con Eraclito sembra invitarci ad affermare: “Io stesso muto nell’istante in cui dico che le cose mutano”.
La poesia dell’autrice, di origini calabresi ma residente in Emilia Romagna, si muove all’interno di istanti di vita colti nella loro essenzialità e mutazione, nonché di coordinate metafisiche che fanno di questa raccolta un libro inabissato dentro le fibre dell’anima, ove la poetessa riesce a dare una visione dell’universo, i segreti del cuore all’interno di un divenire di cose, di oggetti, di relazioni e di afflati di sentimento che si fanno ascolto degli attimi quotidiani mediante il logos che si fa giudizio e scavo nell’esistenza umana.
Ciò che piace della poetessa Minisci è, anzitutto, la sua capacità di ascoltare, atteggiamento molto difficile in un tempo come quello attuale dove si tende invece a urlare e a prevaricare; ed è un ascolto che si fa silenzio e che riesce a vibrare, anzitutto, nel rapporto con la natura e il creato: “E’ quel silenzio cauto della notte / quando l’oscurità puntuale scende / che sente i tanti suoni inascoltati / se frenetico il giorno li nasconde…”; ed è, ancora, un ascolto che sa intercettare il solfeggio “di cinguettii d’uccelli”, “le lucciole che adornano la terra”, l’applauso di “foglie dell’antico pioppo” che donano al cuore della poetessa l’ebrezza dell’anima che riesce a raccontare la sua “storia di felicità e di passioni,/… di dubbi e di certezze, / di lacrime e sorrisi…”.
In questa raccolta direi che si trova essenzializzata una “poetica dello sguardo”, se è vero che gli occhi della poetessa sanno entrare nelle pieghe del mondo e della natura per coglierne il respiro più ineffabile e profondo, così da farle cantare: “Oh, Cielo, Montagne, Universo: casa mia!” Una casa che la poetessa vorrebbe ritrovare all’interno di un ricongiungimento tra passato e presente, tra fanciullezza e maturità, atteso che in questo nostro tempo il mondo non le appare più la culla in cui potersi ritrovare, ma una giungla di incomunicabilità, di nefandezze e violenze, di un montaliano “male di vivere” di cui vuole liberarsi: “Liberate il mio cuore / dalla rabbia e dal dolore / per tutte le violenze / di cui sono spettatore!”.
Questa ansia di liberazione accompagna, dunque, il cammino esistenziale dell’autrice, che attende il ritorno, anche simbolicamente inteso, della primavera capace di far tornare quel sorriso in grado di “deliziare il cuore” , di raggomitolare nella memoria “il canto / di quella ricca e intensa giovinezza”, nonché di farle assaporare la quiete della notte quando essa “svela quel vivo pensiero, / e quando la notte “agita alberi” , “raccoglie i dolori” e “spinge lontano le foglie ormai morte”.
E’ quasi un’ermeneutica della vita osservata con gli occhi dell’anima la versificazione della Minisci, la quale sa scavare, con un timbro lirico giocato su aspetti naturalistici, dentro la realtà delle cose, degli oggetti e delle persone, rivolgendosi costantemente ad un “Tu” ricco di fascino e di mistero, che non cede all’intimismo solipsistico, ma che anzi mette i suoi versi in una empatica prospettiva dialogica:
“Vieni a cercarmi”; “Vieni a regalarmi”; “Ti racconterò un mare di storia”; “ io sentirò il tuo freddo”; “..io ti scalderò”; “…e continuo a camminare per te…”; “Ti ho ritrovato , luogo natio…” ; “…Ora tu corri con le nuvole nel cielo…”; “lascerò in fondo a te la mia presenza…”; “…A te che agli occhi miei infinito appari / affido ogni pensiero come a Dio…”; “…A guardarti sei tornato piccino…”; “…E poi sarebbe bello rivedere / quegli occhi tuoi a illuminare il buio…”.
In questa intensa dimensione dialogica della raccolta si apre poi l’orizzonte di una rappresentazione della realtà nelle sue forme più problematiche. Nella lirica “Nemico il cielo”, ad esempio, la poetessa non vede più “voli di uccelli e di aquiloni”, lamentando la rottura dell’equilibrio tra uomo e natura, per cui l’essenza della vita perde significato e perfino il gioco dei bambini viene violato producendo “rabbia ed agonia” , mentre nella lirica “Autunno” il verso si snoda in cadenze ritmiche ove la parola si mutua con i “colori intensi e sfumati degli alberi “maturi e sazi di sole” e il cuore dell’autrice rincorre la quiete e il tempo della memoria:

…E come gli alberi,
invitando le loro foglie a cadere
e proteggendosi bevono acqua,
fonte di vita,
io cerco di preservare il mio cuore
lasciando sfumare il dolore
e immaginando di fermare il tempo
che mi sfugge…
e diventa sempre più breve.

E’ il tempo della memoria nel quale Cecilia Minisci si rifugia assaporando il mito della fanciullezza quando “sogni innocenti /si spalmavano correndo veloci / su una strada infinita…/ nell’atmosfera celeste”; è il tempo nel quale la poetessa “cattura ogni esistenza , / sia essa del passato e del presente…”; è il tempo del ricordo dove il cuore avvolge i filmati della mente con una voce interiore di ritorno: “…Uno sguardo fugace / a quel ‘mondo’ lontano / dove tanta vita è passata e dove il ‘cuore’ mi porta a pensare…”
Ma gli occhi della Minisci volgono lo sguardo anche nel tempo presente, osservato con sofferenza e dolore, e disegnato nel suo fluire di morte. In “Figlia di quale tempo”, la poetessa lancia il suo grido di dolore per stigmatizzare questo nostro tempo ove “ i forti sopprimono i deboli”, questo “tempo di guerra fra gli uomini”, e per elevare al cielo , come nella lirica “Il dolore degli ultimi…Innocenti”, il pianto di coloro che vengono lasciati al loro destino: “ Grida di aiuto di anime innocenti / arrivano a turbare la mia quiete, / nel labirinto chissà da quando vaghi, / cercando invano un piccolo riparo!”.
La poesia di Cecilia Minisci offre al lettore anche quadretti impressionistici con suoni, colori e atmosfere che dipingono un paesaggio in movimento, come nel caso della poesia “Inno al mare”, dove il fascino delle acque, distese e profonde, che l’autrice ammira come in un incanto di mistero e nelle quali essa inabissa il suo sguardo, si fa approdo di quiete e dei pensieri ( “…A te che agli occhi miei infinito appari / affido ogni pensiero come a Dio…”) nascosti nella profondità della sua anima, proprio come al mare sono nascosti i suoi profondi abissi; le acque, allora, disegnano uno spettacolo di serenità e di luce, sono la voce a cui portare “quel puntual saluto” e a cui consegnare le orecchie del cuore mentre su di esse si stende il canto dei gabbiani in volo.
Lo stesso quadro affettivo si trova stagliato nella lirica “Abbraccio”, dove la poetessa si unisce “all’azzurro del cielo” viaggiando con gli occhi sulle onde del mare…per attendere il soffio del vento che viene “a pettinare le piume / di gabbiani in partenza” ai quali affidare un abbraccio da portare lontano a chi lo sente e lo attende, quando “con forte gracchiare salutano terra, iniziano il viaggio”. Il mare sembra essere una costante nell’itinerario poetico di Cecilia Minisci, se è vero che ritorna ad essere oggetto delle sue ispirazioni e che anche i suoi sguardi avvolgono il mare, tra il freddo di gennaio, in un dialogo amico, ricco di sensazioni ed emozioni:

Son ritornata a te, amico mare
In questo giorno freddo di gennaio (…)
Qui ora ti rivedo in tutto il tempo
che ha scritto i miei capitoli di vita,
pensando ad un amor che fosse eterno
davanti al tuo crepuscolo di mare…
(Davanti a un mare di gennaio)

E’ davvero un magma naturalistico e simbolico quello che riverbera dentro questi versi della Minisci, la quale affida il suo canto a suggestioni mitologico-religiose (si notino i richiami a Eolo, Giove, Nettuno, Afrodite) per rappresentare il naufragio degli uomini e il bisogno di ritrovare la bussola (“Siamo naufragati in un tormentato mare / nel cerchio di onde dentro alla tempesta…”) capace di dare “Una spinta di forza”, / un’esplosione di gioia con sguardo rivolto / al tempo che resta, invisibile parte / sconosciuta di eterno…”. E sono, questi, sentimenti di ripresa che trovano anche una oggettivazione nella poesia “Riflessioni all’alba di mezza estate”, molto bella nella sua geometria di immagini, metafore, simbolismi e figure (“l’odore di pioggia”, “Silenzio di voci”, gorgheggi d’uccelli”, “ verso di gazze rauche e spavalde”, “il lamento di un cane”, “il distinto canto di un gallo”, “le montagne assopite”..), e altresì carica di domande alle quali la mente dell’autrice cerca di dare una risposta che però l’umana ragione non trova: “…Traballante è la mente che vuole trovare / equilibrio di pace fra la gioia e il dolore, / e fra il senso che lega la vita alla morte”.
C’è in questa raccolta di Cecilia Minisci una tenue atmosfera di crepuscolarismo che si oggettiva in toni di languore (“A me che sono ‘l’ultima’ incompresa”) , in scorci di lacrime (“…Nulla, che ci porti un sorriso, ora, / un pensiero leggero, un ricordo di ieri…”), in intensi colloqui, spesso tristi e sommessi, con la sua anima (“Quando sarà, voglio morir d’estate / così da non sentire troppo freddo / quando il mio corpo perderà calore / e dalla terra poi verrà coperto…”), tutti elementi che danno alla versificazione un andamento colloquiale.
La poesia della Minisci scorre spesso lungo i sentieri di una “sentenziosità amara” (si legga, ad esempio, la poesia “Un novembre di Fossoli”), aperta, tuttavia, alla speranza; gli andamenti prosodici della sua versificazione, che a volte toccano temi di ovvia configurazione nostalgica e di naturale precarietà della situazione umana, vengono riscattati da affacci lirici di intima e personale introspezione costruiti con immagini, figure, assonanze, scansioni simboliche e accostamenti naturalistici che recuperano il tempo della bellezza (“quel tempo, che sottovoce chiedeva custodia, /meritava carezze…”); che evocano pezzi di vita vissuti nei luoghi del cuore e sorsi d’alba, “quando è vicino il risveglio al mattino”; che esaltano “pensieri belli a soffocar rancori / per ritornare a camminare …”, e guidano gli occhi verso orizzonti capaci di “illuminare il buio” e di lasciare “un segno di dolcezza e non paura”.
In questa sua ultima raccolta “Dalla Tempesta al cielo” Cecilia Minisci offre dunque al lettore i temi a lei più cari: la natura, l’amore, il mistero della morte, il senso del tempo, degli affetti con una sintesi personalissima che oscilla tra le forme della tradizione e le immagini del suo sentirsi cittadina del mondo, con uno scavo interiore di sapore lorchiano e con un linguaggio intriso di allusioni, di similitudini e dell’uso continuo di metafore che hanno la capacità di trasportare il lettore in un universo dominato da forze e istinti ancestrali.
Non è irrilevante, in tal senso, che sia proprio il mondo mitico dell’infanzia, immaginato come continua scoperta della realtà, ad attraversare tutta la tessitura di questa raccolta, ove vagheggia un impossibile ritorno del perduto, il ricongiungimento con una fanciullezza edenica personale e umana, nonché il bisogno di sottoporre la realtà a un processo di trasformazione mediante un rapporto osmotico con gli elementi del mondo naturale. In questo scenario, quasi pittorico, ove spicca, a volte, l’uso accattivante di aggettivi, Cecilia Minisci si pone – direbbe Gianfranco Contini – come una “poetessa visiva” che riesce, con i suoi occhi e l’estro immaginativo, ad unire realtà apparentemente inconciliabili.
I suoi versi colgono istanti emozionali che però perdurano nella sua fantasia creatrice. Se prendiamo, ad esempio, la poesia “Attesa”, si può notare come l’autrice nel cogliere, da un lato, l’istante ( quel “mondo” lontano / dove tanta vita è passata”) provando l’emozione della fugacità del tempo, dall’altro prolunga l’istante guardando in avanti con il suo io più profondo, che l’ apre alla speranza, che le fa dire che di là c’è qualcuno che l’attende: “Dove qualcuno mi aspetta, per Natale…/ e per tutte le volte che potrò tornare”.
L’istante poetico è, insomma, fortemente complesso: commuove, prova, invita e consola, è sorprendente e familiare al tempo stesso. Essenzialmente, l’istante poetico diventa nelle poesie della Minisci una relazione armonica di due contrari. Nel suo istante appassionato, v’è sempre un po’ di ragione; nel rifiuto ragionato, resta sempre un po’ di passione. Allora l’istante poetico diventa la coscienza d’una ambivalenza. Ma è di più, perché è una ambivalenza eccitata, attiva, dinamica. Nell’istante poetico, “l’essere” sale o discende, senza accettare il tempo del mondo che ricondurrebbe l’ambivalenza all’antitesi, il simultaneo al successivo: “Son pochi istanti, in un mutar di luci /d’incanto imbrunisce il color d’arancio, / ambrato divenire del tramonto…”.
Concludendo, ci pare di poter dire che tutta la poesia di Cecilia Minisci si muova dentro una sorta di scontro analogico tra il fluire del tempo e ‘l’istante’ come luogo di senso. E’ una “poetessa dello sguardo” armonico, e la sua virtuosa descrizione del fascino del cielo, della luna che “aspetta a dare il passo al nuovo giorno”, dell’ “estate con il sole e i suoi colori”, dell’ “autunno (che) regala un tappeto di foglie”, “del giovane pioppo in retto vigore”, di ”vecchie case dalle finestre chiuse”, del “mare che a sera si tinge d’arancio”, dell’ “Ulivo che parla di pace / l’alloro che narra la gloria”, viaggia dentro coordinate classicheggianti e di vivo umanesimo, dando ai suoi versi una impronta mistica, simbolica e musicale.
La sua poesia, pertanto, conosce la bellezza del sentimento, la forza della vita, il canto della memoria, il ritmo delle emozioni e il respiro del tempo, e tutto questo innalza il suo verso “con potenza indomabile d’amore” e per parlare al lettore con “carezze al cuore”.

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